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Dissacrare Berlinguer
Dopo una mostra di successo dedicata all'ultimo grande leader del Pci, ecco la prima tv di «Berlinguer ti voglio bene». Film che racconta lo spaesamento della base comunista, non santifica il segretario come troppi fanno in forma consolatoria
Enrico Berlinguer è stato il leader più amato della storia del Partito comunista italiano, l’unico in grado di portare il Pci sopra il 30% dei consensi, fino al sorpasso della stessa Democrazia cristiana ottenuto proprio quarant’anni fa, pochi giorni dopo la sua prematura scomparsa. Con più di un milione di persone in piazza a Roma, il suo è stato il funerale più partecipato che si ricordi di un leader politico.
Roberto Benigni è l’attore comico italiano più popolare e conosciuto al mondo, con all’attivo un premio Oscar con La vita è bella e alle spalle una serie di film cult – da Non ci resta che piangere a Johnny Stecchino – trasmessi in Tv innumerevoli volte.
Benigni che prende in braccio Berlinguer sul palco di un comizio del Pci nel 1981, dimostrandogli quanto gli vuole bene, è una delle icone più celebri di entrambi i personaggi, affissa in quegli anni alle pareti delle sezioni e delle Case del popolo di tutta Italia, e ampiamente utilizzata anche nella Mostra dedicata a Berlinguer appena conclusasi a Roma all’ex Mattatoio, con un successo di pubblico intergenerazionale impressionante.
Il film che tutti citano ma pochi hanno visto
La cosa strana è che il film che tiene insieme questi due grandi personaggi – Berlinguer ti voglio bene del 1977 – con regia di Giuseppe Bertolucci (fratello del più celebre Bernardo) e Roberto Benigni come sceneggiatore e protagonista, non solo fu un flop totale al cinema, ma è l’unico film di Benigni a non essere mai stato trasmesso in televisione nei 46 anni successivi, fino alla tarda serata del 4 marzo 2024 su La7 subito dopo la puntata de La Torre di Babele di Corrado Augias dedicata a Berlinguer. Lo stesso Pupi Avati, produttore del film, ha sempre ripetuto di essere «l’unico produttore che con Benigni ci ha rimesso». Com’è possibile?
Molti pensano di aver visto Berlinguer ti voglio bene avendone visto solo qualche spezzone; alcuni confondono il film con l’immagine di Benigni che prende in braccio il segretario comunista; quasi tutti pensano di sapere grossomodo di cosa parla: è un film dedicato da Benigni al più amato segretario del Partito comunista; oppure è un film sulla corrispondenza d’amorosi sensi tra la classe operaia di quegli anni e il loro leader Enrico Berlinguer.
Quest’ultima sembra essere anche l’idea che si era fatto Augias nel preparare la puntata, tanto che, nel dialogo con Benigni che precede il film, inizia malinconico dicendo: «Questo film narra di un Italia che oggi non c’è più, di rapporti sociali che non ci sono più…». Benigni salta sulla sedia e lo ferma subito: «Mi permetta di dissentire… Non è che il mondo del film non esiste più, semmai il film parla di un mondo che deve ancora arrivare. I critici non lo capirono perché si trovarono il vento del nuovo che gli soffiava in faccia. È indefinibile, è sia un film porno che un film politico. È il comunismo vissuto come una fiaba, perché il comunismo e il marxismo non sono una scienza, ma un grido di dolore. Non c’è mai una frase che non si rivolga ai genitali o alle parti basse del corpo: è liberatorio come per i bambini dire le parolacce. Il turpiloquio è talmente osceno da diventare lirico. Era così avanti che non fu capito: i proprietari dei cinema sospendevano le proiezioni scusandosi con il pubblico, e alla prima a Bari sputarono in faccia al co-produttore Gianni Minervini». Alla fine Benigni esplicita con una battuta il sospetto che Augias non abbia idea del film che sta presentando: «Le consiglio di rivederlo!».
C’ha trombato la miseria
Il film, pur affettuoso con Berlinguer, è infatti il contrario della santificazione. Racconta la vita di personaggi surreali, o iperreali, che rappresentano una giovane classe operaia completamente disorientata, con in seno una contraddizione insanabile tra una base che sogna una rivoluzione – seppur più in termini di riscatto esistenziale che di stravolgimento politico – e un vertice che appare lento, se non completamente immobile. La contraddizione tra base e vertice non porta a una rottura, a un disconoscimento, perché permane un rapporto sentimentale, se non fideistico, con il leader, a cui non si può non voler bene. C’è però un profondo disorientamento, con atei e bestemmiatori inarrestabili che a un certo punto si convincono dell’esistenza di Dio, e una continua e disperata ricerca dell’orgasmo (la rivoluzione, appunto) che però non arriva mai.
