
Il secolo breve di Eric, un comunista italiano
Il grande storico inglese si sentiva vicino al Pci, tanto da condividere i presupposti teorici, le derive tattiche e le conseguenze politiche che hanno segnato la sua parabola
Prima della sua morte nel 2012, Eric Hobsbawm era diventato quasi un tesoro nazionale in Gran Bretagna. Se non è mai stato uno storico “pop” o televisivo, il suo lavoro lo ha fatto conoscere a milioni di studenti e lettori. Il principale storico marxista britannico viene tuttavia facilmente depoliticizzato. I suoi sforzi, nei suoi ultimi anni di vita, per enfatizzare l’attualità di Karl Marx tendevano a sottolineare il suo ruolo di teorico della globalizzazione capitalista, anziché il suo attaccamento al progetto comunista.
In effetti Hobsbawm scriveva opere pionieristiche sulla storia della rivolta sociale, incentrata su calzolai o banditi, ma non era uno storico del comunismo. Nondimeno questi studi erano politici: legati al tentativo da parte del “gruppo degli storici” del Partito comunista britannico di riscoprire una tradizione nazionale di ribellione. Ma Hobsbawm non era per il Partito comunista della Gran Bretagna (Cpgb) quello che per il Partito comunista italiano (Pci) era Paolo Spriano, un intellettuale comunista che scrisse una storia documentata del suo stesso partito.
Vale quindi la pena chiedersi perché Hobsbawm sia rimasto nel Cpgb, che non è mai stato un partito di massa (non ha mai contato più di 55.000 iscritti), fino al suo scioglimento nel 1991. È un luogo comune individuare il 1956 come il vero momento della scelta: quell’anno, la denuncia kruscioviana di Stalin e poi l’invasione sovietica dell’Ungheria ha scosso il movimento comunista internazionale, fu uno shock morale che portò la maggior parte dei colleghi di Hobsbawm a rompere con il Cpgb. In questa narrazione, Hobsbawm viene spesso descritto come se si fosse trattenuto nei ranghi di partito per una lealtà residua, esprimendo le peculiarità di un ebreo fuggito dalla Germania nazista e che aveva vissuto l’epoca d’oro dell’antifascismo comunista.
Eppure Hobsbawm oltre ad essere un iscritto del Cpgb si è anche dichiarato un «membro spirituale» del Pci. Attraverso i suoi legami personali, le sue conferenze e la sua scrittura, ha costruito un rapporto duraturo con il più grande partito comunista dell’Occidente, una forza emersa dal Comintern staliniano per indicare una visione democratica e riformatrice della trasformazione, mai realizzata.
Hobsbawm riteneva che il Pci fosse promotore di una visione alternativa del progresso sociale e di una vasta strategia di alleanza in grado di superare l’intera divisione che ha strutturato la Guerra Fredda. La cosiddetta “via italiana al socialismo”, nata dal periodo antifascista, era in tensione non solo con il “socialismo reale” negli stati dell’Est, ma anche con il modello leninista del 1917. Per Hobsbawm, il partito italiano non era semplicemente “nazionale” e idiosincratico. Anzi, gli sembrava offrire un corso diverso sia dal socialismo burocratico sia dalla socialdemocrazia, rilevante oltre i confini italiani.
Nel 1991 il Pci è arrivato all’impasse della sua “via”: Hobsbawm aveva sottovalutato la sua reale dipendenza dalle dinamiche della Guerra Fredda. Tuttavia, se ha accusato coloro che hanno dissolto il partito di «buttare via il bambino e mantenere l’acqua sporca», un’indagine più attenta dei suoi rapporti con quadri come Giorgio Napolitano, e della sua riflessione sulla Gran Bretagna, mostra come Hobsbawm condividesse molti degli stessi presupposti che hanno portato al collasso del Pci.
