
Dante ai Caraibi
La rielaborazione e la traduzione della Divina commedia da parte di scrittori e poeti dell'altra parte del mondo mostrano come sia possibile decolonizzare un monumento nazionale
Uno dei risultati forse più interessanti dei recenti studi su Dante riguarda quello che potremmo definire un «Global Turn»: il proliferare di ricerche sulla ricezione del poeta in tempi, luoghi, e lingue più o meno lontane dalla Firenze del Trecento, che ha aperto di riflesso il testo della Commedia a inquietudini e domande attualissime sul rapporto col passato e sulla sua riappropriazione. Si pensi a un tema celebre (e ambiguo) nell’opera e nel mito dantesco come quello dell’esilio, che poté essere appropriato allo stesso tempo come fondativo del mito nazionale da parte di intellettuali risorgimentali espatriati e pronti a combattere per la Patria, e come elemento costruttivo della deterritorializzazione tipica della tradizione italiana.
In tale contesto, Jason Allen-Paisant ha contribuito al recente Oxford Handbook of Dante con un capitolo sulla ricezione afro-caraibica di Dante a partire da due casi di studio: la rielaborazione dello scrittore barbadiano Kamau Brathwaite, scomparso l’anno scorso, e le traduzioni creole della poeta laureata jamaicana, ora espatriata in Canada, Lorna Goodison. Sono due casi a loro modo molto diversi, e in qualche maniera anche significativi di due momenti differenti della ricezione dantesca: Brathwaite sembra aspirare a un’epica decoloniale, che mette in luce la violenza del dominio e utilizza per questo soprattutto il Dante «infernale» ambientandolo però nella capitale jamaicana; Lorna Goodison, invece, si posiziona su una strada più offensiva, che si riappropria della voce degli spossessati (nel contesto giamaicano) per rovesciarla.
Una tematica comune ai due poeti e ricorrente nella letteratura postcoloniale è quella del linguaggio. Entrambi gli scrittori, infatti, riconoscono a Dante la sua capacità di teorizzare e in parte anche di inventare il volgare e trovargli uno spazio indipendente dalle lingue ufficiali o dominanti: nel contesto medievale, si trattava dei vernacoli italiani di contro al latino delle istituzioni; per gli scrittori postcoloniali, invece, il discorso riguarda le lingue creole locali di contro all’inglese ufficiale imposto dalla potenza coloniale britannica. È davvero straordinario come questa «invenzione» dantesca sia piegata in senso progressivo, mai nazionalistico: per Brathwaite, è impressionante lo sforzo di capire il rapporto tra la lingua «volgare» (non dominante) e l’oralità (con l’apertura alla performance) mentre Goodison sposta il vernacolare sul terreno del creolo, riconoscendo il rapporto con l’inglese britannico e allo stesso tempo mettendone in luce le potenzialità espressive.
Con l’idea di continuare a de-monumentalizzare Dante nell’anno del settecentesimo anniversario dalla morte, Jacobin Italia ha intervistato Jason Allen-Paisant, che insieme a Nicolò Crisafi, Antonio Montefusco e Gaia Benzi ha parlato delle riscritture postcoloniali della Commedia, di narrazione della violenza, di esilio, capitalismo e del rapporto tra lingua degli oppressori e lingua degli oppressi.
Un elemento molto forte nelle riscritture postcoloniali della Commedia è il parallelo fra la traiettoria del protagonista che «libertà va cercando» dall’inferno al paradiso, e il tragico percorso storico di emancipazione nell’esperienza afro-caraibica della schiavitù.
Sì, è certamente un tema comune; tuttavia, in molti casi, e di sicuro nel contesto caraibico, le cose appaiono meno lineari, meno semplici che nel mondo di Dante. Dante compie un percorso lineare verso la libertà; per molti poeti caraibici che alludono a lui, il percorso verso qualsiasi tipo di «libertà» è fatto di corsi e ricorsi, implica sempre movimenti e ritorni; il passato riemerge sempre nel presente; le pareti del tempo non sono a tenuta stagna come nel mondo di Dante. Era questo il problema che Wilson Harris aveva con Dante [Harris è stato un importante scrittore guyanese emigrato nel Regno Unito; qui si fa riferimento alla trilogia Carnival, nella quale la figura del narratore è ispirata a Dante, ndr].
