Germania anno zero
Le stragi di matrice nazista in Germania dell'ultimo periodo non sono casi isolati, si inseriscono in una fase politica di profondi stravolgimenti per tutti i partiti. Anche la Spd cerca nuovi sbocchi con la nuova dirigenza di Walter-Borjans
La strage di Hanau il 20 febbraio; l’arresto, il 17 febbraio, di una cellula di 15 terroristi nazisti detta Der harte Kern (il nocciolo duro) intenta a pianificare attacchi contro diverse moschee; pochi mesi prima, l’attacco alla sinagoga di Halle. Non si tratta di casi isolati: gli omicidi a sfondo nazista e razzista avvenuti in Germania negli ultimi anni sarebbero già fra 80 e 150 (quasi 300 dagli anni 1970), e si calcolano in almeno 20.000 gli estremisti assai prossimi al terrorismo, e comunque a esso omogenei ideologicamente. Inoltre, a quanto si legge, il ministro dell’interno Seehofer si sarebbe convinto anche lui della presenza di simpatizzanti di queste frange tra le forze armate e di polizia – il che le avrebbe rese «cieche dall’occhio destro», ovvero non abbastanza inclini a perseguire i neonazisti. In tutto questo, a inizio febbraio, in Turingia i voti di AfD – Alternativa per la Germania, il partito principale della destra xenofoba – sono divenuti improvvisamente fondamentali per eleggere presidente del Land un esponente liberale, poi costretto a dimettersi dopo le pressioni da parte della Merkel; avvenimenti che si sono prestati a due interpretazioni diverse.
Da una parte c’è chi si concentra sulla debolezza di Annette Kramp-Karrenbauer (per tutti Akk): la nuova leader della Cdu sponsorizzata da Angela Merkel non avrebbe saputo ricondurre a disciplina la dirigenza locale del partito prima che unisse i propri voti a quelli AfD, eleggendo lo spregiudicato liberale Kemmerich come Presidente della Turingia, dopo che il candidato della Linke Ramelow non era riuscito a formare una maggioranza. Secondo i critici, Akk avrebbe persino tardato a censurare l’atto una volta accaduto: le sue inevitabili dimissioni renderebbero possibile d’ora in poi mantenere un giusto equilibrio «centrista», scegliendo i Verdi come alleato con cui governare ancora per alcune legislature (esito caldeggiato apertamente sia da Akk che dalla Merkel), sostituendo così una Spd che si vorrebbe destinata, per scongiurare l’estinzione, a un’opposizione più radicale.
L’altro modo di leggere la vicenda è che la tendenza destrorsa della Werteunion, corrente interna alla Cdu, convinta che la presenza AfD richieda (come minimo) di riportare il partito verso una posizione di destra conservatrice allo scopo di riassorbirne i voti, abbia appena cominciato la sua azione. Una spiegazione, questa, con una propria logica storico-funzionale: un’analoga strategia fu attuata già nel dopoguerra, anche per evitare la riemersione di una destra radicale. Allora la presenza della Ddr, e le accuse alla Spd di essere poco diversa dai «cugini» comunisti dell’Est, fornivano argomenti in grado di compattare conservatori, liberali e reazionari. Oggi però il mondo è cambiato, e stanno declinando, per ampi settori delle periferie sociali e delle classi medie, anche i ricordi del Wirtschaftswunder, il primo e più importante «miracolo economico» essenziale nel permettere alla Cdu-Csu di non avere concorrenti alla propria destra. Oggi che l’economia balla sull’orlo della recessione, alla destra c’è la AfD, e tutto lascia presagire che non se ne andrà facilmente.