Gramsci
Nelle sue molteplici interviste Hobsbawm ha raccontato diverse versioni del suo primo contatto con il Pci. In un’intervista rilasciata nel 2007 si è concentrato sulla situazione postbellica, parlando di Antonio Gramsci
Credo che, in Gran Bretagna, siamo stati tra i primi ad accorgerci di Gramsci, principalmente a causa dei molti soldati britannici che tornarono in patria dopo aver combattuto la guerra in Italia, ove avevano sentito parlare di lui. Credo sia stato proprio tramite alcuni di loro che anch´io sentii parlare di Gramsci per la prima volta: da uomini come il poeta Hamish Henderson, ottimo scrittore, gran bevitore, scozzese, che fu tra i primi a tradurre le Lettere dal carcere, e da diverse altre persone, che mi sollecitarono a prendere personalmente contatto con i suoi testi. Uno di essi [e qui si riferisce a Louis Marks] fu il primo a realizzare un´antologia dei testi di Gramsci in Inghilterra, negli anni Cinquanta, The Modern Prince, forse la prima raccolta pubblicata fuori dall´Italia.
Qui Hobsbawm è un po’ modesto: l’antologia del 1957 fu pubblicata in parte grazie alla sua insistenza. E aveva già un precedente impegno con l’Italia, in particolare grazie ai suoi stretti legami con l’economista comunista Maurice Dobb e il suo collega Piero Sraffa. Sembra che Sraffa e Hobsbawm si siano incontrati per la prima volta a Cambridge nel 1950 durante la fallimentare campagna per far diventare il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru il rettore dell’università (non ottenne il ruoloche aveva il colonialista Jan Smuts). Forse a parte la cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, negli anni Trenta Sraffa è stata la figura più decisiva nei contatti tra Gramsci e il centro estero del Pci.
Il racconto di Hobsbawm dei soldati di ritorno dal fronte che parlano di Gramsci sembra un po’ romantico. Durante il periodo bellico il marxista sardo fu invocato molto più come martire antifascista e mito originario per il Pci che discusso per il suo pensiero originale. In effetti, i suoi Quaderni del carcere (la cui esistenza è stata rivelata da l’Unità nell’aprile del 1944) non furono pubblicati fino a dopo la guerra. Un primo volume delle Lettere dal carcere fu pubblicato in italiano nel 1947, mentre un’edizione ridotta e tematica dei Quaderni del carcere apparve dal 1948 al 1951. Questa operazione sarebbe stata impossibile senza la mediazione di Sraffa, ma anche negli anni Cinquanta l’economista italiano con modestia si è astenuto dal dire a Hobsbawm il ruolo che aveva interpretato.
Come Anna Di Qual descrive nella sua brillante tesi di dottorato sui legami italiani di Hobsbawm, lo storico fiorentino Delio Cantimori ha avuto un ruolo particolare nell’arrivo di Hobsbawm in Italia. La sua prima visita a Roma avvenne alla fine dell’agosto del 1951. Cantimori, che lasciò il Pci nel 1956, fu un appassionato studioso di eretici e utopisti del diciottesimo secolo, con ovvie sovrapposizioni con le storie di Hobsbawm sulle ribellioni sociali avvenute prima della nascita del movimento operaio (la visita in Sicilia dello storico britannico nel 1953 si rifletteva anche nei suoi Primitivi Ribelli). Un primo contatto con Gramsci, nell’anno della pubblicazione dei Quaderni del carcere, permise a Hobsbawm di approfondire la propria comprensione di come scrivere la storia dei subalterni, e di farlo in connessione con la storia nazionale: parlando non solo di vittime, ma protagonisti.
Come scrisse Hobsbawm nel suo articolo del 1974 The Great Gramsci, la contraddizione qui stava nel fatto che Gramsci venne rianimato come un pensatore “eterodosso”, distinto dalla tradizione stalinista, anche perché la sua detenzione negli anni Trenta aveva mantenuto il suo lavoro al di sopra della mischia delle decisioni prese dal Comintern tra le due guerre; eppure, allo stesso tempo, poteva essere recuperato proprio grazie al fatto che il segretario del Pci Palmiro Togliatti era sempre rimasto fedele a Stalin, e quindi godeva del capitale politico necessario per integrare Gramsci in un canone marxista-leninista superficialmente ortodosso senza suscitare polemiche.
