Berlinguer, la grande rinuncia
Il film di Andrea Segre sul segretario comunista cede alla nostalgia e cerca di rappresentare il compromesso storico come una grande ambizione. Mentre l’eredità di quegli anni andrebbe interrogata in modo radicale
«Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona» cantava Giorgio Gaber all’indomani dello scioglimento del Pci nel 1991, elencando con ironia, e autoironia, i tic e le contraddizioni di chi per decenni in Italia si è definito «comunista».
Guardando Berlinguer. La grande ambizione, il film di Andrea Segre interpretato dallo strepitoso Elio Germano, si ha l’impressione che più di trent’anni dopo lo scioglimento del Pci, e a quarant’anni dalla morte del segretario comunista, non si riesca ancora a procedere più in là di quella rivendicazione. E che questa sia rimasta nella testa non solo dei suoi legittimi eredi (oggi maggioritariamente nel Partito democratico), ma anche di chi – come Segre e Germano – ha un’esperienza politica e una produzione culturale ben più di sinistra. «Berlinguer era una brava persona», un assunto che sembra poterne giustificare ogni scelta politica, anche quelle che hanno influenzato l’involuzione successiva della sinistra italiana.
La grande nostalgia
La beatificazione sembra il destino del segretario comunista fin dal giorno del suo enorme funerale, mostrato con le immagini d’archivio in coda al film. Andrea Segre ed Elio Germano però, in ogni presentazione della pellicola, sottolineano che il loro intento non è santificare Berlinguer ma mostrare l’attualità politica del suo messaggio.
La volontà di non cedere a un’eccessiva retorica sul personaggio è in effetti evidente, portata avanti anche a costo di fare un film meno coinvolgente di quel che avrebbe potuto essere. Gli sceneggiatori e gli attori hanno fatto una rigorosa ricerca storica, attenendosi in gran parte a discorsi e dialoghi effettivamente avvenuti e documentati, alternando anche le scene di finzione con immagini di archivio. Del resto Andrea Segre è soprattutto un bravissimo autore di documentari, e anche La grande ambizione, pur essendo fiction, procede in modo quasi documentaristico.
Va anche riconosciuto al film di Segre il coraggio di affrontare proprio gli anni in cui Berlinguer ha teorizzato e provato a praticare il «compromesso storico» con la Democrazia cristiana. Si concentra su cinque anni della sua vita, quelli che vanno dal colpo di Stato in Cile del 1973 al sequestro di Aldo Moro del 1978, senza indugiare nel racconto della sua formazione politica giovanile in Sardegna, e senza nemmeno citare gli ultimi anni della sua vita politica quando, dopo il fallimento del compromesso storico, si ritrova nel 1980 davanti ai cancelli della Fiat a fianco degli operai in sciopero per 35 giorni, o quando pone la «questione morale» alla politica italiana diventando il nemico politico numero uno di Bettino Craxi e del Partito socialista italiano. Eventi, questi ultimi, che hanno reso Berlinguer davvero amato, ma che a guardar bene ne definiscono meno la cifra e soprattutto l’eredità politica.
Il film però comunica senza dubbio una grande nostalgia. La nostalgia per un tempo che Segre e Germano non hanno mai vissuto, visto che nel 1984, quando Berlinguer morì, erano due bambini di 8 e 4 anni.
Che il sentimento nostalgico possa essere utile alla ricostruzione politica della sinistra, e non solo un esercizio consolatorio, è discutibile. È però comprensibile lo sguardo malinconico verso un tempo di grandi passioni politiche, di milioni di persone in piazza e alle Feste dell’Unità, di dirigenti con una solida formazione culturale e dei vincoli sociali incomparabili all’attuale teatrino della politica-spettacolo sganciata da qualsiasi spazio di partecipazione della società.
Il problema è che, con questa carica di nostalgia, la pellicola non riesce a sfuggire alla santificazione. Fin dalla scelta del titolo: presentare il compromesso storico come una «grande ambizione».