Secondo i sondaggi, la grande maggioranza dei sostenitori della Cdu-Csu non vuole coalizioni con AfD; ma non è entusiasta dei Verdi, anch’essi piuttosto mal digeriti. Si può così profilare una linea diversa, più nettamente conservatrice, capace di svuotare il consenso dei nazional-populisti. Il gioco apertosi con la crisi della Turingia è del resto rappresentato dalle posizioni di non pochi che dalla Cdu sottolineano come non accettare i voti della AfD significhi favorire la Linke, che sarebbe (riportando testuali dichiarazioni radiofoniche) egualmente illegittima, volendo «reintrodurre il socialismo». Anche supponendo si tratti di schermaglie dialettiche, è difficile pensare che nessuno ci si inserisca – in primis AfD, che non a caso fa girare immagini di Akk avvinta in un bacio con Ramelow, implicitamente richiamando l’«amore letale» tra Breznev e il leader della Ddr Hönecker – finendo per scombussolare gli equilibri interni Cdu-Csu.
Markus Söder, Ministerpräsident bavarese della Csu, ha di recente ribadito con particolare zelo la linea di Akk, affermando che isolare politicamente AfD è «una questione morale non solo politica»; ma questo richiederà un’altrettanto decisa apertura alla Linke, e dubitiamo ciò possa avvenire in modo indolore. Non a caso Friedrich Merz (esponente della destra Cdu rivale di Merkel e candidato alternativo a Akk per la segreteria) ha accolto assai male la possibile soluzione turingia: in sostanza si tratta di far pervenire a Ramelow non già la fiducia della Cdu in quanto partito, ma la possibilità di partire con un «governo di progetto» per il prossimo anno solare. Ciò basta a Merz per parlare di «rottura della fiducia», cioè violazione di un patto con gli elettori per cui Linke e AfD vanno tenuti ambedue lontani. E subito la Werteunion lo sostiene inviando in rete messaggi che parlano di «rottura della diga». Insomma, la crisi Turingia mostra come sarà difficile evitare che AfD da oggi conti di più in consigli comunali, parlamenti regionali e, un giorno, chissà che altro.
In generale, l’esclusione antifascista di forze come AfD era facile quando i partiti politici che la attuavano potevano contare su un consenso inscalfibile e pressoché unanime, che risultava in coalizioni ultra-maggioritarie, mentre gli esclusi non erano determinanti o addirittura maggioranza relativa in intere regioni. Per questo la crisi in Turingia può preludere a un più generale smottamento. Nemmeno in democrazie saldissime come quelle nordiche l’embargo politico verso il nazional-populismo funziona più: in generale (l’ultimo caso è la Svezia) finisce per aumentarne i voti, senza evitare che questi abbiano un impatto nei giochi parlamentari, nelle nomine, nelle politiche, nel linguaggio e così via.
Intanto occorre calibrare bene l’analisi definitoria dell’Afd (come ha fatto Gian Enrico Rusconi su Limes), sgombrando il campo da facili etichette «naziste» e utilizzando categorie più utili: Umvolkung ed etnopluralismo. In sostanza, la AfD – a partire dal suo esponente più radicale e discusso, Björn Höcke – pensa che senza rivedere l’attuale approccio «globalista», l’immigrazione massiccia porterà a una «sostituzione di popoli» in Europa. Per quanto esagerata e insidiosa, questa linea non si rifà all’ideologia aggressiva e gerarchicamente razzista del nazismo, ma a qualcosa di diverso: una dottrina nazional-conservatrice di «etnopluralismo», in cui ogni entità va garantita in un proprio spazio etnoculturale e geografico statuale, definito però non come mera patria costituzionale ma come appartenenza völkisch. Della «religione civile» tedesca degli ultimi decenni, quindi, AfD rifiuta l’idea di «patriottismo costituzionale» incarnata da Habermas – respingendo tuttavia decisamente (e in effetti coerentemente) il nazismo, pur rifiutando di parametrare l’identità tedesca sulla «eterna colpa di Auschwitz». L’apparente contraddizione si spiega col fatto che, anziché difendere il nazismo, AfD voglia difendere il diritto tedesco a esistere in un proprio spazio nell’ambito di un contesto etnopluralista, un disegno che essi vedono minato dall’elezione della colpa della Shoah a fondamento etico nazionale.