Questa contraddizione fu brevemente attenuata nel 1956 dopo il ripudio di Stalin da parte di Krusciov; come diceva Hobsbawm, questo fu il momento in cui Gramsci fu introdotto in Gran Bretagna (La raccolta di testi The Modern Prince era stata commissionata nello stesso anno, prima degli eventi ungheresi):
Il Rezeptiongeschichte [storia della recezione di Gramsci] inizia con il ventesimo Congresso del [Partito Comunista dell’Unione Sovietica nel 1956]. Per due decenni ha fatto parte del tentativo del movimento comunista internazionale di emanciparsi dall’eredità sia di Stalin che dell’Internazionale comunista.
Hobsbawm vide l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 come una «tragica necessità», ma criticò i partiti comunisti all’estero per aver semplicisticamente difeso la linea di Mosca. In effetti, si appassionò molto al cosiddetto “policentrismo” e a esperienze rivoluzionarie al di fuori del controllo diretto di Mosca – in particolare, ha anche visitato Cuba nel 1960. La sua ricerca di un percorso in grado di superare le linee di divisione stabilite dalle Guerra Fredda, tuttavia, si basava essenzialmente su una riedizione dell’alleanza antifascista già vista durante la guerra, unendo i comunisti alle forze liberali e democristiane.
Questo atteggiamento contraddiceva quello della nuova sinistra radicale emersa durante il periodo del ’68, che spesso attaccava i partiti comunisti proprio per il loro fallimento nel fronteggiare il capitalismo occidentale in modo più aggressivo e complessivo. A mo’ di esempio bisogna considerare la sua stretta amicizia con Renato Zangheri, il sindaco comunista di Bologna che ha attuato un programma di riforma nel governo locale, ma si è anche scontrato bruscamente con i movimenti sociali del periodo del ’77.
Compromesso storico
Il partito di Hobsbawm era piccolo: solo per breve tempo durante la seconda guerra mondiale il Cpgb superò i cinquantamila membri. Al contrario, il Pci era un partito di massa che faceva parte di un sistema politico modellato dalle linee di divisione della Guerra Fredda, ancora di più del Partito comunista francese (Pcf). Dopo la fine dell’alleanza antifascista, nel 1947 la Democrazia Cristiana spinse i comunisti e i socialisti fuori dalla coalizione e rimase al governo, da sola o assieme ad altri partiti, ininterrottamente fino al 1994.
Gli sforzi del Pci per uscire da questo vicolo cieco rappresentarono anche una ricerca globale di un percorso capace di superare le divisioni della Guerra Fredda e, in modo decisivo, una riaffermazione dell’alleanza antifascista. Cosa che fu particolarmente rilevante nel 1973, con il violento rovesciamento dell’esperimento socialista in Cile, un paese a cui erano molto interessati sia Hobsbawm che il Pci.
Segretario del Pci dal 1972 al 1984, fin dall’inizio Enrico Berlinguer sottolineò la necessità di un riavvicinamento con l’Italia cattolica. Ha basato questa politica sul forte rifiuto togliattiano del precedente anticlericalismo del Pci e sul suo conservatorismo sociale. Dal 1973 in poi Berlinguer ha sottolineato l’importanza di andare al di là di una semplice alleanza della sinistra godendo di una ristretta maggioranza parlamentare, come aveva fatto Salvador Allende in Cile. Per Berlinguer, era necessario introdurre il Pci nel governo nazionale e mostrare la sua “responsabilità” come forza istituzionale anche in un paese della Nato.
Se durante gli anni Cinquanta e Sessanta il Pci era cresciuto in voti in ogni elezione politica, dal 1970 aveva anche costruito nuove basi nei governi regionali. Le elezioni del giugno 1976 segnarono un progresso particolarmente sorprendente quando il partito di Berlinguer prese il 34,4 per cento dei voti per la camera dei deputati, contro il 38,7 per cento per i democristiani. Ciò fece pensare che fosse realistico che il Pci sarebbe finalmente potuto diventare il primo partito nel Paese.
