Il Giano bifronte della cultura italiana
A ottant’anni dall’attentato mortale, la figura di Giovanni Gentile suscita ancora nell’opinione pubblica italiana reazioni polarizzate
Il 15 aprile del 1944 un gruppo di partigiani uccise di fronte alla sua residenza fiorentina il filosofo Giovanni Gentile, intellettuale di punta del regime mussoliniano, del cui governo era stato ministro e per il quale aveva scelto di prendere attivamente le parti dopo la nascita della Repubblica sociale.
In occasione dell’ottantesimo anniversario della morte, Poste italiane ha celebrato il personaggio con l’emissione di un francobollo commemorativo, presentato in termini che sono apparsi glissare sulla sua appartenenza politica, soffermandosi soprattutto sulla sua rilevanza nell’«idealismo italiano». Alla presentazione di questa emissione – che fa seguito a un’altra edizione filatelica commemorativa presentata trent’anni fa, nel 1994, quando era in carica il primo governo repubblicano in cui sedevano eredi della tradizione neofascista – alcuni esponenti dell’attuale Esecutivo, come il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, hanno rivendicato la figura del grande intellettuale come parte di «una memoria collettiva» da «ricomporre», secondo il lessico consueto del revisionismo storico politicizzato della nostra destra, per cui la «memoria condivisa» implica un posto d’onore al punto di vista dei «vinti».
Non si sono fatte attendere nei commenti social reazioni uguali seppur contrarie nel segno. Reazioni tese a ricordare come Gentile fosse stato vittima di un’esecuzione partigiana per il sostegno convinto fino all’ultimo a una guerra criminale, e più in generale per il suo ruolo di «ideologo» del fascismo e della sua vocazione totalitaria, oltreché di estensore di quella che Mussolini stesso aveva definito «la più fascista delle riforme», ovvero quella scolastica, sovente indicata come causa principale della vera o presunta inadeguatezza dell’istruzione italiana al mondo attuale.
La sfida della complessità
Queste semplificazioni contrapposte non restituiscono una vicenda umana il cui spessore appare evidente già non appena ci si avvicina alla ricostruzione del suo assassinio, come hanno fatto tra gli altri Luciano Canfora, analizzando i percorsi testuali della catena di comando che nel Partito comunista clandestino portò all’esecuzione della «sentenza» di morte, e più recentemente Luciano Mecacci – non a caso psicologo di formazione –, offrendo uno sguardo al più ampio contesto attorno all’«uccisione del padre» della cultura italiana del Novecento. Perché il punto, a ben guardare, è proprio questo: tra le ragioni principali della decisione quantomeno dei vertici clandestini del Pci di procedere all’eliminazione di Gentile figurava l’influenza che il filosofo poteva esercitare, col suo carisma e coi rapporti di collaborazione che aveva intessuto con tanti colleghi, su studenti e studiosi che ormai avevano maturato un distacco dal fascismo agonizzante, e che senza quel cordone ombelicale che ancora li frenava sarebbero stati pronti a impegnarsi nella resistenza organizzata e a prendere il loro posto di classe dirigente nella nuova Italia antifascista.
Fin dal discorso del Campidoglio del 24 giugno 1943, e soprattutto con la pubblicazione sul Corriere della Sera dell’editoriale intitolato Ricostruire il 28 dicembre dello stesso anno, il filosofo di Castelvetrano aveva dato espressione a una proposta di «concordia degli animi» che, sotto le insegne del fascismo e poi del fascismo repubblichino, avrebbe condotto l’intera nazione a concludere la guerra – anche nella prospettiva ormai pressoché ineluttabile della sconfitta – mantenendo salvi i valori di attaccamento alla patria e di collaborazione per i suoi supremi interessi su cui si sarebbe poi potuta far ripartire la vita del paese. Si trattava insomma di un invito ai potenziali antifascisti a garantire quantomeno la quiete, se non l’aperta adesione alle nuove istituzioni e al nuovo esercito «repubblichino».
L’invito era ormai irricevibile per gli allievi e collaboratori del filosofo di Castelvetrano che avevano già da tempo compiuto la scelta dell’impegno nella lotta contro il regime, come Ernesto Codignola, il cui figlio Tristano combatteva in prima persona la resistenza armata, o Guido Calogero, ideologo di spicco del neocostituito Partito d’Azione. Eppure proprio da loro, allora molto attivi nell’area fiorentina, giunsero a missione compiuta dure critiche alla dirigenza resistenziale comunista, accusata di avere messo in opera l’attentato senza alcun confronto con i compagni di battaglia per la certezza di ricevere da parte di essi un rifiuto. Ed era in fondo vero che per i gentiliani approdati all’antifascismo l’abbandono degli orientamenti del maestro non significava un abbandono del suo insegnamento, ma anzi forse una sua migliore realizzazione.