Ci si chiede allora perché Dante sia una figura così potente agli occhi di alcuni dei nostri poeti più affascinanti. Kamau Brathwaite, per esempio, è interessato a ciò che Dante fa con la poesia volgare. Brathwaite vede Dante come un modello per il tipo di poesia che lui voleva contribuire a rendere prestigiosa nei Caraibi che, nel contesto postcoloniale, dovevano a suo avviso reimpossessarsi della loro indipendenza. E parte di questa emancipazione, dal punto di vista culturale e in termini di identità e di conoscenza di sé, era l’emancipazione della propria lingua, del proprio modo di parlare, del proprio suono. Per Brathwaite, la cultura orale trasmette una parte importante della visione del mondo di un popolo, del suo modo di pensare. Per lui la lingua è epistemica; e lo stesso sforzo di sottolineare le qualità epistemiche della lingua lo troviamo in Goodison. È questo l’aspetto principale che entrambi colgono nella figura di Dante: la premessa di una lingua nazionale, di una cultura espressiva nazionale, la nation language, come la definisce Brathwaite.
In questi poeti c’è di certo un accenno al viaggio del pellegrino, in un modo o nell’altro, verso la libertà. Anthony McNeill [poeta giamaicano morto prematuramente nel 1996, considerato fra le voci più importanti della sua generazione, ndr] arruola Dante come partigiano nel suo tentativo di trascendere il mondo fisico ordinario con i suoi assalti e le sue aggressioni razziste. McNeill evoca un legame fra il tema del viaggio verso le stelle nel suo Credences at the Altar of Cloud e l’immagine del viaggio del pellegrino nella Divina Commedia. Il viaggio alle stelle e nello spazio profondo era un tema enorme nella musica nera degli anni Sessanta e Settanta. Lo spazio emergeva dalla «corsa allo spazio» della Guerra fredda come la metafora suprema della lotta esistenziale, esprimendo così la ricerca di senso e di un punto di ancoraggio per il sé. I musicisti e poeti neri trovarono nella metafora dello spazio un’espressione artistica in grado di trascendere il terrore cosmico dell’oppressione razziale considerata «fuori dal mondo». McNeill associa tutto questo a Dante e alla figura di Beatrice. In una serie di tre poesie sul tema dantesco, Beatrice sembra evocata dall’immagine dell’ascesa verso «la luce», su per una «scala», verso il reame etereo e non-geografico della luce, della musica, e dell’aria; attraverso l’amore estatico e spirituale per la figura beatriciana di Olive.
Ma ancora una volta, anche qui non c’è l’idea «pulita» di un viaggio lineare a tappe. C’è sì l’aspirazione a circostanze più felici, ma nel cielo di McNeill c’è anche un’oscurità, ci sono voci luttuose o perturbanti che insinuano l’idea che l’oscurità dell’inferno sia qualcosa con cui convivere e da cui sopravvivere, finché continueremo a vivere in un futuro creato dall’atroce passato della schiavitù e del colonialismo. Non è pessimismo; c’è un senso di trascendenza in questa poesia, ma poeti come McNeill, Goodison, e Brathwaite cercano un ritratto più vero e più realistico della nostra Storia nella quale l’inferno è stato, e continua a essere, in terra. Quando l’inferno è un’esperienza vissuta reale, immaginare una destinazione finale limpida è difficile; ma forse il problema maggiore è che è una semplificazione.
C’è una scrittrice importante di nome Esther Figueroa che non è abbastanza apprezzata. Il suo romanzo Limbo è un ottimo libro, e come si evince dal titolo a Figueroa interessa in particolare il limbo di Dante. Mentre la maggior parte degli scrittori caraibici è attratta dall’inferno, Figueroa si chiede che cosa succeda alle persone che vivono una esistenza sospesa, che non è la tortura senza fine dell’inferno vero e proprio ma neanche la possibilità di godere di un’esistenza normale. E ciò che caratterizza questa folla sono i sospiri. Figueroa scrive di come, da giamaicani, stiamo sempre sospirando perché non possiamo sfuggire al passato; quando pensiamo di aver fatto qualche passo avanti, il passato ritorna sotto forma di violenza sistemica, conflitto di classe e ineguaglianze, retaggio del sistema di piantagione, gli effetti del neo-colonialismo globale, ecc. Anche Pauline Melville, scrittrice guayanese, è interessata alla folla che Dante incontra all’inizio del suo viaggio, la folla che si accalca gemendo e sospirando alla riva del fiume Acheronte.