La grande rinuncia
«Secondo me se Andrea Segre ed Elio Germano avessero avuto vent’anni nel 1973, avrebbero odiato il compromesso storico», ha esordito in mondo provocatorio Nanni Moretti alla presentazione romana del film al Nuovo Sacher.
Il film inizia con le immagini del colpo di Stato orchestrato da Henry Kissinger in Cile con cui viene spazzato via il governo socialdemocratico di Salvador Allende che, dopo aver vinto le elezioni, stava portando avanti concrete riforme sociali. Da quel momento Berlinguer esplicita una strategia che era in realtà in elaborazione già da qualche anno: non solo non è possibile nessuna rivoluzione socialista in Italia, ma non è nemmeno pensabile nessuna alternativa politica di governo.
Nonostante le attese generate dall’enorme crescita elettorale del partito e dalle conquiste dei movimenti sociali nell’onda lunga post-Sessantotto, la via democratica al socialismo che propone Berlinguer è a dir poco tortuosa e contraddittoria: non si può governare nemmeno se una coalizione delle sinistre dovesse raggiungere il 51% dei consensi perché si rischierebbe un colpo di Stato orchestrato dagli Stati uniti e reso possibile in Italia da una potenziale alleanza tra la destra democristiana e i neofascisti. E per evitarlo bisogna accettare proprio l’ombrello statunitense della Nato e sostenere un governo guidato proprio dal massimo esponente della destra democristiana: Giulio Andreotti.
Nel film, pur di far apparire Enrico Berlinguer senza macchie, si finisce per sminuirlo nelle poche scene che non potevano essere documentate storicamente: quelle degli incontri riservati con Moro e lo stesso Andreotti. In questi colloqui Berlinguer appare un ingenuo, convinto che la sua linea sia l’unica possibile per mantenere un regime democratico in Italia, ma sostanzialmente preso in giro dai ben più scafati dirigenti democristiani che non concedono nulla in cambio della «non sfiducia» del Pci che permette al Governo Andreotti di stare in piedi. Nulla se non l’inutile presidenza della Camera a Pietro Ingrao.
Ma anche di fronte alla composizione dei ministri e alle concrete politiche di quel governo (che tra l’altro blocca il meccanismo della Scala mobile per adeguare i salari all’inflazione, abolisce ben 7 festività e aumenta l’Iva) Berlinguer persevera nella linea del compromesso. Bisogna rinunciare non solo al socialismo, non solo all’alternativa politica tramite democratiche elezioni, non solo alla difesa degli interessi di lavoratrici e lavoratori ma persino all’opposizione alla peggiore destra democristiana che flirta coi neofascisti. Tutto pur di salvare la democrazia.
A guardar bene è una rinuncia che poi diventerà una ricorrenza per la sinistra dei successivi cinquant’anni.
La grande delusione
A questa rinuncia seguì una grande delusione. Non solo nel movimento studentesco che scoppiò nel 1977 o nella sinistra extraparlamentare. Gran parte del mondo operaio e comunista fu completamente disorientato da questa linea, come mostrò proprio nel 1977 il capolavoro cinematografico di Giuseppe Bertolucci e Roberto Benigni, Berlinguer ti voglio bene, film spesso citato ma in realtà poco visto e soprattutto poco compreso.
