
End Fossil Roma
Studenti e studentesse della Sapienza occupano l'università. Chiedono innanzitutto che l’ateneo non rinnovi più i propri accordi con aziende fossili e belliche
In un maggio segnato da piogge virulente e da terribili inondazioni in Emilia-Romagna, più di ottanta università sono state occupate in tutto il mondo dalla mobilitazione End Fossil. Dal Portogallo alla Zambia, giovani e studentə si sono attivate con un obiettivo comune: richiedere la fine dell’economia fossile e degli accordi di questa con le università e la ricerca. La risposta all’avanzamento del riscaldamento globale e del collasso ecologico è una: manifestare, occupare, lottare per la giustizia climatica, creare conflitto coordinandosi a livello internazionale.
All’interno di questo contesto, l’occupazione dell’università romana la Sapienza, iniziata il 25 maggio, spicca per la sua durata. Nata dopo mesi di incontri che hanno coinvolto collettivi e organizzazioni studentesche, realtà territoriali e movimenti ambientalisti, questa mobilitazione è la prima della rete che si è formata sotto il nome di End Fossil Roma.
La scelta di occupare proprio la Sapienza non è legata solo al fatto che si tratta del luogo in cui studia e fa ricerca la maggior parte delle persone che si sono attivate, ma anche e soprattutto a una valutazione del valore politico e mediatico che comporta una mobilitazione nell’università più grande d’Europa. L’obiettivo immediato è cercare un modo efficace di sollevare la questione del collasso climatico di fronte alla governance dell’ateneo e alla comunità studentesca. Per questo l’occupazione, prima di spostarsi nel cuore della città universitaria, è partita dalla facoltà di Geologia, uno dei dipartimenti con più collaborazioni di ricerca con Eni.
La protesta si inserisce in un contesto in cui il definanziamento della ricerca pubblica ha spalancato le porte all’ingerenza delle aziende nelle università. La Riforma Gelmini, ormai in vigore da quattordici anni, promuove esplicitamente il «concorso dei privati» al finanziamento delle università, riducendo il contributo statale: il Fondo di Finanziamento Ordinario, infatti, copre per la Sapienza solo il 60% delle spese. La riforma prevede anche la presenza nel Cda dell’ateneo di almeno tre membri esterni all’università.
Aziende climalteranti come Eni, Snam e Leonardo non rispettano vincoli di giustizia né sociale né climatica; la ricerca che sostengono non è certo quella mirata a combattere le cause e gli effetti del cambiamento climatico. La provenienza dei fondi ricevuti influenza e determina la direzione della ricerca in un circolo vizioso che piega l’ateneo agli interessi delle imprese. Questo processo di strumentalizzazione è particolarmente evidente in dipartimenti come quello di Geologia e Ingegneria, che ricevono ingenti finanziamenti privati.
La prima rivendicazione della mobilitazione è che l’università non rinnovi più i propri accordi con aziende fossili e belliche, prendendo innanzitutto una posizione chiara e pubblica rispetto al loro operato all’interno e all’esterno dell’ateneo. L’obiettivo è screditarne il più possibile la reputazione pubblica, per dare il via a un processo di condanna delle compagnie fossili climalteranti. Al contempo la cessazione degli accordi con il privato deve essere accompagnata da un percorso di rinnovo dei finanziamenti statali, in modo che la ricerca e la didattica possano tornare a essere del tutto pubbliche e indipendenti, poste al servizio del bene collettivo.
Un punto importante delle richieste è la trasparenza in merito ai finanziamenti ottenuti dalle aziende e al loro impiego. Si devono poter consultare gli accordi, le collaborazioni di ricerca e i fondi ricevuti da Sapienza e dai singoli docenti e ricercatori, per monitorare le influenze delle imprese sull’ateneo. Al momento l’accessibilità di questi dati è ostacolata da un iter burocratico complesso che non giunge sempre a compimento, e che deve quindi essere semplificato.
Per quanto riguarda il piano della formazione, invece, è stata proposta l’istituzione di un comitato di studenti e docenti che possa dar vita a una didattica veramente alternativa sulla crisi ecosociale e che definisca dei criteri socioambientali per le collaborazioni di soggetti terzi con l’ateneo. Finora la didattica universitaria non ha saputo rispondere alle esigenze di transizione ecologica e trasformazione sociale emerse dall’imminente collasso ecoclimatico. Proprio per questo, l’occupazione è stata attraversata non solamente da studentə, ma anche da docenti e ricercatorə, tra cui si è costituita una rete di dialogo e attivazione su questo tema così urgente eppure trascurato. Le iniziative svoltesi nel corso di questi giorni di mobilitazione rappresentano un esempio di didattica alternativa: partecipata e costruita dal basso, in grado di recepire voci e stimoli marginalizzati e di rispondere alle esigenze di popoli e territori. I numerosi ospiti invitati hanno parlato di decrescita, della lotta ecologista nel Sud del mondo, della relazione tra reddito ed ecologia.
