Il mito della neutralità dell’economia
Draghi ripropone la narrazione sulla presunta obiettività delle leggi economiche. Il suo obiettivo è rendere più competitivo il paese, ma è proprio l'esasperata ricerca della competizione a comprimere diritti e condizioni di vita
Il governo di Mario Draghi è l’ennesimo esperimento partorito dalle classi dirigenti italiane per uscire dalla crisi di un paese che eppure hanno in mano da decenni. Dopo oltre dieci anni di crisi economico-finanziaria l’antipolitica ha perso la propria occasione e le opzioni politiche eterodosse hanno dilapidato un patrimonio. Nazional-populismo e grillismo hanno perso mordente, finendo per autoisolarsi. Svilendo l’ambizione di dotare il popolo di una rappresentanza autentica.
I partiti di impronta populista sono saliti alla ribalta con un percorso troppo breve, troppo intenso, e infine hanno rilevato la loro inadeguatezza in termini di competenze, cultura politica, banalmente preparazione. La mancata gavetta all’opposizione e la mancata relazione con i soggetti sociali che volevano rappresentare (e che l’atomizzazione sociale rende progetto sempre più difficile da perseguire) hanno impedito loro di essere all’altezza con l’appuntamento del governo del paese. Da qui la sensazione che, anche in una fetta di popolo che sia da destra che da sinistra ha guardato con interesse agli ultimi due governi, ci sia una stanchezza, o meglio un’insicurezza, nel continuare a puntare su un’opzione rivelatasi al di sotto delle aspettative, quando non chiaramente scadente. Da qui un certo effetto tranquillizzante del governo Draghi, figura dal prestigio internazionale, e la fiducia nei suoi tecnici che non faranno politica (a proposito della tanto condannata antipolitica!), ma che assumono ruoli chiave nei ministeri con portafoglio.
A meno di dieci anni dall’ultima, ma non unica, esperienza di tecnici al governo con Mario Monti, ritorna al comando la competenza versus l’incompetenza. Richiamare Monti, però, non significa riportare indietro le lancette della storia. Banalizzeremmo le differenze di contesto, le difficoltà specifiche attuali e gli spazi di manovra a disposizione oggi rispetto a ieri. Il ritorno dei tecnici è lo stesso, ma la missione, a fare attenzione, appare piuttosto diversa. Intanto il quadro non è semplicemente basato sull’austerità, come dieci anni fa, ma su espansione monetaria e fiscale tesa a contrastare la recessione pandemica. Inoltre la squadra di governo è un misto di tecnici e rappresentanti politici di quasi tutti gli schieramenti. Ci sarà pure una cabina di regia degli uomini di Draghi, ma la politica sarà coinvolta eccome. I partiti non saranno solo portatori di voti parlamentari, ma veicoleranno la politica governativa nei propri dicasteri, parteciperanno all’elaborazione e alla ricerca di punti di equilibrio condivisi. Quanto durerà è difficile da prevedere. È possibile che Draghi tra un anno diventi presidente della Repubblica o che alcune forze in un tempo imprevedibile si defilino. Quel che appare credibile intanto è che in qualche modo si arrivi a fine legislatura, e non solo per ragioni onorevoli.
Leggendo l’elenco dei neoministri e ascoltando il primo intervento di Mario Draghi al Senato sembra che questo governo punti al ritorno all’efficienza della politica, in particolare quella economica, coniugandola con alcuni capisaldi apparentemente progressisti: ecologia, lavoro, parità tra i sessi. E partendo da qui punti a reimpostare il sistema socio-economico. I termini per ora restano fumosi e generici, non c’è un vero e proprio programma di governo. L’economia di mercato deraglia da dieci anni e Draghi sembra consapevole che sia necessaria una netta sterzata. Consapevolezza emersa recentemente anche nella dichiarazione di Emmanuel Macron che «il capitalismo non può più funzionare». Meno evidente è comprendere in che direzione potrebbe andare la sterzata. L’impressione è quella di un ritorno del primato della tecnica in economia. Il fascino della neutralità dell’economia, la forza di una presunta obiettività, slegata da ideologie e condizionamenti impropri. Una strada per uscire dall’impasse e dalle sofferenze che sarebbe tracciata dal buon senso suggerito dalle leggi economiche «naturali».