La strategia berlingueriana del “compromesso storico”, che ha visto il Pci dare il suo sostegno passivo (di “non sfiducia”) a un governo democristiano (senza assumere ruoli ministeriali), è stato progettato per permettere ai comunisti di entrare nel mainstream repubblicano, senza disturbare lo stato italiano e la sua posizione internazionale. Posizione che comportò sia una forte critica del terrorismo di estrema sinistra che un abbraccio dell’”ombrello nucleare” americano.
Lo stesso Hobsbawm ha elogiato appieno l’approccio di Berlinguer: in effetti, oltre i suoi articoli sulla politica inglese pubblicati su Rinascita, ha anche scritto sull’Italia per un pubblico britannico, traendo anche lezioni italiane per la politica britannica. Ciò fu evidente nel suo articolo Forty Years of Popular Front Government“, in cui spiegava:
Il leader comunista italiano Berlinguer ha giustamente sottolineato che [ampie alleanze che vanno oltre la sinistra sono necessarie] in paesi come il nostro, anche se non ci sono fronti popolari. Anche se il Pci dovesse ottenere il 51 percento dei voti – o anche molto di più – e istituire un governo puro, dovrebbe comunque portare con sé la maggior parte del 49 per cento. L’analisi italiana della tragica esperienza cilena è che Allende ha fallito non semplicemente perché la sua Unità Popolare non era tecnicamente in grado di sconfiggere l’esercito, ma perché escludeva ampi settori della popolazione che avrebbe dovuto portare con sé, o almeno non gli fu permesso o non furono stimolati a diventare antagonisti.
Questo approccio è stato abbinato a una disposizione generale a rivedere l’idea di una definitiva e totale fine del capitalismo, associata alla tendenza eurocomunista che stava emergendo nei partiti comunisti dell’Europa occidentale. Se un quadro dirigente del Pci come Giorgio Amendola ha negato che il suo partito cercasse di creare una nuova leadership internazionale per sostituire quella di Mosca, l’iscritto al Cpgb Eric Hobsbawm si è rivolto al Pci per ispirare i partiti all’estero.
Ciò è stato evidente nei suoi dialoghi con Giorgio Napolitano, un rappresentante della destra interna del Pci – i cosiddetti miglioristi. Se nel primo dialogo tra i due del 1975la parola (peggiorativa) “eurocomunismo” non fu menzionata, nel secondo – dopo l’incontro del marzo 1977 a Madrid tra Berlinguer, il leader comunista francese George Marchais e il leader comunista spagnolo Santiago Carrillo – il Pci ha tentato di appropriarsi del termine.
Per Hobsbawm, il Pci non era interessante solo per le sue peculiarità nazionali. Nella sua ricerca di far rivivere l’alleanza antifascista degli anni Quaranta, e anzi nel suo tentativo di trascendere la logica binaria della Guerra Fredda, il Pci rappresentava un’alternativa autenticamente internazionale al modello sovietico.
Eppure rimase sospeso tra un semplice abbraccio della socialdemocrazia e un comunismo riformista – riformista nel senso letterale, cioè la ricerca di un percorso che porterebbe effettivamente al socialismo, ma per via di mosse graduali anziché di una rottura rivoluzionaria. Questo atteggiamento traspare da un commento fatto da Hobsbawm nel suo dialogo con Napolitano, pienamente in sintonia con lo spirito del compromesso storico:
In passato i comunisti hanno spesso commesso l’errore di sostenere che non esistono vie d’uscita oltre al socialismo, che il capitalismo non può superare le sue crisi. Era in grado di farlo in passato, e potrebbe essere in grado di farlo ancora; il problema è scegliere tra diverse soluzioni e non immediatamente una delle alternative tra socialismo e catastrofe.
L’accento posto sulla necessità di ampie alleanze e di soluzioni intermedie ha anche informato le proposte di Hobsbawm per la Gran Bretagna stessa. Significativo a questo proposito – come sottolineato da Di Qual – fu la conferenza tenutasi al Politecnico di Londra nel marzo del 1977, con l’aiuto finanziario dell’editore Cpgb Lawrence e Wishart, nel quarantesimo anniversario della morte di Gramsci. Organizzato su iniziativa di Donald Sassoon e Lucio Sponda, entrambi allievi di Hobsbawm, ha incluso anche la partecipazione dei gramsciani italiani Bruno Trentin, Giuseppe Vacca e Nicola Badaloni.