Gentile, il fascismo e l’antifascismo
Per comprendere questo intreccio di contrapposizioni al cospetto dell’uomo-simbolo della cultura italiana dei precedenti quattro decenni bisogna andare più a fondo nelle ragioni e nelle modalità dell’adesione gentiliana al fascismo. Gentile fu infatti un fascista convinto da prima della marcia su Roma fino alla morte, avvenuta quasi nove mesi dopo la destituzione di Mussolini del 25 luglio 1943. Egli ne fu anzi il teorico più profondo, in particolare come autore delle parti più ispirate della sezione dottrinaria della voce Fascismo pubblicata nel 1932 a firma di Mussolini sull’Enciclopedia italiana.
Bisogna però evitare eccessi di intellettualizzazione quando si interpreta il fascismo, che fu essenzialmente un dispositivo di gestione e spartizione del potere. L’elaborazione dottrinaria gentiliana non era originaria né del movimento né del regime e non era universalmente condivisa. Essa rappresentava, piuttosto, l’idea di politica nazionale che Gentile vedeva e cercava nel fascismo. Il «tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato», col quale il filosofo siciliano esprimeva la natura totalitaria del regime appropriandosi di un termine nato inizialmente negli ambienti critici con intenti polemici, tracciava in realtà il percorso che egli dal fascismo si aspettava: quello di una parte che, vinta definitivamente la lotta per la propria affermazione alla guida della comunità nazionale, si prendeva la responsabilità di abbandonare idee e interessi di fazione per farsi espressione dell’intera comunità nazionale sussunta e guidata dallo Stato, inteso come sintesi ideale di tutte le volontà individuali dei cittadini in un’unica direzione.
Il fascismo, insomma, era per Gentile lo strumento di realizzazione della sintesi spirituale degli individui nello Stato-nazione tipica dell’idealismo politico, e il suo destino, sintetizzando al massimo, doveva essere quello di vincere per poi sparire, cessando di essere a sua volta elemento di divisione e facendosi tutt’uno con lo Stato e le sue istituzioni. In questa cornice teorica va letta tutta la politica culturale gentiliana, dalla direzione della Scuola Normale di Pisa rilanciata come centro di alti studi di rilievo internazionale alla messa a punto dell’Enciclopedia italiana Treccani. L’affidamento dei due principali insegnamenti interni della Scuola pisana al filologo Giorgio Pasquali e al matematico Leonida Tonelli, firmatari del crociano Manifesto degli intellettuali antifascisti; il coinvolgimento per le voci dell’Enciclopedia di personale intellettuale ostile al regime e spesso apertamente emarginato, al punto che qualcuno contribuì in forma anonima; in generale la salvaguardia, finché ebbe l’influenza per garantirla, di un certo grado di libertà nel dibattito universitario di fronte alle ingerenze da parte dell’establishment di regime: tutti questi aspetti erano in evidente contraddizione col fatto che Gentile fosse l’estensore delle norme che riportavano le istituzioni accademiche sotto il diretto controllo dell’amministrazione ministeriale abolendo l’elettività degli organi e uno dei maggiori promotori del giuramento di fedeltà al governo nel 1931. Eppure, agli occhi di Gentile queste e altre contraddizioni si sussumevano, in sintesi dialettica, proprio nell’idea che rappresentassero il suo contributo all’incontro di tutte le contrastanti articolazioni dello spirito nazionale nell’unità dello Stato attraverso un fascismo che, svolto il suo compito di superamento delle lacerazioni del paese, si esaurisse in mero spirito di servizio.
L’incapacità di risolvere queste contraddizioni toccò il suo apice di fronte alle leggi razziali del 1938, che Gentile non condivise eppure non contestò mai pubblicamente, limitandosi a impegnarsi per la «discriminazione» di alcuni casi individuali, come un paio di studenti normalisti – destinati comunque a perdere il posto – e dell’allora lettore di tedesco Paul Oskar Kristeller, aiutato con pesanti raccomandazioni a riparare negli Stati uniti, e alla commemorazione nonostante i divieti di grandi intellettuali di origine ebraica, come Alessandro D’Ancona. E questa incapacità sancì la sua condanna prima alla morte violenta e poi a una quarantennale rimozione dal dibattito culturale.
