Cobra Kai e il karatechismo della nostalgia
Critica dei ripescaggi dalla televisione degli infelici anni Ottanta che tornano come zombie digitali. E che rischiano di modellare la nostra idea di futuro
Karate kid era uno stronzo. Merito del suo mentore, Mr. Miyagi, un esule di Okinawa che, forse in sfregio all’atomica, addestrava ingenui minorenni a tirare a lustro le sue auto d’epoca spacciandole per lezione di karate. Da quando uno di loro, Daniel LaRusso, fu plagiato dal sensei, la vita di Johnny Lawrence, lui sì un vero karateka a stelle e strisce, divenne un inferno: LaRusso gli scippa la ragazza e rifila a Johnny un destro a tradimento. Poi lo umilia alla festa di Halloween (complice il solito Miyagi che spunta da un cespuglio e a 50 anni suonati le suona a quattro liceali!) e lo batte al torneo di arti marziali con un calcio in faccia che passerà alla storia: del cinema, di Johnny e del suo interprete, William Zabke, recluso (e deriso) per il resto della carriera nel ruolo del blonde villain.
Questi e altri revisionismi in salsa pop sono al centro di Cobra Kai, serie tv lanciata due anni fa da You Tube e prontamente recuperata da Netflix sotto lockdown che, dati alla mano, ha tenuto incollati milioni di spettatori cresciuti col mito – proiettato, noleggiato, masterizzato o semplicemente incrociato sul tubo – di Karate Kid. Si tratta infatti del sequel della saga con protagonista l’allora adolescente Ralph Macchio nel ruolo di Daniel, che a trent’anni di distanza riunisce il cast originale per raccontare la storia dal punto di vista del suo antagonista. Nella serie Johnny Lawrence, che dopo la sconfitta ha mollato il karate e campato di espedienti e rimpianti, decide di rifondare il suo vecchio dojo, il Cobra Kai, aggiornandone i metodi di insegnamento in chiave intersezionale e girl power, e riscattandosi come personaggio/interprete agli occhi del pubblico di ieri e oggi. Al contrario, l’acerrimo rivale Daniel LaRusso ha sfruttato il suo passato da campione di karate per sfondare col suo salone automobilistico, con tanto di bonsai omaggio per i nuovi clienti. Si profila una scontata lotta fra yin e yang dove – mutate mutandis – stavolta patteggiamo per il lato oscuro.
«Non ero cattivo nella vita, ero solo un grande attore. Nessuno l’ha mai capito». Questo è quello che diceva Zabke sette anni fa quando, nel ruolo di sé stesso, apparve in una puntata di How I Met Your Mother (sorta di Friends reloaded da generazione Z): l’operazione-ri$catto di Johnny Lawrence (e degli anni Ottanta), forse parte proprio da là.
Gli anni Ottanta erano una merda
Deregulation, cortina di ferro, stagnazione, nuova destra. Al timone: Margaret Thatcher, Bettino Craxi, Breznev & soci, poi Gorbachev e due ex-attori: Ronald Reagan e Karòl Wojtyla. Boom di eroina, boom di paninari: e di Cernobyl. Crack dei videogame: l’’84 – anno di uscita del famigerato karetécult – è anche l’anno del crollo del mercato videoludico con annessa demonizzazione della ludopatia elettronica. Qui da noi spopolavano format come Drive In, Colpo grosso e – già dal 1988 – Striscia la Notizia. Golden age un fico secco! Ma gli anni Ottanta d’oggi sono anni aumentati, embeddati nella retorica della nostalgia per i bei tempi andati e raccontati col carattere del mito: quando tutto era «più semplice» – come rimarca spesso il sensei Johnny, alle prese con la navigazione sull’internet. Oggi gli anni Ottanta sono un franchising. Titoli, generi, suoni, immagini e persino colori (contrastati, saturati e fluo) ispirati al famigerato decennio, confezionano un ambiente di comfort dove, se tutto è cambiato, possiamo sentirci come prima. Anzi, meglio.