Come dichiarava lo stesso Höcke sempre a Limes, il nazismo (col suo razzismo aggressivo) è definito una dittatura da cui liberarsi – anche se il modello non sono gli eroici ragazzi della «Rosa Bianca», né l’incorruttibile socialismo di Willy Brandt, ma gli sfortunati attentati a Hitler di Stauffenberg, volti a riscattare l’onore nazional-conservatore tedesco. Come in tutti i nazional-populismi odierni, più che di fascismo dobbiamo parlare di «anti-antifascismo». Azzeccare la definizione non è un vezzo accademico, ma porta alla consapevolezza (dolorosa per ogni antifascista, ma per ogni socialista indispensabile) che le culture antifasciste negli ultimi decenni hanno finito per trascurare alcuni dei caratteri socio-politici che le caratterizzavano quando hanno coniugato riforma del capitalismo, partecipazione politica di massa e lotta all’elitismo. Disperdendo la ricchezza dei decenni socialdemocratici e rooseveltiani, l’antifascismo è rimasto nell’invadente prossimità delle ideologie liberal-globaliste, storicamente incapaci, in quanto tali, di integrare masse e democrazia.
È sintomatico, in proposito, quanto afferma Höcke sull’unificazione del 1990: da tedesco occidentale, egli fa politica all’Est perché lì ravvisa un potenziale di impegno ormai sconosciuto all’Ovest, capace di opporsi all’omologazione e reclamare un conservatorismo nazionale – un punto che forse non tutti nella Cdu vorranno lasciare ad AfD, e che ci riporta ai problemi dell’alleanza coi Verdi, e di come le dimissioni della merkeliana Akk potrebbero preludere a conseguenze ancor peggiori, riaprendo lo scontro interno alla Cdu (Merz aveva perso la sfida per la segreteria per pochi voti).
Del resto, l’evoluzione «liberal», e ancora di più l’ordoliberalismo «centrista» imposte dalla Merkel al partito sono state il risultato di una svolta non pianificata. Commentando dalla Baviera le elezioni del 2005, osservavo come la Merkel, pur favorita dal calo di popolarità di Gerhard Schröder e delle sue riforme del lavoro, era accusata dall’ala più sociale della Cdu-Csu di aver bruciato il proprio vantaggio con un programma fortemente neoliberale, basato sulle virtù taumaturgiche dei tagli fiscali. Oggi come allora, fonti autorevoli della Spd sottolineano come, fin dal crollo del muro dietro cui viveva, la Ossie Angela Merkel avrebbe rivelato una spregiudicata disponibilità trasformista – secondo i più perfidi, la sua stessa scelta della Cdu rispetto alla Spd sarebbe dipesa da mero caso, o peggio da un calcolo da campagna acquisti.
Tornando al 2005, la Merkel, priva di maggioranza, fu allora indotta alla sua prima Große Koalition (la seconda dal 1969) con la Spd – la prima di una serie che, dopo l’esito negativo dell’alleanza con i liberali del 2009-2013, ha bruciato tutte le soluzioni «classiche» della politica tedesca. Come mai? Tutte queste soluzioni erano basate su un assunto rivelatosi errato: che ai Volksparteien, i partiti maggioritari, sarebbero bastati il sostegno incondizionato di alcuni settori sociali – i ceti operai protetti dalla co-decisione nelle aziende (Mitbestimmung) e le piccole e medie imprese (Mittelstand) – e la subordinata pazienza dei meno fortunati. Schröder da sinistra e Merkel da destra hanno incarnato la convinzione che la sola domanda estera avrebbe mantenuto questi ceti numericamente dominanti.