Gli scrittori caraibici reinterpretano Dante. È questo ciò che fanno; ne prendono ispirazione, ovviamente, ma sono interessati a reinterpretare questa materia di inferno e paradiso, e i loro limiti.
Nel suo poema Short History of Dis, Kamau Brathwaite sceglie di collocare la violenza dell’inferno sulla terra, ambientando il poema in una Kingston post-apocalittica. Che conseguenze ha questa scelta quando si parla di vittime e carnefici? E la violenza perpetrata dallo stato contro i propri soggetti neri può ancora rientrare nella categoria dantesca di «violenza contro sé stesso», in quanto riproduce una catena di violenza all’interno della società stessa?
È importante chiarire che cosa si intenda con il termine «post-apocalittico». L’«apocalisse» si riferisce al cataclisma della schiavitù atlantica, la tratta della carne africana che ha portato alla situazione senza precedenti in cui furono messe le società caraibiche creole, una situazione di rottura e violenza. Questa creò le società in cui viviamo oggi. Certo, abbiamo imparato a gestire come potevamo la storia e a fare passi avanti dal punto di vista politico e sociale. Tuttavia, le dinamiche della piantagione schiavista continuano a influenzare la nostra società. Il controllo che l’élite minoritaria bianca e brown [discendente delle unioni tra padroni europei a schiave africane, Ndt] ha sulla terra continua a essere sproporzionata rispetto a quello della maggioranza nera. Ma il retaggio della piantagione ha creato un ordine razziale in cui le élite locali mostrano regolarmente di disprezzare l’umanità dei loro soggetti, ripetendo gli schemi di sacrificabilità e le abitudini radicate di violenza consolidate nelle istituzioni da secoli.
Questo sta al cuore della connessione fra Brathwaite e la Commedia, anzi, del modo in cui Brathwaite rielabora la concezione dell’inferno dantesco. Nel suo Short History of Dis, or Middle Passages Today (un lungo poema dal titolo significativo), l’inferno è in terra, come avete notato. Ma l’inferno non è composto solo delle persone che hanno fatto il male volutamente, come nella Commedia di Dante. Qui non è così semplice, se posso dirlo. L’inferno è anche l’insieme delle condizioni sociali che sono state create dall’utilizzo del potere sistemico e pernicioso – e per «potere» intendo la società razzista e anti-neri che opera in un’economia globale razzista. Il sistemico abbandono delle masse e la loro povertà sistemica che generano violenza a loro volta. E i peccatori non sono meramente persone che sono naturalmente e volutamente malvagi. Ancora una volta i peccatori sono le stesse persone che sono sacrificabili, vittime del neoliberalismo, della brutalità della polizia, o di incuria da parte dello stato. Brathwaite non afferma che essi non abbiano responsabilità ma mostra come l’abbandono sociale e la violenza costante induriscono coloro che ne sono vittima e li rendono violenti. Vuole mostrare come la violenza genera violenza. E così i peccatori sono anche loro spesso l’élite della società, ben pensanti, e apparentemente innocenti – il confine fra «vittima» e «carnefice» è complicato; Brathwaite fa questo. L’élite politica è coinvolta ma lo sono anche i cittadini della classe media e alta di Kingston – e per estensione degli altri stati postcoloniali – che patologizzano i poveri, perpetuano divisioni di classe e colore, e chiudono un occhio sui problemi dell’ineguaglianza. L’abbandono urbano è anche un sintomo del neoliberismo, del modo in cui le politiche e le istituzioni neoliberiste, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, influenzano l’uso della terra dall’agricoltura ai mezzi di sostentamento locali, praticano il dumping, ecc. Le strategie aggressive e coercitive del neoliberalismo fanno parte del retaggio della schiavitù, come evidenzia Brathwaite; sono le scosse di assestamento della violenza coloniale che ancora determinano i problemi di violenza nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo, come i Caraibi.
Per sottolineare questi punti, Brathwaite cita il lavoro del famoso sociologo e romanziere Orlando Patterson e la sua «dump», l’immagine degli «scartati» che non meritano di essere compianti, e ci invita a
See Achebe, see Soyinka, see Biko, […] see Sun Yet Sun, see all the Disappeared of S America – see see see until you bline” [“Vedi Achebe, vedi Soyinka, vedi Biko, […] vedi Sun Yet Sun, vedi tutti i Desaparecidos del Sud America –vedi vedi vedi finché non ti acciechi”].
