Astinenza monetaria
Le politiche contro la crisi continuano a essere affidate alle banche centrali e non ai governi. La droga monetaria doveva solo far ripartire l’economia invece ha creato dipendenza. Svelando una ripresa finanziaria ma non economica
I rumor su un ritorno della moneta facile sono in aumento, ammesso che si possa parlare di ritorno, dato che le politiche monetarie espansive negli ultimi anni si erano semplicemente fermate, ma non erano certo state azzerate o riassorbite. La quantità di moneta in circolo, infatti, ha iniziato un moderato percorso a ritroso unicamente negli Usa. Mediante la progressiva sterilizzazione dei titoli acquistati nel ciclo post-crisi.
Ecco ora che tornano nel lessico della modesta ripresa globale la riduzione dei tassi d’interesse e persino il Quantitative easing. E solo a nominarle queste parole producono un recupero degli andamenti borsistici. Se ne parla da alcune settimane con una crescente insistenza da entrambe le sponde dell’Atlantico. Negli Usa per la Fed si ipotizzano entro la fine dell’anno un paio di tappe in cui si abbasserebbero i tassi d’interesse, in Europa Mario Draghi ha appena rinviato di altri sei mesi, cioè fino alla metà del 2020, l’innalzamento dei tassi. Entrambe le banche centrali sottolineano come stiano monitorando le difficoltà del contesto internazionale e siano pronte a intervenire nuovamente con modalità che ancora vengono definite «non convenzionali», nonostante siano state appena sospese dopo un lungo periodo di interventismo monetario.
A distanza di oltre dieci anni dall’esplosione della crisi globale si può affermare, senza tema di smentita, che il principale protagonista delle politiche anticicliche siano state proprio le banche centrali e le loro politiche monetarie. Queste hanno arrestato la crisi riuscendo a evitare un’ulteriore precipitazione che sarebbe stata dalla portata sistemica. La moneta facile ha costituito un surrogato di quello che un tempo furono le politiche fiscali. Gli Stati sempre più indebitati non sono riusciti, e in molti casi non hanno voluto, intervenire e hanno lasciato spazio alle rispettive banche centrali. Una scelta assolutamente conseguente agli assetti economico-finanziari contemporanei, dove si è andata affermando una ritirata strategica delle politiche fiscali progressive e una destrutturazione del welfare e della sfera pubblica.
A ciò va aggiunta l’elevazione a tecnica assoluta dei meccanismi di mercato, i quali hanno svolto la funzione di bussola per ogni problema. Le modalità di vita del mercato hanno dettato le forme di qualsivoglia intervento nell’economia, ogni criterio a esso estraneo è stato espulso dalla governance, secondo il principio che non c’è economia al di fuori del mercato. La moneta rimane l’unica arma non convenzionale fruibile per arginare la crisi senza scoprire il mancato ruolo di autosufficienza dei meccanismi di mercato. La moneta cioè rientra apparentemente nell’alveo della tecnicalità pura dell’economia, come se fosse uno strumento estraneo alla funzione statuale. Con la moneta si è potuto salvare il sistema, lasciando sembrare che fosse il sistema stesso a salvarsi con le proprie mani. Rimuovendo il fatto che tra i prerequisiti della moneta ci siano proprio le garanzie che lo Stato a monte è in grado di dare perché funzioni come strumento credibile di scambio.
Detto ciò si tratta di registrare quanto sta accadendo in questi giorni. Il ciclo si è ripreso sul piano finanziario, molto meno su quello economico. Non a caso le iniezioni monetarie si sono concentrate proprio sul piano finanziario, finendo per sgocciolare poco su quello strettamente economico, acuendo le diseguaglianze e soprattutto non consegnando una solida ripartenza. Certo ora si parla di un ciclo tra i più longevi che si sia conosciuto, ma non si sottolineano a sufficienza gli squilibri e l’instabilità sotto i quali è andato sviluppandosi. E si parla di una sua possibile e imminente fine, come fosse un effetto naturale. Quel che non si dice è come tale ripartenza abbia a mala pena riportato le lancette indietro allo scoppio della crisi, fatto salvo gli eccezionali rally di Borsa. Quel che non si sottolinea è come l’ultimo ciclo da un lato abbia concentrato ulteriormente la ricchezza perlomeno nei paesi maturi e dall’altro sia stato il frutto di una droga monetaria da cui il sistema non sembra più in grado di emanciparsi. La sola Bce, cioè la banca centrale con maggiori vincoli e dunque quella che è intervenuta per ultima e in modo più contenuto, ha stampato 2.600 miliardi di euro. Complessivamente si parla per tutte le banche centrali di qualcosa come 15.000 miliardi di dollari dall’inizio della crisi. Ora, nonostante alcuni dati incoraggianti anche sul versante dell’economia reale, in particolare negli Usa, le sirene della droga monetaria tornano a cantare con insistenza.
Il primo è stato il presidente Trump che ha iniziato a polemizzare con la Fed e con il suo presidente (suo nel senso che lo ha nominato proprio lui). Trump ha iniziato ad accusare la propria banca centrale di non favorire la ripresa, di non vedere le nubi all’orizzonte dell’economia mondiale e dunque di essere legata a obsoleti fondamenti di teoria economica non in grado di difendere l’economia reale a stelle e strisce. Polemiche sulla medesima lunghezza d’onda sono state rivolte da Erdoğan alla propria banca. La politica sovranista da un lato alimenta guerre commerciali e dazi dall’altro vuole politiche monetarie espansive per reggere l’urto delle politiche economiche di stampo nazionale. Nell’attuale quadro di tendenziale stagnazione neppure gli attori finanziari, apolidi per definizione, sconfessano le richieste di stampo sovranista sulla moneta espansiva. Quel che si teme è un ulteriore rallentamento dell’attuale economia piuttosto che una nuova crisi a cui mancherebbero le politiche monetarie ormai esaurite in precedenza. Una visione a breve termine, tipica di questa fase, che non è in grado neppure di tollerare una flessione del mercato finanziario oggi, benché il rischio sia quello di restare senza armi domani.
La crisi globale è esplosa a causa di un eccesso di debito privato a cui in Europa si è aggiunta quella di un eccesso di debito pubblico (in tanti casi frutto dell’assorbimento di quello privato); ora stabilizzatosi il contesto si registra una fiacca ripartenza. La droga monetaria che doveva costituire un intermezzo per far ripartire l’economia ha creato invece dipendenza, svelando quanto sia assente una parabola autonoma di crescita. Attualmente non c’è autosufficienza nei meccanismi di mercato. Una recessione forse non è dietro l’angolo come alcuni paventano (in genere quando è troppo attesa la crisi non scoppia), ma continuare ad alterare i fondamentali attraverso moneta facile per tirare solo a campare non può rappresentare una strategia di ampio respiro. Nel dibattito maistream i soli banchieri centrali sembrano consapevoli del problema. Non certo le classi dirigenti nel loro complesso, siano politiche o economico-finanziarie.
*Marco Bertorello collabora con il Manifesto ed è autore di volumi e saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre).
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