
Città pubblica e città privata
Nel luogo in cui è nato il concetto stesso di democrazia, la polis, lo spazio della decisione collettiva sembra essersi inceppato. Non a caso le propagande elettorali ruotano attorno a concetti astratti e de-politicizzati
Si calcola che per la prima volta nella storia dell’umanità la maggior parte degli abitanti del pianeta terra viva in centri urbani: la popolazione delle città ha superato quella delle campagne. Questo passaggio epocale pone problemi enormi dal punto di vista ambientale e sociale. Nelle grandi città, per di più, il paesaggio che contrappone i grattacieli dei business center alle baraccopoli dei poveri del pianeta che cercano di sopravvivere sintetizza le contraddizioni globali.
Allo stesso tempo, proprio mentre l’azione micidiale e spesso complementare di economia materiale e speculazione finanziaria stritola i territori e ne estrae materie prime, saperi e forza lavoro formale e informale, le forme di rappresentanza su base locale conoscono una crisi profonda. Nel luogo in cui è nato il concetto stesso di democrazia, la polis, lo spazio della decisione collettiva sembra essersi inceppato. L’azione dei governi locali si è ridotta, non a caso le propagande elettorali ruotano attorno a concetti astratti, de-politicizzati e privi di carica inventiva come «efficienza», quando non pericolosi come «sicurezza». La crisi della politica su scala locale è una spia importante dell’impotenza della politica tout court, muove direttamente a questioni generali e universali a causa della relazione con la dimensione globale, la cui proiezione territoriale è ormai profonda. Sarebbe inutile, quando non pericoloso, evocare il ritorno a comunità chiuse e impermeabili alle contraddizioni planetarie, ma al tempo stesso appare impossibile mantenere la propria autonomia decisionale di fronte alle forze gigantesche del mercato globale.
Questo numero di Jacobin Italia fa il punto su questa ingovernabilità dei territori, li mette in relazione con altri luoghi in giro per il mondo grazie alle traduzioni di alcuni articoli usciti sul sito e sul numero di Jacobin Magazine dedicato allo stesso tema (il n. 15-16), non elude le questioni attuali ma cerca di contestualizzarle, di storicizzarle, dentro il ciclo neoliberale che si è aperto, non a caso, con il crack finanziario del 1975 di New York, all’epoca città simbolo dell’Occidente e della sua carica immaginaria e tecnologica. Questa escalation impressionante, che diede il via a una colossale opera di riconfigurazione di quella metropoli stabilendo un precedente clamoroso, viene rappresentata graficamente nel nostro inserto e raccontata da Joshua Freeman.
In apertura, Giuliano Santoro ragiona sulle città al voto nelle amministrative del 2021 ed evidenzia i temi che questi territori consegnano al dibattito più generale. Giulio Calella ripercorre la crisi della sinistra nei comuni a partire dall’analisi della parabola dell’onda arancione dei sindaci di dieci anni fa. Lorenzo Zamponi interroga alcuni eletti di sinistra nei consigli comunali per capire potenzialità e limiti di questi avamposti istituzionali. C’è poi il tema di chi comanda veramente e quali poteri danno forma agli spazi che viviamo. Davide Vittori e Davide Angelucci affrontano il tema della legge para-presidenziale che ormai dal 1993 regola l’elezione diretta del sindaco, di fatto svuotando le assemblee elettive. Marco Bersani spiega in che modo l’infernale morsa del debito intacca la sovranità delle istituzioni locali. Tommaso Fattori analizza il meccanismo aziendalista della gestione dei servizi locali che danneggia la qualità della vita e costituisce potentati economici più forti delle istituzioni democratiche. Sarah Gainsforth si cimenta con la questione della sicurezza e del decoro analizzando i primi dati sul Daspo urbano, provvedimento amministrativo repressivo contro i poveri e gli spazi pubblici.
Abbiamo bisogno di tracciare le nostre mappe e oltrepassare i confini dati per rompere gli schemi interpretativi dominanti. Lo ha fatto in questi anni Saskia Sassen, che qui dialoga con Francesca Coin, coniando il concetto di «città globali». E Mike Davis, che ragiona sugli spazi metropolitani da tempi non sospetti e che chiude il nostro numero. Così come Richard Florida, attraverso l’idea, qui discussa criticamente con Erin Schell, che una creative class urbana sia destinata a rendere i nostri luoghi aperti e solidali. Mentre Carlotta Caciagli mette in discussione il confine tra centro e periferia, tra città e provincia, alla luce delle trasformazioni del lavoro postfordista.
Rossella Marchini mette in evidenza come le nostre città presenteranno sempre più spazi vuoti, che il mercato e il profitto a tutti i costi non sanno più come utilizzare e ai quali bisognerà restituire un senso collettivo. Leaticia Ouedraogo traccia, sulla base della geografia delle emozioni, la topografia del razzismo urbano. E Marie Moïse spiega come ogni pianificazione urbana segue schemi di genere ben precisi: una lettura femminista dei territori ci aiuta a riconoscere la città della cura e a rompere la separazione tra spazi privati e pubblici. Sono risorse essenziali per contrastare il mito delle megalopoli tecnicizzate e impermeabili ai confitti dove trionfa il «filantrocapitalismo», come spiega Ilaria Agostini. Lorenzo Zamponi ed Enrico Padoan descrivono a partire dalle terre del Prosecco il fenomeno del producerismo, in base al quale l’appartenenza territoriale e il dogma del fare cancellano ogni appartenenza di classe. Mattia Fonzi e Daniele Poccia si cimentano con il caso paradigmatico de L’Aquila, la città senza comunità ridisegnata dalla shock economy dopo il terremoto del 2009.
Si diceva di New York: David Madden e Glyn Robbins analizzano le politiche sulla casa dei due sindaci liberal di New York e Londra, molto simili, per arrivare a capire come dietro i propositi di difesa del diritto all’abitare non si riescono a intaccare gli interessi del real estate. Al contrario di quello che sta succedendo a Berlino, dove un referendum popolare potrebbe consentire il diritto di esproprio in nome dell’interesse pubblico: lo racconta Andrej Holm, ripercorrendo un secolo di politiche abitative. Da questa prospettiva storica si capisce bene come l’idea che il diritto alla casa debba soccombere di fronte alla dittatura del mercato immobiliare, oggi data quasi per scontata, non è soltanto feroce ma anche recentissima: fino a qualche decennio fa non era affatto così. Come si evince anche dalla storia delle case popolari della Vienna rossa ripercorsa da Veronika Duma e Hanna Lichtenberger.
Ava Kofman, infine, analizza il modo in cui Sim, videogioco di successo ormai trentennale il cui scopo è quello di gestire una città in espansione, abbia recepito i dettami della pianificazione liberista e persino anticipato alcune forme di controllo dei territori.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.