Ma evoca anche la dimensione fisica di Dite per far capire le dinamiche fisiche della città di Kingston, fra cui le divisioni militarizzate dello spazio e i muri alti e le barriere di ferro che i ricchi devono erigere (sono vittime a loro volta!) per separare e proteggere i loro quartieri dalle comunità urbane materialmente impoverite, per tenerli fuori. Dunque, date le radici intricate della violenza in un posto come la Giamaica, e la sua inestricabilità dalle istituzioni formali dello stato, coloro che dovrebbero proteggere gli innocenti e i vulnerabili, e le sovrapposizioni fra l’economia globale e la povertà sistemica locale, Brathwaite complica, come potete vedere, la visione che Dante ha della violenza nel settimo cerchio. La violenza contro sé stessi, contro la Natura, e contro Dio – quante cose possono voler dire? I loro significati sono influenzati dal contesto che descrivo.
Brathwaite sembra anche riconoscere a Dante una condanna contro il capitalismo, che si sposta quindi a una messa in discussione dello sfruttamento coloniale.
Dante colloca gli usurai nell’inferno, anzi nel circolo dei violenti, molto prima dell’avvento di ciò che possiamo chiamare «capitalismo». Eppure, Brathwaite, nel situare Dite in un contesto contemporaneo, nella geografia fisica della Kingston contemporanea, ci porta a vedere in un’ottica contemporanea il problema dell’usura posto da Dante. Ciò va di pari passo con la sua reinterpretazione della violenza dantesca contro sé stessi, contro Dio, contro la Natura. L’usura per Dante, come ben sapete, è l’abuso corrotto del denaro che sovverte la propria funzione di mezzo di scambio; è un modo di far crescere il denaro artificialmente e il suo scopo è il profitto. La critica che Dante faceva delle dinamiche capitaliste nella propria società è interessante di per sé. Ma nell’era del capitalismo, in cui i corpi neri in particolare sono stati reificati come merce, un’era in cui i colonialisti hanno appropriato e cannibalizzato lavoro, terra, e corpi geograficamente remoti con la scusa del «progresso» – non è ancora più rilevante l’idea dantesca della perversità dell’usura? L’idea ha forse acquistato una connotazione più di sinistra di quanto lui stesso potesse immaginare all’epoca, ma di fatto in Dante è già presente l’idea che l’abuso del denaro porti alla perversione della natura umana. L’opera di Brathwaite ci invita a studiare quest’idea più da vicino. Come minimo, allarga la prospettiva per mostrare uno degli effetti della crescita artificiale del denaro che è il capitalismo, il lato oscuro della modernità, e coloro che hanno sofferto le maggiori depredazioni sono gli antenati di Brathwaite e i milioni di africani ridotti in schiavitù nel nome del «progresso» dell’Europa. Inoltre, dal Rinascimento in poi, lo sfruttamento del mondo naturale inizia a essere concepito come la dominazione su ciò che è primitivo, iniziando così ad associarsi allo sfruttamento globale dei popoli neri e non-bianchi. Così la nozione dell’usura e l’idea della violenza contro la Natura sono collegate in modi che coinvolgono la storia della razza. L’opera di Brathwaite rivela una profonda consapevolezza di questo fatto e delle implicazioni della scelta dantesca di collocare gli usurai nel circolo dei violenti.
In un recente intervento presso l’Ici di Berlino, che tu hai moderato, Lorna Goodison rivendicava l’esilio dantesco come importante modello per comprendere la diaspora africana anziché sottolinearne la glorificazione come strumento coloniale da parte degli esuli europei. Che tipo di relazione si costruisce con il personaggio storico dell’esule?
Goodison vede in Dante l’immagine di un poeta e di un sognatore che deve lasciare la propria casa per poter sopravvivere o prosperare. C’è anche una certa identificazione personale qui, bisogna dirlo – le opere maggiori di Goodison sono state prodotte «in esilio» in Nord America, dove ha vissuto molti anni. Ciò detto, non bisogna dimenticare che Dante fu condannato all’esilio dai guelfi neri per ragioni politiche; invece l’esilio, per la poetessa caraibica, funziona su diversi piani e in modo più complesso perché meno visibile, nonché maggiormente articolato sul piano spaziale e temporale. Ripeto, l’esilio fu effetto di una scelta personale, e senza dubbio politica, per cui può darsi anche che Dante abbia avuto in parte modo di scegliere, per così dire. Ma rabbrividisco al pensiero di che cosa voglia dire essere bandito perpetuamente dal proprio paese natio; deve essere stato qualcosa di ontologicamente terrificante.