La conferenza ha fornito un retroterra intellettuale per un intervento hobsbawmiano molto più famoso, cioè la sua Marx Memorial Lecture tenutasi nel 1978, “The Forward March of Labor Halted?”. Già alla conferenza del 1977, Hobsbawm aveva affermato con fermezza una lettura politica di Gramsci e, oltretutto, la centralità della politica, «il fulcro non solo della strategia del socialismo vincente, ma del socialismo stesso». Questa affermazione aveva gettato le basi per la tesi essenziale di “Forward March”, che metteva in dubbio il potere strategico residuale del movimento sindacale e sottolineava la centralità del momento politico e di altri terreni della lotta per l’egemonia.
Questa lettura, che Hobsbawm avrebbe elaborato nel corso degli anni Ottanta, è stata forse più lenta a concretizzarsi in Gran Bretagna che in Italia. La sconfitta dello sciopero della Fiat a Torino nel 1980 non fu una battuta d’arresto generale per i sindacati, come fu lo sciopero dei minatori del 1984-85 in Gran Bretagna. Nondimeno, l’apice elettorale del Pci alle elezioni europee del 1984 – l’unica volta che è stato il primo partito in Italia – ha fatto ben poco per mascherare la sua perdita di direzione strategica.
Infatti, dopo il fallimento del compromesso storico (deragliato dall’assassinio del democristiano Aldo Moro nel 1978, favorendo anche l’affermazione di una linea anticomunista dura), il Pci affrontò momenti particolarmente difficili nelle elezioni politiche del 1979 e del 1983. La sua avanzata elettorale era stata fermata.
L’ascesa del ceto impiegatizio, aumentata proprio dopo la fine dei movimenti del 1977, contribuì a formare una nuova base elettorale per il Partito socialista italiano di Bettino Craxi, che uscì dall’ombra del suo fratello comunista. Nel 1983 Craxi fu nominato presidente del consiglio, in una coalizione dipendente dal più vasto blocco democristiano.
La crescita economica impressionante dell’Italia negli anni Cinquanta e Sessanta sembrava aver costruito una classe operaia industriale di massa. Ma esisteva solo per una generazione. E così, anche lì c’è stato un cambio generazionale nel Pci: la morte di Berlinguer ha significato che per la prima volta il partito non è stato più in mano alla generazione di leader formatasi nella Resistenza del 1943-45.
Tutto ciò ha seriamente compromesso la strategia e l’identità del Pci, e quindi la sua capacità di fungere da faro per comunisti stranieri come Hobsbawm. Infatti, dopo che Berlinguer dichiarò nel dicembre 1981, dopo il colpo di stato di Jaruselski in Polonia, che la spinta propulsiva del 1917 era ormai esaurita, ci si aspettava che il Pci avesse guardato sempre più all’estero – ai socialdemocratici tedeschi e al partito laburista britannico, o anche ai riformatori nell’Unione Sovietica come Yuri Andropov e Mikhail Gorbaciov, per incarnare una nuova visione europea del socialismo, superando la divisione dell’Europa della Guerra Fredda ma anche il quadro nazionale italiano.
Riforma fallita
Niente di tutto ciò è accaduto. Nella sua storia del Secolo breve nel 1994, Hobsbawm descrive il leader sovietico Gorbaciov come una «figura tragica[. . .] che ha distrutto ciò che voleva riformare e fu a sua volta distrutto»; in seguito criticò la dissoluzione del Pci con la memorabile metafora del bambino che veniva gettato mentre l’acqua sporca veniva mantenuta. Allo stesso tempo, mentre la posizione strategica del Pci si indeboliva negli anni Ottanta, Hobsbawm stesso tendeva a seguire la scia della sua deriva verso punti di riferimento socialdemocratici o addirittura liberali, trascinati dietro un amorfo europeismo sociale.
