«A forza di volermi salvare finirai per opprimermi»
Il referendum svizzero per vietare il velo integrale è passato, ma la mobilitazione delle donne è riuscita a svelare i contenuti antifemministi e razzisti dell’ennesima campagna islamofoba, creando un controdiscorso per le lotte future
«Abbiamo comunque vinto». Il collettivo Les foulards violets, composto da donne musulmane e non, velate e non, ma che ne sostengono in ogni caso l’autodeterminazione, annuncia così il risultato del referendum svizzero dello scorso 7 marzo, che con poco più del 51% dei consensi ha visto approvare la proposta di legge per il divieto di dissimulare il viso in pubblico, meglio nota come «referendum contro il burqa». I primi sondaggi sulla proposta del gruppo di estrema destra Egerkingen davano i sì al divieto in netto vantaggio. In poco più di un mese di contro campagna, le femministe svizzere non sono riuscite a ribaltare un risultato purtroppo atteso, ma ci hanno regalato una grande lezione su come costruire la lotta politica.
La costruzione del discorso islamofobo
«Se dovesse vincere il sì le cose non cambierebbero poi molto» affermava Aisha, donna musulmana del Canton Ticino, pochi giorni prima del referendum. «La comunità musulmana, a ondate, è soggetta a misure razziste: ogni due o tre mesi ne salta fuori una». Quella del 7 marzo 2021 infatti non è stata la prima votazione che ha riguardato la presenza musulmana in Svizzera: al voto federale del 2009 che vietava la costruzione dei minareti (con il 57,5% dei consensi) è seguito quello del 2013 in Ticino, che già aveva proibito a livello cantonale l’uso di veli integrali nello spazio pubblico.
E ancora: nel 2019 a Ginevra è stata votata una legge sulla laïcité alla francese che, nonostante il riferimento generico al divieto di indossare simboli religiosi negli uffici pubblici, in realtà ha riguardato quasi esclusivamente l’uso del foulard. Meriam del collettivo Les Foulards Violet fa notare la dimensione discriminatoria del provvedimento, ricordando che per le donne svizzere l’accesso al voto e alla possibilità di candidarsi alle elezioni è in vigore solo dal 1971: «alle donne musulmane è stato tolto questo diritto, è stato uno choc! Poi è stata abrogata la parte sulla presenza in parlamento, ma è rimasta l’interdizione per l’esecutivo e per la funzione pubblica».
Di qualche settimana fa soltanto è invece la decisione del municipio di Locarno di respingere la mozione per vietare l’uso del burkini sul territorio comunale avanzata dalla Lega dei ticinesi, secondo cui tale indumento «fondamentalista, retrogrado e barbaro» sarebbe «incompatibile con i valori fondamentali della Svizzera». I consiglieri comunali hanno invece ritenuto che si sarebbe trattato di un «divieto inutile» che avrebbe soltanto alimentato «intolleranza e discriminazione».
A fronte dell’ennesima campagna islamofoba dell’estrema destra elvetica, le donne e le femministe svizzere sono passate al contrattacco: hanno smontato le argomentazioni della destra, svelandone i contenuti razzisti e antifemministi; sono riuscite a tessere relazioni intersezionali di ampio respiro, creando un controdiscorso su cui fondare le lotte future.