Dopo la vittoria nel referendum sul divorzio nel 1974 e la crescita alle elezioni amministrative del 1975, non era più un tabù sognare il sorpasso sulla Dc nelle elezioni politiche del 1976. Il sorpasso poi per poco non ci fu, ma il Pci raggiunse il suo massimo storico in voti assoluti: 12 milioni e 600 mila. Anche il contesto europeo era promettente: nel 1974 c’è la rivoluzione dei garofani in Portogallo, nel 1975 finisce il franchismo in Spagna, nel Regno Unito governano i laburisti, in Germania sono al governo i socialdemocratici, in Francia cresce il cartello elettorale che tiene insieme socialisti e comunisti e che qualche anno dopo eleggerà presidente François Mitterand. La scelta di escludere a priori qualsiasi possibilità di governo di coalizione delle sinistre – che a prescindere dalle possibilità di riuscita avrebbe dato una prospettiva politica ai dieci anni di movimenti del nostro paese – produsse una delusione molto diffusa. Specie quando il Pci finì per sostenere il governo Andreotti. Tanto che nelle successive elezioni politiche del 1979 il Pci perse un milione e cinquecentomila voti, e non tornò mai più ai livelli di consenso del ‘76 (tranne la fiammata alle europee del 1984 segnate drammaticamente proprio dalla morte di Berlinguer).
Ne La grande ambizione questa delusione rimane invece appena accennata. Il disorientamento del mondo operaio viene mostrato solo dalle domande poste da alcuni metalmeccanici di Savona (interventi reali ripresi da materiale d’archivio) mentre il movimento del Settantasette viene rappresentato unicamente dalle parole del figlio Marco, allora solo quattordicenne, finendo così per infantilizzare le posizioni del movimento.
La scena meno credibile del film è proprio quella del 12 marzo del 1977, giornata della grande manifestazione nazionale del movimento che sfociò in violenti scontri per le strade del centro di Roma. Berlinguer è a tavola con la famiglia, e risponde alle critiche del figlio spiegando che a lui non piace la violenza di quel movimento. Il tutto senza che nessuno faccia nemmeno un accenno al fatto che il giorno precedente, nella Bologna governata dal Pci, i carabinieri hanno ucciso il militante di Lotta continua Francesco Lorusso. E che per reprimere i tafferugli che ne scaturirono il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, con l’appoggio del Pci, mandò in piazza i carri armati. Del resto, un mese prima, Berlinguer non aveva esitato a definire «squadristi» e «untorelli» gli studenti che si opponevano al governo delle astensioni.
Nel film è ricorrente la battuta della moglie che lo definisce un «grigio funzionario di partito». Era ovviamente molto di più questo, ma sicuramente non era un movimentista e sottovalutava il cambiamento sociale prodottosi dal Sessantotto in poi. Lo dimostra la sua posizione sul referendum sul divorzio, che nel film non emerge in modo chiaro.
Berlinguer era convinto che quel referendum fosse destinato a sicura sconfitta: «prenderemo massimo il 35%», ripeteva ai compagni. E pensava che la campagna referendaria avrebbe saldato la Democrazia cristiana e i neofascisti facendo saltare la strategia del compromesso storico. Si adoperò per mesi per cercare una mediazione con la Dc per modificare la legge e far saltare il referendum, ma la trattativa non si concretizzò per l’arroganza del segretario della Dc Amintore Fanfani, anch’egli sicuro di vincere. I voti a favore del divorzio furono invece il 59%, un vero e proprio trionfo che fotografava un cambiamento della società che né Fanfani né Berlinguer avevano visto arrivare. Ma che invece di suggerire la concreta possibilità di un’alternativa politica alla Dc, rafforzò la convinzione di Berlinguer della linea dell’alleanza. Confondendo il reale spostamento a sinistra del mondo cattolico con il concreto gruppo dirigente della Dc.
Nel film di Segre tutto questo non emerge, ed è appena accennato perfino il dibattito all’interno del Partito comunista. A parte una battuta di Ingrao, rappresentato quasi come un brontolone poi subito disponibile ad allinearsi non appena gli viene proposto di diventare presidente della Camera. «Non si può raccontare una storia in cui sono tutti bravi, tutti buoni, tutti d’accordo», ha fatto notare Luciana Castellina in un’intervista critica sul film a Il Fatto quotidiano: «In quegli anni nel Pci c’è stata una discussione, un dibattito molto forte. Su tante questioni Berlinguer è stato in minoranza nel suo stesso partito».