Da un lato le varie anime del fascismo squadrista, «mistico», aristocratico e clericale, così ben rappresentate nell’universo dei gerarchi anche quando Mussolini cercava di isolarle per ragioni di opportunità, si opposero attivamente a quest’idea di appartenenza «non militante» al servizio dello Stato più che del regime e dei suoi apparati. E forse il culmine di questa ostilità covata nei settori della dittatura destinati a ritrovarsi al vertice del potere proprio nei mesi della Repubblica sociale si può ravvisare nella mancanza di protezione che nell’aprile del 1944 rese così semplice l’azione della pattuglia di partigiani fiorentini. Dall’altro, man mano che il regime fascista rivelava il suo volto di pura repressione sancendo il fallimento dell’idealismo politico gentiliano, allievi e collaboratori recuperarono i capisaldi della filosofia del maestro riaffermando il valore intrinsecamente creativo della conoscenza, e trovando in essa quella libertà spirituale insieme individuale e comunitaria che Gentile ravvisava nella partecipazione dell’individuo allo Stato. Per tanti di loro, da Codignola a Calogero e Capitini fino, forse, all’ultimo Ugo Spirito, salvare le idee mutuate da Gentile significò prendere le distanze dalla persona, approdando alla democrazia sociale di un altro studioso di originaria matrice idealista come John Dewey, e quindi all’opposizione attiva a un fascismo sul quale ormai era impossibile coltivare illusioni.
L’eredità gentiliana nella scuola italiana
Lo stesso insieme di nodi irrisolti si ravvisa nella realizzazione politica più significativa di Gentile, la riforma scolastica che egli portò a termine mentre, tra la fine del 1922 e le dimissioni – maturate nel giugno 1924, dopo il rapimento di Matteotti, essenzialmente nel tentativo di separare le sorti della sua politica educativa da quelle del governo –, era ministro della Pubblica istruzione nel governo Mussolini. Su di essa si sono accumulati luoghi comuni sui quali è bene fare chiarezza.
Prima di tutto, fu davvero «la più fascista delle riforme», così radicata nella politica di regime da rappresentarne dopo il 1945 un elemento di sopravvivenza inadeguato alla cittadinanza democratica? La definizione venne espressa da Mussolini stesso il 6 dicembre 1923, in una comunicazione ai prefetti su come fronteggiare le proteste degli studenti contro gli aumenti delle tasse universitarie e il nuovo esame di Stato. Essa aveva un valore tutto politico: la legislazione gentiliana era «fascista» perché era la prima riforma organica portata a termine dal nuovo governo, che grazie ai pieni poteri risolveva con decisione problemi su cui la classe dirigente liberale aveva discusso per decenni senza giungere a risultati apprezzabili, e le istituzioni non potevano recedere nei confronti del biglietto da visita di un nuovo stile operativo e decisionale.
È vero, poi, che la riforma Gentile apparecchiava una strumentazione perfetta per la gestione autoritaria di scuola e università, recuperando dalla legge Casati del 1859 il ruolo fondamentale del Ministero e delle sue articolazioni locali nelle nomine della dirigenza scolastica e degli organismi di governo e di rappresentanza professorale degli atenei. Accanto a questo verticismo amministrativo, però, in un equilibrio precario che probabilmente sarebbe esploso anche se Gentile fosse rimasto ai vertici del governo della scuola più a lungo come era nei suoi piani, la normativa prevedeva l’introduzione a tutti i livelli di pratica educativa dell’assoluta libertà d’insegnamento e di organizzazione degli studi, attribuendo al personale docente una centralità nell’esperienza scolastica che garantì un’importante e duratura base di consenso per l’autore della riforma tra il personale impegnato nella gestione del lavoro didattico, e costituì un elemento di incompatibilità della scuola gentiliana con la svolta autoritaria palesatasi a fine anni Venti.
Da allora i successori di Gentile al Ministero iniziarono a erodere pesantemente gli spazi di libera iniziativa dei docenti di ogni ordine e grado, e a trasformare in strumenti di controllo della disciplina e della condotta politica i rigorosi dispositivi di selezione culturale e professionale che avevano consentito, in pochi anni, di mettere insieme un corpo docente caratterizzato da un livello di preparazione con pochi eguali in Europa. Non è un caso che proprio l’idea di recuperare gli aspetti «liberali» della riforma gentiliana sia poi diventata, in sede di elaborazione costituente, una proposta-guida per la defascistizzazione della scuola destinata a trovare vasto consenso trasversale, anche ad esempio nel comunista Concetto Marchesi.