Ma confidare solo su quell’alimento, a partire dalle note riforme Hartz, ha prodotto il maggiore aumento della percentuale di lavoratori poveri in Europa. Non basta: le stesse riforme hanno confermato un assunto tipico della socialdemocrazia autentica, ovvero che è un errore fatale abbassare il livello dei redditi di disoccupazione per indurre ad accettare lavori meno graditi. Il risultato è infatti stata la riduzione dei salari minori, che si sono adeguati al ribasso, in una vera e propria pandemia di arretramento sociale e precarizzazione. Da questo punto di vista, il salario minimo legale è indispensabile, ma è solo l’inizio: affinché abbia un impatto sociale rilevante, sostengono su Social Europe gli economisti Pusch e Heise, il minimo va portato a 12 euro l’ora, e non è detto che basti. Per uscire dall’attuale fase di depressione e gerarchizzazione sociale (di cui un mercato del lavoro precarizzato è sempre il centro) occorre che a misure come sussidi di disoccupazione rinforzati, salario minimo più elevato e rafforzamento delle capacità negoziali dei lavoratori si associ una dinamica positiva della domanda interna. Altrimenti, come scrivevano già un decennio fa Wendy Carlin e David Soskice, anche simili misure a favore del lavoro non innescano una vera riscossa, capace di ribaltare una sensazione (giustificata) di arretramento non limitata alle periferie geografiche e sociali. Infatti, senza la creazione di buoni lavori e migliori salari, da un lato i lavoratori all’interno del circuito della Mitbestimmung lo vivranno in modo ansiogeno e difensivo, accontentandosi di una dinamica salariale soddisfacente ma minore del potenziale; dall’altro il salario minimo legale rischia di diventare un fondo verso cui abbassare molte retribuzioni, piuttosto che una base da cui partire.
Per ribaltare la gerarchizzazione cui sono costrette (e purtroppo ormai abituate) le classi lavoratrici e medie, è necessario adottare insieme tutti questi strumenti, grazie ai quali il «centro» del lavoro dipendente saprebbe trainare verso l’alto le componenti meno retribuite, mentre salario minimo legale e riscatto sindacale opererebbero come solidi «pavimenti», in grado di escluderne la «discesa» (reale e percepita). È solo su questo terreno virtuoso che si può scacciare la disillusione per la politica e rigettare la ricerca della «protezione» nazional-populista, mentre riacquista agibilità concreta il nesso fra lavoro e protagonismo sociale. E così ritornano «popolari» e credibili le culture politiche «antifasciste», a partire dal socialismo democratico. Quest’ultimo, usando gli spazi di manovra a disposizione in Germania ancor più che in Italia, potrebbe così contrapporsi al concetto «sociale» ordoliberale – un ordine normato e competitivo, ma gerarchico, mai paritario – sostituendogli un mercato del lavoro intriso di forza egemonica socialista, che incentiva il lavoro non tagliando sui sussidi di disoccupazione, ma investendo per la creazione di lavori buoni e ben pagati. Una società in cui nessuno è logorato dall’ansia, in cui la politica ha senso per tutti, è il luogo in cui risorge il senso democratico dei cittadini. Senza questo, come prova proprio il rapido esaurimento di tutte le coalizioni sperimentate dal 2005 in poi, la domanda esterna da sola non basta nemmeno alla Germania.
La vittoria, nell’ultimo congresso della Spd dello scorso dicembre, della nuova dirigenza di Walter-Borjans sembrerebbe indicare che questa interpretazione abbia finalmente prevalso anche nel partito, sebbene si sia ancora lontani da risultati concreti, come mostrano le recenti elezioni di Amburgo, con il forte calo della Spd (e della Cdu). Del resto, la situazione tedesca dipende certo dal modo schiettamente ordoliberale di Frau Merkel di difendere la democrazia tedesca, ma anche da una lunga tradizione dell’Spd che per esempio, rispetto al socialismo scandinavo, ha storicamente perseguito con minore convinzione un’economia basata sulla parità fra capitale e lavoro. Come sosteneva ad esempio Allen, solo per pochi anni, ai tempi di Willy Brandt, la Spd ha sostenuto una domanda interna adeguata, assieme ad altre misure a sostegno del lavoro – un tempo che fu troppo breve per ribaltare l’egemonia ordoliberale. Del resto, mentre le socialdemocrazie nordiche uscirono dalla Grande depressione degli anni Trenta rifiutando di svalutare il salario, di cui fecero in seguito un bastione cui le controparti dovevano adeguarsi, la Spd non poté sfruttare questo momento generativo. Anzi, il tipo di domanda drogata realizzato da Hitler, assieme all’interesse alleato di rimetterne in piedi rapidamente il grande complesso industriale assorbendone le produzioni, hanno giustificato e sorretto il regime ordoliberale, e il mantenimento della domanda interna «sotto potenziale». Per questo, come hanno ricostruito Giovanni Bernardini e soprattutto Laurent Warlouzet, appena Brandt fu costretto dimettersi (1974) e cominciarono a infuriare le crisi petrolifere, Helmut Schmidt sarà molto più rapido degli altri socialisti europei nell’adattarsi a un regime salariale e di domanda interna «remissivo», e ciò nonostante il potenziamento del Mitbestimmung nel 1976. Allo stesso modo, intorno al 2000, dopo 16 anni di governo Cdu-Csu, Schröder fu rapidissimo a cogliere un altro stimolo esterno (la fiducia nella globalizzazione come inesauribile e autosufficiente opportunità di crescita) per introdurre le citate riforme HartzIV, sempre senza mancare di potenziare il Mitbestimmung.