Il grande fallimento
Luciana Castellina, che con l’ex segretario comunista ha condiviso una lunga militanza fin dal 1947 nella federazione giovanile del Pci, ha esplicitato il suo giudizio negativo sul film di Segre anche sulle pagine de il manifesto, dove ha sottolineato l’aspetto che l’ha infastidita di più: l’insistenza nel proporre discorsi di Berlinguer in cui svolge «una piatta esaltazione della democrazia (quale?) su cui fa delle lezioncine a bulgari, sovietici e compagni. È sulla base di queste lezioncine che Berlinguer sarebbe diventato così popolare? Andiamo!».
Il film percorre proprio gli anni in cui il segretario comunista guida il distacco del partito dalla casa madre sovietica. Distacco peraltro tardivo, basti pensare che ancora nel 1968, con Berlinguer vice segretario, proprio l’area del manifesto fu radiata dal partito per le proprie posizioni nette contro l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Urss. Ma la critica di Luciana Castellina è che il film banalizzerebbe Berlinguer fino a farlo sembrare «un dirigente liberale». I giovani che vedono il film, «con un Berlinguer così democratico e accomodante, rischiano di finire per pensare che la speranza sia il Pd», chiosa ancora Castellina sul Fatto quotidiano.
A conti fatti la strategia del compromesso storico fu un fallimento, e non solo per l’omicidio di Aldo Moro a opera delle Brigate rosse. Lo stesso Berlinguer se ne rende conto e dopo l’arretramento elettorale del ‘79 cambia linea, e secondo Castellina era questa autocritica a dover essere valorizzata.
Allo stesso tempo però è difficile sostenere, come sembra fare Castellina, che non ci sia alcun legame tra la linea del compromesso storico e la parabola che ha portato gli allora giovani brillanti allievi di Berlinguer – Massimo D’Alema e Walter Veltroni – a diventare, loro in modo compiuto, esponenti della sinistra liberale.
Berlinguer non era un ingenuo. A parte il timore per i rischi più o meno reali di colpo di Stato, aveva chiara la crisi verticale del sistema sovietico e la necessità, per salvare il suo stesso partito, di accreditare il proprio gruppo dirigente all’interno della gestione della democrazia liberale. Per certificare questo cambiamento del partito era disposto a passare perfino per il sostegno a un governo Andreotti e per il riconoscimento del ruolo della Nato.
L’eredità di questa ricerca di legittimazione dentro al sistema è rintracciabile negli anni successivi, con il cambio di nome, l’entrata nel Partito socialista europeo, la proposta dell’ex democristiano Romano Prodi come leader della propria coalizione, fino alla formazione del Partito democratico sul modello della sinistra liberale americana. Questa volontà di accreditarsi come parte del sistema politico democratico occidentale ha prodotto la graduale conversione liberale di questa generazione di ex comunisti, che pian piano si è adeguata alla corrente liberista dominante.
L’altra eredità di Berlinguer, la «questione morale», pur sacrosanta di fronte al dilagare della corruzione nella Prima Repubblica, ha pian piano finito per svuotare la «questione sociale» diventando, dopo Tangentopoli e poi la stagione antiberlusconiana, un feticcio «né di destra né di sinistra». Tanto da essere contesa da Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo, che dal palco della grande manifestazione pre-elettorale del 2013 che inaugurò l’ingresso in Parlamento del Movimento 5 Stelle invocavano proprio il nome di Enrico Berlinguer.
Senza cedere alla comprensibile nostalgia, sarebbe allora più utile interrogare in modo radicale l’eredità di quegli anni. Riflettere su quanto l’abbandono dell’ambizione rivoluzionaria abbia fatto perdere senso anche alla posizione riformista, fino a produrre il vuoto politico a sinistra in cui ci troviamo oggi. Se non si individua e non si critica il momento in cui «il sogno si è rattrappito», come cantava sempre Gaber, è difficile provare a cambiare l’attuale fase politica, popolata a sinistra da gabbiani «senza più neanche l’intenzione del volo».
*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia.
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