Diritti delle donne, sicurezza e integrazione
Uno degli argomenti che la destra ha mobilitato nella campagna per il sì è la sedicente volontà di salvare le donne musulmane dal patriarcato oscurantista che le opprime. Tra le retoriche femonazionaliste, secondo cui le donne vanno difese in quanto riproduttrici della nazione – e dunque del progetto nazionalista – risalta la scelta della data per il referendum: il 7 marzo. In questo modo il partito populista di destra che sostiene la campagna, l’Udc, ha potuto rivendicare proprio nella giornata internazionale per i diritti delle donne – che negli ultimi cinque anni il movimento femminista globale ha risignificato come momento di lotta e di sciopero – il proprio ruolo di liberatore delle donne costrette a indossare il velo integrale. I numerosi gruppi che compongono la costellazione femminista elvetica hanno da subito individuato in tale atteggiamento una strumentalizzazione del femminismo, avanzata da un’area politica normalmente disinteressata ai diritti delle donne e alla violenza di genere commessa dai connazionali (oltre 20 mila reati, solo quelli denunciati, nel 2019 di cui 29 femminicidi). A questo proposito Les Foulards Violets fanno notare che l’iniziativa non fornisce alcuna risposta alle vere questioni femministe: tra le rivendicazioni dello sciopero delle donne del 14 giugno 2019, che ha avuto un’adesione storica di oltre 500 mila persone, vi sono la parità di salario, il migliore riconoscimento del lavoro domestico e di cura, la lotta contro le molestie e la cultura dello stupro, «ma non abbiamo mai chiesto di legiferare sul nostro abbigliamento, tanto meno sul velo» sostiene Meriam. Il diritto svizzero, inoltre, protegge già chi viene obbligata ad agire contro la propria volontà.
«È drammatico! Se queste donne sono davvero controllate e abusate, da domani non potranno più uscire di casa» spiega Rasima, della comunità islamica ticinese, che rivendica di aver scelto di indossare il velo quando si è convertita all’islam: «mi chiedono spesso se sono stata obbligata da mio marito, ma non è così. Siamo sposati da diciassette anni e io ho fatto una scelta di fede un anno fa. Con il velo mi sento libera, mi sento più me stessa». Il tema della libera scelta torna anche nelle interviste condotte da Les Foulards Violets a tre donne che indossano veli integrali: «tutte le persone che ho conosciuto che indossano il niqab» afferma una di loro «non lo portano perché sono obbligate, anzi, molto spesso le loro famiglie erano contrarie». Indossare il velo (integrale o meno) nello spazio pubblico svizzero scatena spesso reazioni ostili o violente: secondo Meriam «la donna con il burqa è rappresentata come una minaccia: per questo le persone si sentono legittimate ad attaccare le donne velate».
Anche se formalmente la proposta di legge fa riferimento a un generale divieto di dissimulare il viso in pubblico, nei manifesti della campagna sono rappresentate donne col burqa dallo sguardo minaccioso. La volontà di mettere un freno all’islamizzazione crescente è tra gli argomenti a favore del divieto: impedire alle donne musulmane di indossare il velo integrale sarebbe il primo passo della lotta occidentale contro l’estremismo di matrice islamica. Per l’Udc, la donna col burqa rappresenta una minaccia in quanto incarnazione del cosiddetto Islam politico. Tuttavia, secondo uno studio dell’università di Lucerna, tali donne, per la maggior parte convertite, non manifestano un estremismo politico ma testimoniano il proprio cammino di fede. Secondo lo studio, le donne che indossano il velo integrale sul territorio nazionale – turiste provenienti dai paesi del Golfo escluse – sono tra le venti e le trenta, a fronte di una popolazione musulmana di quasi quattrocentomila persone. Proprio per questo molti gruppi contrari alla proposta la ritengono inutile e assurda, mentre secondo l’Udc il fatto che le donne a portare il burqa siano così poche è un motivo in più per «intervenire finché la situazione è contenibile».
Persino l’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu, dopo i risultati del referendum, ha criticato fortemente l’iniziativa. Lo stesso Commissariato, insieme alla Corte europea dei diritti umani, nel 2018 ha decretato che, sebbene sia legittimo esigere il riconoscimento del volto per motivi di sicurezza in alcune circostanze (misura che è già presente nell’ordinamento svizzero), un divieto generale di occultare il viso è una prescrizione troppo radicale, nonché un atto di discriminazione su base religiosa. «Se una risposta contro l’estremismo politico ci deve essere non deve essere discriminatoria» per una larga maggioranza della popolazione musulmana, aggiunge Meriam.