Nel ‘77 – e nei 46 anni successivi senza passaggi televisivi – probabilmente hanno scandalizzato le oscenità, il linguaggio sessista e i turpiloqui strabordanti, e al Pci di quel film così dissacrante conveniva valorizzare solo il titolo affettuoso. Ma più in generale forse non fu compresa la perturbante metafora tra sesso, politica e appartenenza di classe resa nel film in modo magistrale dalla filastrocca dell’amico Bozzone (Carlo Monni):
Lo posso grida’ forte/ fino a diventa’ fioco/ no’ semo quella razza/ che tromba tanto poco./ Noi semo quella razza/ che al cinema s’intasa/ pe’ vede’ donne ‘gnude/ e farsi seghe a casa./ Eppure, la natura ci insegna/ sia su’ i monti, sia a valle/ che si po’ nascer bruchi/ pe’ diventa’ farfalle./ Noi semo quella razza/ che l’è tra le più strane/ che bruchi semo nati/ e bruchi si rimane/ Quella razza semo noi/ l’è inutile far finta:/ c’ha trombato la miseria/ e semo rimasti incinta.
Spaventapasseri
Nonostante gli sforzi, il campo coltivato da Cioni Mario nel film (per anni mitico alter ego di Benigni) non da alcun frutto. Nasce solo un fungo. Velenoso, ma che non uccide. Mario piazza sullo spaventapasseri nel campo arido un’immagine del volto di Berlinguer. Al segretario si vuole sempre tanto bene, ma in effetti sembra che la sua linea politica, a parte i passeri, spaventi poco.
Il partito era cresciuto continuamente nel decennio precedente, sulla scia delle lotte del Sessantotto e poi dell’autunno caldo operaio. Ma subito dopo il golpe in Cile del ‘73 Berlinguer inizia a elaborare la strategia del Compromesso storico con la Democrazia cristiana. L’Italia non è il Cile da tanti punti di vista, ma il leader comunista è convinto che se il Pci dovesse mettere in piedi un’alternativa di governo insieme ai socialisti l’Italia farebbe la fine del Cile. Non solo quindi non c’è nessuna rivoluzione all’orizzonte, al governo non si va nemmeno in caso di vittoria elettorale. Il 51% dei consensi alle sinistre non basta.
Berlinguer nel 1974 cerca un compromesso con la Dc persino sul divorzio, convinto che il referendum sarebbe stato perso. Viene trascinato controvoglia solo all’ultimo momento nella campagna referendaria dei Radicali. In realtà la società è cambiata dopo il Sessantotto e il 60% degli italiani disobbedisce all’indicazione del Vaticano e vota per il diritto a divorziare. Per la Dc è una batosta che precede quella delle elezioni amministrative e regionali del ‘75 in cui il Pci ha un grande successo tanto che, in un’ipotetica somma dei consensi raccolti in quella tornata elettorale da Pci, Psi, Radicali, Socialdemocratici (Psdi) e Democrazia proletaria, il fatidico 51% sarebbe stato superato. Si tratta di una sommatoria matematica, sicuramente molto più difficile da tenere insieme politicamente, ma la questione dell’alternativa all’eterno regime democristiano si pone, ed è sostenuta soprattutto dalla sinistra del Psi che fa capo a Riccardo Lombardi che vuole metter fine all’epoca dei governi di centrosinistra. Del resto localmente la possibile alternativa arriva con le giunte rosse del sindaco socialista di Milano – Carlo Tognoli – e dei sindaci comunisti di Torino, Napoli e Roma – Diego Novelli, Maurizio Valenzi e Giulio Carlo Argan.
La base inizia davvero a sognare il sorpasso della Dc nelle imminenti elezioni politiche. Anche il contesto europeo è promettente: nel 1974 c’è la rivoluzione dei garofani in Portogallo, nel 1975 finisce il franchismo in Spagna, nel Regno Unito governano i laburisti, in Germania sono al governo i socialdemocratici, in Francia cresce il cartello elettorale che tiene insieme socialisti e comunisti, che da lì a qualche anno arriverà al governo con la presidenza di François Mitterand.
Berlinguer rifiuta però di perseguire la proposta politica dell’alternativa che, indipendentemente dalle concrete possibilità di riuscita, avrebbe potuto dare una prospettiva politica ai dieci anni di movimenti del nostro paese. Dopo aver detto che temeva un colpo di Stato orchestrato dalla Cia in caso di governo delle sinistre, alla vigilia delle elezioni politiche del ‘76 dichiara, in modo apparentemente contraddittorio, di sentirsi «più sicuro sotto l’ombrello della Nato che sotto il Patto di Varsavia», nel tentativo di rendere digeribile anche oltre Atlantico l’entrata nell’area di governo insieme alla Dc. I risultati delle elezioni sanciscono il grande balzo del Pci dal 27,2% al 34,4%, ma il sognato sorpasso non c’è: la Dc cresce rispetto alle ammnistrative arrivando al 38,7% e cannibalizzando gli altri partiti laici di maggioranza in funzione anticomunista. Si rafforza così la linea dell’inevitabilità del Compromesso storico tra le due forze politiche maggioritarie.