Draghi, però, non sarà semplicemente un ortodosso del liberismo, come non praticherà indistintamente l’austerità. Egli prevede «un aumento significativo del debito pubblico» come affermato già lo scorso marzo in un famoso intervento sul Financial Times, oppure come dichiarato al meeting di Comunione e Liberazione ad agosto, distinguendo tra debito buono e cattivo. Esattamente come ha previsto a suo tempo un uso monetario espansivo contro la crisi dei debiti sovrani. La «distruzione creatrice» che anche in questo caso si affermerà, sarà controllata e selettiva, seguendo una logica modernizzatrice. L’innovazione determinerà quali aziende salvare in quanto si ritiene abbiano ancora una prospettiva e quali lasciar morire. I costi di tali operazioni vengono in genere sottovalutati per l’occupazione in termini di qualità e quantità: raramente in questi ultimi decenni il ricambio di addetti a seguito di processi di ristrutturazione e innovazione hanno consentito a un numero perlomeno equivalente di occupati di godere delle medesime condizioni di reddito, qualifiche, stabilità.
Il vero obiettivo, dunque, è quello di trasformare il paese per renderlo più competitivo e attraente su scala internazionale. Ma tale ambizione ha dei costi sociali di cui non si parla. Ad ogni modo, considerando l’incerto quadro generale dell’economia e la tendenza a una ritrovata conflittualità su scala più regionale, vi sarà probabilmente un’attenzione a non eccedere in una macelleria sociale che impoverirebbe oltremodo domanda e consumi interni. Lo Stato recupererà una nuova missione al servizio del mercato. Ci sarà allora un po’ più di «capitalismo politico» per reggere, e sorreggere, l’economia privata dentro un quadro generale di ripiegamento locale perdurante sul piano economico, produttivo e commerciale.
Il primato dei meccanismi di mercato resta nei fondamentali. Quando il presidente del consiglio denuncia la mancanza di parità di genere, ad esempio, mette in evidenza «gap salariale» e necessità di un «sistema di welfare», ma a monte presuppone che «siano garantite parità di condizioni competitive di genere». La molla per il funzionamento corretto tanto dei meccanismi economici quanto tra i sessi resta la competizione, condita da una presunta meritocrazia. Ma siamo sicuri che è proprio di maggiore, seppur equa, competizione che abbiamo bisogno? Oppure è proprio l’esasperata competizione a comprimere diritti, condizioni di vita, vincoli ambientali e fiscali?
Draghi ha riconosciuto che le risorse sono «scarse», perciò ci sarebbe urgenza di tasse fortemente progressive, redistribuzione di redditi e poteri nella società. Altrimenti la lotta alle diseguaglianze rischia di essere solo una petizione di principio. Su quest’ultimo aspetto Draghi propone una riforma contestuale, evitando di rivedere le tasse una alla volta, aggirando così le spinte dei vari gruppi di pressione. Il modello che annuncia, però, è quello della riforma danese del 2008, ove l’aliquota più alta è stata abbassata e la soglia di esenzione per i redditi bassi è stata alzata. Una rimodulazione del principio di progressività che sottende la logica secondo cui bisogna obbligatoriamente continuare a diminuire le tasse. Ma questa diminuzione parte proprio da quelli che le tasse dovrebbero pagarle di più. Competitività fiscale, dunque, per attrarre investimenti, produrre crescita e sviluppo: il solito volano che dovrebbe in ultima istanza convenire a tutti. Peccato che solo la riduzione delle tasse sia l’elemento certo, molto meno la crescita, ancor meno la riduzione delle diseguaglianze a fronte di aliquote uniche sui redditi.
L’azione di governo potrebbe risultare ragionevole in un primo momento e il coro massmediatico all’unisono favorirà probabilmente tale percezione positiva nell’opinione pubblica. Il rischio, poi, come spesso accade, è che i fatti abbiano la testa più dura.
*Marco Bertorello collabora con il Manifesto ed è autore di volumi e saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico(Alegre).
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