Proprio nel clima di paranoia securitaria contro il terrorismo si è riattivato l’immaginario neo-orientalista che vede le donne musulmane con il burqa come povere vittime da salvare, incapaci di scegliere per sé e di far sentire la propria voce. Lo stesso uso del termine burqa per riferirsi in modo indistinto a diversi tipi di veli integrali che si rifanno a tradizioni religiose e culturali diverse è funzionale a riproporre l’immaginario dello scontro di civiltà. Les Foulards Violets hanno tuttavia affermato nella loro argomentazione di voler utilizzare comunque il termine dato che era quello attorno a cui si era costruita la campagna nel dibattito pubblico (motivo per cui anche in questo testo è stato utilizzato).
Non solo: il riferimento continuo alla situazione afghana è una strategia che, spostando il discorso sul velo altrove, conferma l’idea che esso rappresenti qualcosa di intrinsecamente altro, diverso, straniero. La legge viene infatti proposta come soluzione al «problema dell’integrazione», cancellando l’esistenza delle donne musulmane svizzere. «Sicuramente in alcuni luoghi, come l’Afghanistan e l’Iran, le donne lottano contro l’obbligo di indossare il velo, e noi le sosteniamo» ricorda Meriam. «Il punto è che in ogni paese bisogna ascoltare la voce delle dirette interessate!». All’attitudine salvifica delle retoriche neo-coloniali, le donne musulmane e le femministe svizzere rispondo con due slogan apparsi in tutte le manifestazioni di protesta di questo periodo: «Non liberarmi, me ne occupo io» e «A forza di volermi salvare finirai per opprimermi».
La parola alle dirette interessate
Uno dei punti più interessanti della campagna per il no al referendum è stata l’ampiezza del fronte femminista e antirazzista che si è creato. Se non sono mancate le voci di donne di destra e sedicenti femministe a favore del divieto, i gruppi, i collettivi e le associazioni che hanno costituito la rete per lo sciopero femminista del 2019 hanno saputo creare ancora una larga convergenza. Non era stato così nel 2013, al tempo del voto in Ticino: da una parte perché nel cantone italofono la Lega dei ticinesi e l’Udc godevano di un ampio consenso che aveva frenato le voci contrarie ad esporsi. «La paura di essere attaccate era molto forte», confessa Aisha. Secondo Rasima se oggi la risposta della comunità musulmana è stata più decisa rispetto ad altre volte è perché il vaso è colmo.
L’altro problema che si era posto nel 2013 era la difficoltà delle femministe ticinesi di superare le apparenti contraddizioni che avrebbe comportato schierarsi «a favore» del velo integrale, superando le reticenze che lo vedevano come un simbolo di oppressione tout court. Come scrive in uno dei suoi comunicati il collettivo Io l’8 ogni giorno «se la vista di una donna completamente velata o quasi, con il niqab o il burqa, suscita in noi donne occidentali delle emozioni contrastanti è molto comprensibile, ma si tratta di un nostro pregiudizio culturale che ci porta a pensare che le donne musulmane non siano libere di scegliere». Questa consapevolezza si è sviluppata con il tempo e con lo studio, dice Pepita del Coordinamento donne della sinistra, la quale ricorda che i movimenti femministi non sono sempre stati in ascolto delle necessità delle donne musulmane, non bianche e delle migranti non occidentali più in generale. Grazie al cambio di prospettiva in favore di un approccio intersezionale, in Ticino si è formato il comitato No all’iniziativa contro la dissimulazione del volto, composto da vari collettivi femministi, partiti e associazioni di sinistra, in dialogo con la comunità islamica ticinese.