La Sapienza si è recentemente dotata di un Comitato tecnico-scientifico sulla Sostenibilità (Cts) che però, essendo composto da figure che si occupano di progettazione urbana, è principalmente focalizzato sulla sostenibilità dell’ateneo stesso. Se emerge una qualche attenzione per la questione dell’energia e del riuso dei rifiuti, manca un’analisi e una presa di coscienza su come formazione e ricerca universitaria indirizzino l’economia fossile e un ragionamento su come interrompere tale processo. Per come è strutturato ora, il Cts non è l’interlocutore adatto a formulare un programma di studi che possa aggredire completamente il breakdown ambientale. Senza contestare le competenze tecniche delle persone coinvolte, si deve comunque notare che alcuni componenti del Cts hanno collaborato con multinazionali non sostenibili.
Questa crisi non è solo una questione di scelte tecnologiche, è una crisi che richiede uno sforzo di ricerca di alternative in campo economico, politico e sociale. L’economia capitalista non si preoccupa del fatto che la natura non è in grado di riprodursi alla stessa velocità in cui viene sfruttata. Bisogna indagare sul modo in cui la nostra società si rapporta al mondo naturale in termini di estrazione delle risorse, valutando non solo come si produce e quanto si produce, ma anche perché e per l’interesse di chi.
Dobbiamo invertire il paradigma: invece di cedere alle richieste del profitto, è necessario soddisfare i bisogni di territori e popoli, e quindi muoversi verso una pianificazione economica democratica.
Il 29 maggio lə occupantə hanno incontrato la rettrice della Sapienza, il preside della facoltà di Scienze Naturali, il direttore del dipartimento di Geologia e il prorettore alla sostenibilità per presentare loro le rivendicazioni di End Fossil Roma. La risposta è stata deludente, anche se non del tutto inaspettata.
La rettrice si è pronunciata a sfavore della cessazione degli accordi con il privato, tirandosi indietro su tutte le prese di responsabilità, compresa la richiesta di denunciare pubblicamente l’operato delle aziende climalteranti. L’attivazione di un percorso verso la totale trasparenza dell’ateneo è stata delegata ai presidi di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, e di Ingegneria, che hanno avviato una raccolta dei dati relativi ai finanziamenti, pur se con tempistiche molto dilatate e senza garanzie.
Era stato poi istituito un tavolo tra lə occupantə e il Cts per discutere delle istanze legate alla didattica e alla costituzione di un comitato di monitoraggio per l’ateneo; previsto per il 12 giugno, il tavolo è stato successivamente annullato in un tentativo di ricatto per porre fine all’occupazione.
Dalle rivendicazioni di End Fossil Roma traspare un’idea ben precisa del ruolo che l’università dovrebbe ricoprire in un momento di crisi economica, sociale e climatica come questo: il sapere deve essere posizionato e di parte, deve nascere con l’obiettivo intrinseco della giustizia sociale, farsi laboratorio di soluzioni e non strumento di devastazione. L’università dovrebbe essere capace di prepararci ad affrontare gli effetti della crisi climatica, di identificarne le cause sistemiche e proporre delle alternative, facendosi avanguardia di un nuovo sistema: è giunto il momento di decostruire il sapere «neutro» che si vende al miglior offerente.
Oltre alle rivendicazioni politiche, la scelta dell’occupazione come modalità vertenziale comporta la messa in atto di pratiche specifiche e l’apertura di una dimensione collettiva che già in sé rappresenta una sfida: in queste due settimane, il presidio permanente si è dimostrato contemporaneamente conflittuale verso le istituzioni ma capace di costruire un dialogo con la comunità accademica. È un incontro interessante di diverse realtà politiche e diversi modi di organizzazione e di azione. Messe in comune, queste nuove pratiche hanno arricchito le assemblee giornaliere dell’occupazione, per rendere tutte le persone presenti partecipi del processo decisionale sulla vertenza e sulla cura degli spazi.
Il 6 giugno è in programma un corteo all’interno della città universitaria per portare avanti le rivendicazioni continuando il percorso di unificazione delle lotte che hanno attraversato l’occupazione e le assemblee.
Questo è stato solo il primo passo della mobilitazione End Fossil italiana e romana, ma il coordinamento internazionale si sta già muovendo verso il futuro, mantenendo chiaro l’obiettivo di raggiungere la fine dell’economia fossile: ci saranno delle azioni più conflittuali, rivolte non solo all’università ma al mondo intero.
*Valentina Menicacci studentessa di Lettere, è attivista del Collettivo di Lettere della Sapienza. Dario Caglioti studente di Fisica, è attivista del Collettivo di Fisica della Sapienza. Matilde Fravolini studentessa di Filosofia, è attivista del Collettivo di Filosofia della Sapienza.
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