L’altra cosa che mi fa riflettere è la dimensione personale di questa storia vera. Stiamo operando su una scala temporale veramente lunga, se consideriamo che la sentenza è rimasta in vigore fino al 2008, a quasi 700 anni dai fatti, quando il comune di Firenze ha approvato una mozione per revocare formalmente il bando. Ora, c’è un parallelo con la temporalità della schiavitù e della tratta degli schiavi che trovo sconcertante: il fatto che gli effetti fisici e materiali della schiavitù siano ancora visibili nel nostro paesaggio fisico, nelle condizioni sociali delle nostre isole, e anche nelle trasformazioni che ha operato sui nostri corpi, per esempio nel modo in cui le condizioni alimentari sotto la schiavitù hanno prodotto effetti a lungo termine sulla salute dei neri nella diaspora africana. Vediamo inoltre che la vita e la politica americana ne sono ancora profondamente condizionate, e così via. Ritengo che stiamo ancora vivendo nel futuro prossimo creato dalla schiavitù. Forse i nostri discendenti fra tre o quattrocento anni rideranno del fatto che avessimo la tentazione di pensare che questa storia fosse parte del passato. Ma considerate il fatto che questa vicenda non è neanche vecchia quanto Dante; il suo esilio precede l’inizio della schiavitù di più di due secoli.
Forse l’esperienza della diaspora africana è una di quelle esperienze che incita alla partenza – a nuove partenze, in quanto la prima delle partenze è stata lo sradicamento originario. Questa esperienza ha dell’esilio perpetuo, in particolare considerando che il sogno di un’emancipazione totale non si è ancora realizzato. Il grande mistero, che forse è un trionfo, è come abbiano fatto i nostri antenati in schiavitù e come abbiamo fatto noi a sopravvivere in condizioni in cui, a rifletterci un momento, la sopravvivenza sembra impossibile. E forse questa esperienza di sradicamento produce in noi un’erranza. Bisogna dire, tuttavia, che le migrazioni di massa dei popoli delle Indie occidentali sono state collegate a condizioni socio-economiche che spingono le persone, artisti inclusi, a partire in cerca di maggiori opportunità; guadagnarsi da vivere dignitosamente spesso vuole dire andare all’estero dove ci sono maggiori opportunità, e ciò significa spesso l’America del Nord o il Regno unito, o qualche altro paese «del nord», paesi freddi, lontani dalla famiglia, ecc. Che sia per questo motivo o per altri, molti artisti caraibici continuano ad andare in esilio volontario per poter dare spazio ai propri sogni, perché in qualche modo credono che rimanere a casa li limiti, e impedisca loro di realizzare il proprio potenziale.
Ma non posso fare a meno di pensare che c’è anche qualcosa a livello inconscio che ci spinge a partire per poter studiare e capire meglio la condizione perturbante della società di piantagione e il sistema coloniale, che è ancora presente nella vita quotidiana dei nostri paesi, e di sicuro nell’isola della Giamaica, da dove veniamo Lorna e io. Lo spazio che uno si guadagna partendo crea leggibilità, quando un artista o un poeta lasciano e contemplano il proprio luogo d’origine dal luogo dell’esilio. Può darsi che quest’idea non sia formulata esplicitamente nell’intenzione originaria di partire, ma penso che sia presente, e che spesso ne costituisca una specie di aspettativa. Ritengo che questa costante doppiezza, questo senso di dover essere spesso più di una cosa sola, abituarsi ad abitare più di un paesaggio alla volta, sia l’energia che ispira molti di noi scrittrici e scrittori caraibici a scrivere e pensare. C’è di certo la tradizione di studio ed esperienza che comporta recarsi nel paese del colonizzatore, il paese dell’uomo bianco – perché questo è il nostro esilio! – e produce qualcosa di simile all’approfondimento della filosofia e della saggezza del Dante esule, questa abilità di guardare la propria patria in modo più critico, grazie alla lontananza da casa.