In modo diverso, ma sempre a partire da un dubbio iniziale, si sono mosse le donne dei Foulards Violets: «nessuna di noi porta il velo integrale» dice Meriam «per questo all’inizio ci siamo chieste se fosse una cosa che ci riguardava, se ne dovevamo parlare. Quando ci siamo informate abbiamo capito che dietro al divieto c’erano sessismo, razzismo, islamofobia e che la misura avrebbe colpito tutte le donne musulmane, soprattutto quelle che portano il foulard». Come riportano i dati dell’Enar (European Network Against Racism), l’islamofobia è un fenomeno che colpisce soprattutto le donne musulmane: per questo il collettivo ginevrino ha affermato chiaramente che la lotta contro l’islamofobia è una lotta femminista. «Non si può avere una visione a geometria variabile dell’autodeterminazione», sostiene Ines dei Foulards Violets. «È come per il sex work: per molto tempo ci sono state femministe che dicevano che non era possibile vendere il proprio corpo, mentre le sex workers dicevano ‘sono io che decido. Mio il corpo, mia la scelta’. Ed è lo stesso per il burqa» afferma Meriam. «Se non comprendiamo una scelta non significa che non sia valida». Rifacendosi alla pratica del posizionamento e alla critica postcoloniale, le femministe svizzere hanno denunciato la visione eurocentrica che pone i propri valori come naturalmente superiori a quelli delle altre società e culture. «Quello che ci aspettiamo dalle nostre alleate femministe e antirazziste – si legge nel comunicato dei Foulards Violets – è che lascino la parola alle dirette interessate, o almeno che trasmettano in modo fedele le loro parole». A vedere le varie iniziative che hanno avuto luogo principalmente online, le manifestazioni in presenza e i comunicati delle varie piattaforme, si può dire che l’invito ha funzionato.
Cosa succede adesso
E quindi cosa succederà adesso che ha vinto il sì? Le venti o trenta donne che indossano il velo integrale in Svizzera non potranno più uscire di casa, o lo faranno incorrendo nel rischio di essere multate?
Martino è un avvocato che già nel 2016 aveva fatto ricorso al tribunale federale di Bellinzona denunciando l’incostituzionalità del divieto di dissimulare il volto, approvata nel 2013 in Ticino. Siccome le questioni che riguardano la sicurezza e la religione sono materia di legislazione cantonale, l’esito del referendum non è così scontato: «ogni cantone dovrà legiferare, ognuno con le condizioni che vuole», sostiene l’avvocato. Se in Ticino e nel cantone di San Gallo il divieto era già attivo, sei cantoni su ventisei hanno espresso la propria contrarietà alla misura. Potremmo quindi assistere a una spaccatura della Svizzera tra cantoni in cui vige l’interdizione o no, il che potrebbe costringere alcune donne a dover cambiare cantone, o paese.
Le conseguenze del voto tuttavia non si fermano qui: secondo Meriam dal referendum sui minareti nel 2009 c’è stato un generale aumento delle violenze verso le donne musulmane, «dagli sputi per strada alle discriminazioni sul luogo di lavoro». Anche il dibattito di questi mesi è stato estremamente violento, dai manifesti che invitavano a votare sì per fermare l’estremismo islamico. Per questo Aisha ha una visione pessimista del futuro: «il razzismo e la discriminazione sono in aumento anche tra i giovani. Anche il foulard sta diventando un problema, tra un anno o due saremo qui a votare di nuovo». Sicuramente l’intensificazione dell’islamofobia è un segnale preoccupante, ma «abbiamo comunque vinto», dicono les Foulards Violets. Ed è proprio vero.
E non è per fare le minoritarie, ma perché sappiamo che i mezzi di cui disponiamo sono indicibilmente sproporzionati. Abbiamo vinto, hanno vinto, perché la risposta delle comunità musulmane, delle femministe, del fronte antirazzista, ha saputo andare in profondità nel dibattito, ha saputo creare spazi di confronto e di scambio, ha saputo tessere relazioni che fino a ieri sembravano impossibili. «Questo per la popolazione musulmana è stato un enorme segnale», conclude Meriam. E dovrebbero esserlo per tutte noi.
*Marta Panighel è dottoranda in Sociologia all’Università di Genova e attivista transfemminista queer. Si interessa di femminismi contemporanei, intersezionalità, razzismo e colonialismo. È co-traduttrice di Femonazionalismo di Sara R. Farris (Alegre 2019).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.