Rifugiarsi in questo universo consolatorio non a caso è il soggetto di un episodio della serie distopica Black Mirror intitolato e dedicato a San Jupinero, paradiso virtuale dove persone in stato comatoso rivivono la loro giovinezza «analogica» fra musicassette, sale giochi e acconciature-effetto-bagnato. Stesso accade in Cobra Kai dove Johnny/Zabke interpreta un antieroe working class incastrato fra due generi: il «classico» film giovanilista anni Ottanta, dove si diventa maestri di karate in una manciata di dissolvenze, e la serie tv contemporanea, intessuta di sottotrame, meta-linguaggio e crossover. L’universo di Karate Kid collassa in quello di Cobra Kai, dove si «scoprono» le teorie di genere, la cultura digitale e la complessità del sentimento. Non un documentario di finzione, dunque, ma un documentario sulla finzione del karate movie che si manifesta nei ricorrenti flashback di Johnny/Zabke al film dell’84 (da cui l’impopolare revisione del ruolo di Miyagi che ho esposto in apertura). In queste scene la memoria personale, attoriale e collettiva sobbolisce sino a debordare fuori dai confini della pura fiction. Con copiose zaffate di nostalgia, che fanno scopa con «melancolia», quel sentimento di tristezza morbosa che ti avvolge nel plaid del disincanto, degli amori non corrisposti, dell’innocenza perduta, dei what if… ma anche no.
Miyagi è morto, Marx pure e Sanders non se la passa bene
Un tempo l’ideologia serviva a offuscare le relazioni di potere ordite dalla classe dominante per soggiogare il popolo. A schermarle. Oggi, palleggiando con l’etimo, le relazioni non sono più schermate ma schermiche, cioé trasparenti. Difatti la messa-a-consumo degli anni Ottanta è un fenomeno ormai ostentato, teatralizzato e gamificato dalle stesse piattaforme che ne ordiscono le trame. Netflix, che cavalca e indirizza l’onda, raccoglie ormai decine di titoli (Stranger Things, Glow, The Naked Director, Pose, Bandersnatch e ora Cobra Kai) che stuzzicano la complicità dello spettatore-fan con continue strizzatine d’occhio, cliché e scene di self-mocking. In Cobra Kai questa funzione è affidata a Demetri, il nerd della scuola, che si premura di smontare ogni «perla» karatechista del compianto Miyagi (prima fra tutte, la celebre «Dai la cera, togli la cera»), o Raymond, detto «er Pastinaca», il commesso del ferramenta che alla vista della maglietta dei Metallica sfoggiata da Johnny, ammette: «Gli anni Ottanta sono stati i migliori di sempre!… In realtà al tempo avevo solo cinque anni, ma non importa». È poi lo stesso LaRusso, coi suoi bonsai prostituiti al merchandising, a ostentare l’ormai radicata capitalizzazione della filosofia orientale nel mondo del mercato e della finanza. L’orientalismo, fenomeno teorizzato negli anni Settanta da Edward Said, è il discorso romanzato prodotto dall’Occidente sull’Oriente per dominarlo culturalmente identificandolo come Altro. Una forma di feticismo che porta il ricco LaRusso a giocare sporco e metter mano al portafogli pur di infilare i bastoni fra le ruote al working class Johnny Lawrence, mentre corazzato di autocompiacimento, coltiva il suo giardinetto zen e prepara «la cera» per l’arrivo di nuovi allievi. Un ideale feticista di purezza e equilibrio interiore, consapevolmente auto-indotto per giustificare nefandezze e colpi sotto la cintura in ambito professionale. Lo stesso feticismo, di carattere visuale e retrò, che piazza sul divano lo spettatore seriale di oggi: consapevole del proprio auto-inganno masochista e nondimeno felice di crogiolarsene.