Ciò è evidente in un’intervista rilasciata a l’Unità nel giugno del 1989 in cui lo storico sosteneva il bisogno dello «sviluppo di una nuova sinistra in Europa», necessario «perché bisogna costruire un’azione nella dimensione continentale. Fino ad ora i movimenti politici della sinistra hanno pensato per lo più in termini nazionali, locali. Adesso non basta più.» In effetti furono gli alleati di Hobsbawm nell’ala più riformista del Pci – non ultimo Giorgio Napolitano, dal 2006-2015 presidente della Repubblica italiana come membro del Partito Democratico – che guidarono la corsa verso “l’Europa” come soluzione ai mali italiani, e come identità politica in grado di sostituire quella comunista ormai scartata.
Scrittore dell’Invenzione della Tradizione, Hobsbawm sapeva bene che l’identità politica era qualcosa di fluido; la sua continua appartenenza comunista era radicata nel frontismo popolare antifascista degli anni Trenta, ma anche capace di cambiare e di assumere sfumature nuove. E in questa intervista del 1989 ha anche accennato a una critica all’idea di ricominciare da capo:
i nostri movimenti l’hanno anche cambiata la loro tradizione. Quando c’è una ragione bisogna lasciare, essere flessibili. Per una cosa essa è comunque davvero importante per la sinistra, per ricordarsi che non siamo gli ultimi venuti, che siamo i più vecchi movimenti esistenti in Europa per migliorare la situazione della gente comune, del popolo. E in questo c’è orgoglio e forza. La storia non è cosa da trascurare, anche la nostra propria storia. Senza mitizzarla.
La caduta del socialismo sovietico non portò all’affermazione della “via italiana” del Pci, ma ne fece semplicemente esplodere le contraddizioni. Negli anni Novanta e Zero i suoi leader hanno gettato le basi del Partito democratico odierno, una forza ex comunista e liberale anziché socialdemocratica. Il bambino fu buttato via e l’acqua sporca mantenuta: il gradualismo opportunista e l’identificazione elitista con il potere istituzionale sono rimasti, mentre la promessa del cambiamento sociale è stata abbandonata; il riferimento a Gramsci è stato attenuato e reso una pura mitologia. Nel frattempo il Partito della rifondazione comunista (Prc)rimase intrappolato nelle dinamiche storiche di quel partito e con i suoi legami con le forze che avrebbero creato il Partito Democratico.
Negli anni successivi Hobsbawm avrebbe elogiato il libro Il sarto di Ulm di Lucio Magri, una rara riflessione critica sulla storia del Pci. Ma è difficile ignorare il fatto che mentre dissidenti come Magri, appartenenti al gruppo del Manifesto – come ad esempio Rossana Rossanda e Luciana Castellina – hanno prodotto una preziosa riflessione sulla storia del Pci, le figure che erano più vicine a Hobsbawm hanno assunto una visione molto più sprezzante, come se dovessero semplicemente prendere le distanze da un passato imbarazzante. Se la retorica sull’unità nazionale del Pci aveva da tempo avuto un impulso conservatore, nel periodo di crisi post-2008, l’allora presidente Napolitano lo usò per chiedere un inasprimento dell’austerity.
Non si può dare ad Hobsbawm la colpa dei fallimenti del Pci, o ancora meno di ciò che è successo dopo la sua scomparsa. Un marxista in un paese il cui Partito Comunista era al massimo in grado di esercitare una esigua influenza sul Labour, guardava al Pci come portatore di una visione alternativa del progresso sociale, una vasta strategia di alleanze in grado non solo di cambiare la politica italiana ma di superare l’intera divisione creata dalla Guerra Fredda.
La speranza che aveva è finita con la fine del blocco sovietico; e al momento della morte dello storico nel 2012, la sinistra politica era in una fase di stasi in Gran Bretagna come altrove. Ma a trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, con il liberalismo in crisi ovunque, forse la storia può iniziare a combattere un nuovo capitolo.
* David Broder è uno storico e traduttore inglese, redattore europeo di Jacobin Usa. Qui l’articolo originale uscito su jacobinmag.
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