Il comunismo viene da sé
Berlinguer ti voglio bene esce nell’ottobre del 1977, nel pieno del governo monocolore Dc a guida Giulio Andreotti, in carica grazie all’astensione del Partito comunista. È un governo che pratica la politica dei sacrifici e dell’austerità in una congiuntura economica internazionale difficile senza nessuna opposizione parlamentare, anzi con il contributo decisivo dei comunisti nella gestione della fervente conflittualità sociale di quegli anni. Il governo blocca la Scala mobile – il meccanismo automatico di adeguamento dei salari all’inflazione –, abolisce ben 7 festività, aumenta l’Iva. In un contesto di generale rallentamento della produzione che porta a un aumento della disoccupazione, specie quella giovanile con 600 mila giovani in cerca di prima occupazione.
Nel quadro delineato, privo di opposizione politica, scoppia il movimento del Settantasette nelle Università. E pochi mesi prima dell’uscita del film, nel febbraio di quell’anno, avviene la rottura traumatica tra il movimento e il Pci, culminata con la famosa cacciata del segretario della Cgil Luciano Lama dalla Sapienza di Roma. Berlinguer non esitò a definire «squadristi» e «untorelli» quegli studenti, e da quel momento in poi il movimento fu oggetto di un’impressionante ostilità da parte dell’apparato politico e sindacale del Pci, che appoggiò la repressione del ministro dell’Interno Francesco Cossiga fino a giustificare l’uso dei carri armati contro il movimento a Bologna.
Durante il cosiddetto governo delle astensioni è però tutta la base del partito a essere delusa e disorientata, non solo l’estrema sinistra. Fino a un anno prima nelle piazze si cantava: «È ora di cambiare: il Pci deve governare», e invece ci si trova a sostenere un governo di austerità guidato proprio dell’odiato Andreotti.
Da Berlinguer il protagonista del film Cioni Mario e i suoi amici e compagni di lavoro si aspettano il «Via compagni!» per fare la rivoluzione, e non si spiegano perché il segnale non arrivi. Nella Mostra all’ex Mattatoio, ricca di filmati molto interessanti, non poteva mancare anche il video di questa mitica scena. Curiosamente però è stato tagliato proprio nel momento in cui Cioni Mario dice «via», impedendo di ascoltare l’unica ipotesi che secondo Mario impedisce a Berlinguer di proclamare la rivoluzione: «c’ha da fare, c’ha famiglia». E tralasciando la sua riflessione successiva, che a guardar bene è una critica graffiante dell’idea che sembra avere il Pci di come arriverà il comunismo:
Il comunismo viene da sé. È come prima di farsi la prima sega che si viene a letto da sé. Si fa: «Dio bono, che cosa m’è successo?». «Niente, o fanciullo, sei venuto! Quello che non funzionava ora funziona. Godi!». Così il popolo è come un ragazzo prima di farsi la prima sega. La mattina si dice: «Che cosa ci è successo?». «Niente, popolo! Sei venuto! Quello che non funzionava ora funziona! E godi!». Ecco il comunismo è come la sega prima di farsi la prima sega, viene da sé, spontaneo.
Questa impostazione del Pci era del resto consolidata fin dalla cosiddetta «svolta di Salerno» di Palmiro Togliatti. Nel 1944, mentre è ancora in corso la Resistenza, Togliatti rientra in Italia dall’Unione sovietica, dove era riparato durante il fascismo fin dal 1926. Rispetto agli altri compagni di partito è al corrente degli accordi in atto tra gli Alleati e l’Urss sulla divisione del mondo in due zone di influenza, con l’Italia ormai inserita nell’area di dominio anglo-americano. Deve dunque raffreddare le aspettative rivoluzionarie dei partigiani comunisti ed elabora la teoria della «democrazia progressiva». Formalmente non si rinuncia alla rivoluzione socialista ma ci si arriva in due tempi: prima bisogna rafforzare la democrazia e far entrare il Pci nelle istituzioni democratiche; solo in un secondo imprecisato momento ci sarà la conquista diretta del proletariato dello Stato per trasformarlo compiutamente in uno Stato socialista.