Senza per questo dare credito all’assurda idea secondo cui la Mitbestimmung «corrompe» il socialismo, va però ribadito che perché questa dispieghi tutto il suo significato ha bisogno disperato anche degli altri elementi di parità della forza del lavoro prima descritti. Proprio la tendenza storica prevalente nella Spd di non utilizzare anche questi altri elementi è stata letale – e in virtù del ruolo della Germania, ha finito per colpire anche le altre socialdemocrazie. Dinamiche simili hanno causato (o fortemente condeterminato) anche altrove la crisi delle forze politiche «storiche», a favore della destra nazional-populista. Lasciando da parte l’Italia, dove la sinistra proprio non esiste più, va constatato che, se è vero che anche in Svezia i socialdemocratici sono stati costretti a un governo molto insidioso sostenuto da alcuni partiti «borghesi», tuttavia almeno riescono ancora a farlo da una posizione di forza. Diversamente, nella infinita Große Koalition, l’Spd ha potuto giocare solo il ruolo di partner sempre più junior, fino ai livelli davvero infimi dei sondaggi odierni.
Il deficit di domanda interna accumulato è misurabile in molti modi. Secondo lo storico Adam Tooze, la Germania è in grave ritardo in termini di politiche «verdi», essendo di gran lunga il peggiore inquinatore d’Europa in termini di emissioni di gas serra pro capite (11.4 tonnellate nel 2016, contro i 7.2 e 7.3 di Francia e Italia) – un problema che, come l’elevata dipendenza da carbone, può essere risolto solo da investimenti massicci, che darebbero anche occasione di rispondere alle inquietudini dei Länder dell’est. Se volesse perseguire un simile cambiamento di rotta, la Spd avrebbe certo dalla sua le possibilità insite nei grandi potenziali di investimento tedeschi. Ma proprio il fatto che queste potenzialità, presenti da sempre, siano rimaste sinora inutilizzate, dimostra che evidentemente le resistenze storiche e ideologiche contro il loro impiego sono imponenti, e la nuova leadership di Walter-Borjans dovrà essere molto decisa a liberarsene.
Simili resistenze possono del resto venire da politici come il ministro Olof Scholz, che sebbene ben più anziano di me, conobbi nel socialismo giovanile europeo: radicale e sprezzante del moderatismo di Schmidt quando era necessario per fare carriera negli Jusos, la giovanile del partito, Scholz rappresenta oggi la quinta colonna ordoliberale nella Spd. Quando una sera mi raccontò che proveniva da una facoltosa famiglia amburghese, mi fu spontaneo replicare che la cosa non mi sorprendeva, provocandogli una reazione rabbiosa: «adesso dovrai dirmi che cosa intendevi!». Chiaramente, intendevo che emanava un radicalismo per nulla genuino, tipico di certi ceti e delle convenienze del momento. Oggi occorre più che mai andare oltre tutto questo, presto e con decisione. Vorwärts, verrebbe voglia di dire: Avanti! – qualunque cosa ne pensino Scholz e quelli come lui.
*Paolo Borioni si occupa di storia nordica, socialismo europeo, welfare. Professore associato alla Sapienza di Roma, insegna storia delle dottrine e delle istituzioni politiche. Da lungo tempo collabora con la Fondazione Istituto Gramsci e la Fondazione Brodolini.
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