Gli stregoni del consumo parlano ormai di «emotional» o «nostalgia marketing», ovvero dello sfruttamento della memoria come leva d’acquisto. Si tratta di inoculare in un determinato prodotto un ricordo positivo legato a un passato rassicurante e compensatorio. In questo decalogo di retromarketing, gli esperti consigliano senza mezzi termini di sfruttare l’effetto crisi («Tornare, almeno a livello di estetica e di marchio, a prodotti che ci ricordano un’epoca più felice è rassicurante»), rimandando a beni del passato che trasmettano «sensazioni di genuinità, durata e ottima fattura». La nostalgia genera profitto: ricombina consumatori di classi, generi e generazioni diverse, crea contenuti condivisibili sui social, riducendo lo sforzo creativo dei marketer. Per attuare questa strategia, l’industria visuale crea veri e propri franchising dell’immaginario dove per «ritornare al consumo», vecchi marchi e prodotti sono posizionati all’interno di un’epoca storica riscritta secondo le regole del mercato. Campagne come quella di Adidas Originals, che nel 2006 «ritorna alle origini» della Golden age hip-hop per lanciare la nuova moda urban degli anni Duemila: stradaiola ma glamour, multietnica ma classy, popolare, certo, ma col vecchio logo a trifoglio sfoggiato in bella vista. O film come Ready Player One (Steven Spielberg, 2014), dove l’umanità è soggiogata da una realtà virtuale popolata di iconografia pop che, seppur con l’intenzione di criticare le multinazionali che investono sull’estetica del ricordo, finisce col proporre l’ennesima scofanata di citazioni postmoderne per bulimici del déjà vu. Questi e altri prodotti audiovisivi incarnano e allo stesso tempo demistificano ludicamente l’imperante marketizzazione di idee e sentimenti forti. Come già rilevato da Selene Pascarella per l’immaginario delle lotte femministe o da Francesco Sticchi per l’Universo Cinematografico Marvel, la cultura visuale contemporanea sembra far leva sul radicalismo politico ed estetico come esca per l’anestetizzazione del conflitto (e la stimolazione del consumo).
Operazioni come quella di Cobra Kai ci raccontano che le mosse dell’antica scuola di Hokuto della critica ideologica (decostruzione, disvelamento, depensamento) sono ormai organiche al sistema di apparati, informazioni e schermi che compone il nostro habitat mediale. Ci troviamo impelagati in schermaglie immaginarie, che modellano la nostra idea di futuro attraverso la riscrittura di un passato collettivo ma spesso non condiviso. Un passato risorto, più che rivissuto, ma nelle sembianze dello zombie: di una putrescenza chic, da cui non possiamo distogliere lo sguardo.
Ma ogni scuola ha i suoi punti deboli, compresa quella del Cobra Kai. La riscoperta della cultura analogica (celebrata nella serie) corrisponde a un corposo intervento di iper-digitalizzazione (dello spettatore). Netflix & soci puntano su un’esperienza spettatoriale individuale e privata, in isolamento fiduciario fra le mura domestiche e gli smart-screen, omologata nei gusti e nei tempi di fruizione (il dettame dell’azienda di Los Gatos, seguendo la logica dell’interfaccia, è di creare contenuti che acchiappino entro i primi tre minuti, o il netflixiano si metterà alla caccia di un altro titolo). Tutt’altra cosa rispetto all’esperienza degli spettatori classici o d’essai. L’analogico imponeva loro la mobilità sociale (recarsi in sala o nel salotto altrui come evento e spazio di socialità), lo smercio dei contenuti (la videoregistrazione coatta prima, il peer-to-peer dopo), l’intervento, a volte pasticciato, sugli apparati di riproduzione e la loro presenza all’interno dell’architettura pubblica (cinema, teatri, drive-in) e casalinga (tv a tubo catodico, radio, videoregistratori).
La riscoperta di contenuti d’epoca, per giocare un ruolo memoriale e contro-narrativo, dovrebbe accompagnarsi a una riattivazione dei suoi peculiari modi di farne esperienza che, già da tempo (partiamo proprio dagli anni Ottanta), si articolavano fra dimensione pubblica e privata, autoproduzione e consumo, sperimentazione e intrattenimento. Cobra Kai, fra le righe, racconta anche di questo, con la generazione del cinquantenne Johnny alle prese con Tinder e quella dei suoi allievi adolescenti con le tecniche di «rimorchio» analogico (alla Ritorno al futuro) e di allenamento boschivo (alla Rocky IV). Universi transgenerazionali a confronto che cercano il nuovo nel vecchio e il vecchio nel nuovo, in un’epoca in cui ibridazione e transmedialità sono condizioni di partenza di ogni fenomeno pop: da visionare, interpellare e smontare con ogni mezzo necessario. E alzando il culo dal divano.
*Nexus (Giuseppe Gatti) è regista, performer e ricercatore. Ballerino di breaking, ha fondato e dirige la compagnia Garofoli/Nexus. È docente di storia e filosofia hip-hop alla Urban Dance Academy e del laboratorio di arti digitali presso il Dams di Roma Tre. È autore di Stradario Hip hop (Alegre Quinto tipo).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.