In che modo Dante spinge a riflettere sulla propria lingua, sul rapporto tra lingua degli oppressori e lingua degli oppressi, e su come essa si può trasformare in proposta di lingua viva oppure di lingua letteraria, in particolare in una condizione come quella del creolo?
L’uso della lingua volgare è politico e il suo potere politico sta nel senso di riconoscimento che nasce dal suo uso, nel senso di una oralità condivisa che il vernacolo offre, nonché dalla sua natura democratica, dal modo in cui unisce la maggior parte delle persone attraverso l’affettività e l’emozione. Dante riflette su queste idee nel De vulgari eloquentia. La lingua comunica un’identità, un’esperienza, e in ciò sta il suo significato e potere. Gli oppressi sanno che la loro lingua è una fonte di potere e di resistenza, una delle cose che può tenerli in vita, un modo in cui la cultura e la memoria possono resistere e prosperare. Anche gli oppressori sono consapevoli di questo, che il linguaggio è epistemico, contiene una visione del mondo; donde il fatto che ogni qualvolta una cultura ha voluto dominare e sopprimere un’altra, ha deciso di sopprimerne la lingua. Ne abbiamo una miriade di esempi, dal sistema di piantagione nelle Americhe e delle scuole residenziali canadesi, ai tentativi da parte degli inglesi di sopprimere l’uso del gallese nelle scuole; e possiamo elencarne altri. Di fatto, le visioni del mondo alternative hanno il potere di minacciare gli ordini culturali che cercano di preservare la propria egemonia. Spesso la lingua ha un potere ammaliante, taumaturgico, e in questo senso, ha la forza di unire e radunare, che può essere usata per il bene o per il male. In un certo senso, questo potere ammaliante è qualcosa che è difficile da strappare di dosso. Persino per la persona ridotta in schiavitù a cui è stato strappato tutto, il potere dell’oralità può essere preservato, anche solo in maniera residuale, per via di gesti e pratiche sotterranee. Questa, in un certo senso, è la storia delle lingue e culture africane e cosiddette creole nei Caraibi – gesti che preservano cultura e memoria con la conservazione atavica della lingua attraverso la cultura orale.
Per Lorna Goodison, che ha tradotto diversi canti dell’Inferno, il potere della lingua sull’identità collettiva è uno dei gesti politici di Dante più significativi. Come il vernacolo toscano di Dante nel quattordicesimo secolo, il vernacolo giamaicano è per Goodison parte integrante dello sforzo di tessere una narrazione identitaria personale e collettiva. Le sue traduzioni creative pubblicate, Canto I – Dante’s Inferno e Brunetto Lattini: Dante’s Inferno Chapter XV esprimono la sua credenza nel potere del discorso vernacolare di umanizzare o dare potere a gruppi che sono stati privati del potere. Consapevole del fatto che la lingua è parte integrante delle identità di popoli e comunità, la poesia di Goodison ha sempre posto l’accento sul potere delle scelte linguistiche di riflettere, sostenere, o mettere in discussione equilibri di potere.
Anche le riflessioni di Kamau Brathwaite sulla questione linguistica nell’opera di Dante sono di notevole interesse. Brathwaite ha messo in primo piano la teoria e pratica della poesia vernacolare dantesca per il proprio potenziale «democratico» e «nazionale», la sua capacità di stimolare riflessioni sul rapporto fra lingua e potere, e la sua enfasi sull’affettività e l’oralità.
*Jason Allen-Paisant insegna poesie caraibica e pensiero decoloniale alla School of English della University of Leeds, dove dirige l’Institute for Colonial and Postcolonial Studies. Gaia Benzi è redattrice di Jacobin Italia e ricercatrice di storia e letteratura. Ha scritto Tra prìncipi e saltimbanchi. Medicina e letteratura nel Tardo rinascimento (Sue, 2020). Nicolò Crisafi insegna letteratura italiana all’Università di Cambridge. La sua monografia Dante’s Masterplot and Alternative Narratives in the ‘Commedia’ è in stampa per i tipi di Oxford University Press. Antonio Montefusco insegna Letteratura Latina Medievale presso l’Università Ca’ Foscari. Si è occupato di francescanesimo e dissenso religioso, e di storia delle pratiche intellettuali nel Medioevo. Ha curato recentemente Italia senza nazione (Quodlibet 2019) e, con Giuliano Milani, Le Lettere di Dante. Ambienti culturali, contesti storici e circolazione dei saperi (De Gruyter 2020).
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