Checché ne dica Walter Veltroni – che sempre nella stessa puntata de La torre di Babele, saltando decenni di storia, sostiene un legame diretto di Berlinguer con Gramsci – Berlinguer fu formato da Togliatti e arrivò su sua spinta nel gruppo dirigente del partito. L’idea del Compromesso storico ricalca le sue orme, radicalizza in un contesto diverso quella stessa prudenza tattica, sostenendo che bisogna avviare un processo di avvicinamento e collaborazione con la Dc per legittimare un Pci vittima della «conventio ad excludendum» dal governo, per poter in un secondo imprecisato momento guidare un’alternativa democratica.
Il problema è che il comunismo, come qualsiasi altro progetto politico, non viene da sé: la società non è un asettico laboratorio dove si può attendere in tutta tranquillità l’esaurirsi di una prima fase per procedere, poi, all’esperimento successivo di segno opposto. Nel frattempo la realtà, le ideologie e le circostanze si trasformano. E ti trasformano.
La stagione politica e di movimento in cui tutto sembrava possibile svanisce negli anni subito successivi. Con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse, l’avvento di Bettino Craxi al vertice del Psi e il riflusso dei movimenti sociali. Quando il Pci si ricolloca all’opposizione, l’alternativa è un’opzione nemmeno più pensabile. Nel 1981 Berlinguer dichiara «esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre», rompendo con l’Unione sovietica ma mettendo anche definitivamente in soffitta ogni residua retorica rivoluzionaria. Nel frattempo inizia a livello internazionale l’onda lunga liberista degli anni Ottanta che si trascina fino ai giorni nostri.
L’eredità dell’impostazione politica di Togliatti e Berlinguer a guardar bene è rintracciabile, pur in un contesto decisamente meno tragico, anche nella Seconda Repubblica. Quando i giovani allievi di Berlinguer, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, conquistano i vertici del partito ormai non più comunista (Pds), la strategia è sempre quella di dover ottenere una legittimazione politica dal sistema e realizzare il «compromesso» sociale. Per questo è meglio che sia un ex democristiano come Romano Prodi, e non un leader della sinistra, a guidare la coalizione contro Silvio Berlusconi.
Dopodiché, scomparso anche l’orizzonte retorico della rivoluzione (contro cui si è sviluppato il riformismo novecentesco), la conversione «riformista» di questa generazione di ex comunisti perde ogni senso politico e diventa puro adeguamento alla corrente (liberista) dominante. Così i ministri del Pds appariranno come i più zelanti esecutori delle riforme liberiste del nuovo corso dell’Unione europea, fino ad arrivare alla fondazione del Partito democratico per inseguire il «sogno americano»: quello del bipartitismo, di una normale democrazia dell’alternanza senza più aspri conflitti.
Santificare o bestemmiare
La Mostra su Berlinguer è stata un successo oltre le aspettative, tanto da essere prorogata fino a fine febbraio visto il flusso di partecipazione. Non c’erano solo i nostalgici del vecchio Partito comunista, tra le foto e i video esposti all’ex Mattatoio si aggiravano diverse generazioni, affascinate e colpite dai discorsi, dalle immagini delle imponenti manifestazioni, e dall’idea che solo qualche decennio fa in Italia esistesse un partito comunista con radicamento di massa e oltre il 30% dei consensi. La stessa trasmissione di Augias ha avuto ascolti nettamente superiori alla media di quel programma.
La nostalgia è assolutamente comprensibile nell’attuale scenario politico. In quei video e in quelle foto si vede un altro mondo. Non ci sono i talk show dell’attuale politica spettacolo in cui si fa carriera se si è bravi a fare battute, giochi di parole e cabaret politico. Ci sono dibattiti con ragionamenti politici complessivi. C’è un leader con una dedizione totale al proprio lavoro politico, testimoniata in modo tragico dal suo ultimo comizio in cui si sente male ma si ostina a finire il discorso, andando in coma pochi minuti dopo. C’è un sentimento reale tra un partito e il suo popolo, un legame visibile tra compagni e compagne, una partecipazione e uno slancio che nella politica attuale appaiono lunari.
Quel patrimonio politico però non è svanito a causa di un tragico ictus. La santificazione di Berlinguer è un’operazione consolatoria che impedisce di analizzare politicamente cosa è successo in questi quarant’anni.
Nel film a un certo punto la bionda del paese accetta l’invito di Cioni Mario a ballare. Quella grande occasione di conquista e di orgasmo sfuma però per un brutto scherzo dei suoi amici. Mario reagisce alla delusione con una epica e interminabile serie di bestemmie e imprecazioni.
Per intervenire nella realtà in cui viviamo occorre analizzare le scelte politiche che hanno influenzato il corso della storia. E per farlo qualche bestemmia può aiutare più della santificazione.
*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di di Jacobin Italia.
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