Un altro punto su cui occorre chiarezza è dato dalle accuse a Gentile di avere sviluppato le offerte curricolari in una valorizzazione pressoché esclusiva delle discipline umanistiche, causando un generale ritardo italiano nella cultura scientifica. Tralasciando polemiche strumentali che si fondano su assunti facili da smentire dati alla mano – come l’insufficiente quota di diplomati e laureati in percorsi di carattere scientifico e tecnologico o un’alfabetizzazione scientifica al di sotto del livello di guardia a fronte di una diffusione della cultura letteraria, storica e filosofica –, e riportando il discorso alla storia, è vero che la riforma del 1923 ripropose il ruolo della formazione classica come porta d’ingresso privilegiata al sapere accademico. Ma in questo Gentile non esprimeva un suo personale rifiuto per la scienza, che oggi sappiamo essere inesistente alla luce delle sue relazioni con la migliore tradizione matematica italiana e del rapporto col figlio Giovannino, uno dei più promettenti fisici del paese fino alla morte prematura nel 1942.
Il filosofo, piuttosto, riprendeva l’originario assetto culturale casatiano, erede di una secolare tradizione in cui l’istruzione classica era funzionale a costruire la comune identità della classe dirigente, in un tentativo di ritorno al passato tipico di tutte le borghesie al potere nei paesi europei dopo gli sconvolgimenti sociali della Grande guerra; si può anzi notare che fatto salvo il primato delle discipline «pure» nella tradizionale gerarchia dello scibile, a Gentile vada ascritto un tentativo di aumentare e strutturare le opzioni dell’istruzione tecnica, per farne una soluzione professionalizzante adeguata a ridurre al minimo l’iscrizione ai difficili percorsi liceali.
Per quanto riguarda eventuali modelli alternativi, sperimentazioni come quelle che all’inizio del Ventesimo secolo negli Stati uniti stavano conducendo al comprehensive schooling e in generale a proposte curricolari per un insegnamento di natura più pratica e applicativa, legati a un’idea di società profondamente diversa da quella del vecchio mondo, non avevano ancora alcuna influenza da questa parte dell’Atlantico. Esse si sarebbero conosciute in Italia nel secondo dopoguerra proprio grazie ai circoli di riforma scolastica ispirati dagli allievi di Gentile passati alla democrazia, e il fatto che nel corso dei decenni non si sia proceduto col loro pieno consolidamento nel nostro sistema sembra dovuto allo scarso coraggio della politica e dell’amministrazione a procedere da adeguate riforme e investimenti nella formazione docente, piuttosto che a un ossequio alla «purezza» disciplinare dell’insegnamento immaginata da Gentile per la sua scuola.
Il vero elemento nevralgico della riforma Gentile su cui la nostra sensibilità dovrebbe concentrare le critiche, e su cui si sono concentrati gli strali polemici di autori come Gramsci, è un altro. La selettività della scuola gentiliana si inquadrava in una società profondamente diseguale per perpetuarne e legittimarne le differenze di classe, poiché a ogni gradino della scala sociale era riservato un percorso scolastico che ne definiva l’identità nel bagaglio culturale e nei riferimenti condivisi. È su questo piano, prima ancora che sul piano della proposta dei contenuti curricolari, che Gentile sceglie di distaccarsi dai pur confusi tentativi progressivi della tradizione positivista e della politica scolastica giolittiana, tesi a diffondere una cultura di base più strutturata e ad aprire gli ordini scolastici superiori a provenienze sociali meno privilegiate senza che fossero necessarie capacità eccezionali per superare barriere destinate soprattutto a difendere la trasmissione ereditaria del «capitale culturale». Se, nonostante i cambiamenti intervenuti nella scuola italiana nell’ultimo sessantennio, si vuole imputare alla riforma Gentile la radice di qualche problema attuale, si dovrebbe guardare a questo aspetto di conservazione sociale che le riforme parziali della Repubblica non hanno ancora eliminato. Il fatto che però la critica preferisca rimanere in superficie, lamentandosi della scelta dei contenuti disciplinari che di questa struttura di base è conseguenza, è indicativo: un serio lavoro di decostruzione dell’eredità gentiliana sulla scuola comporterebbe la messa in discussione di concetti come quelli di selezione e «meritocrazia», che oggi si tende a rivendicare da parte sia della politica che della pubblicistica à la page.
Con tutte le sue sfaccettature la vicenda di Giovanni Gentile è un esempio di come i protagonisti dei nodi più complessi e profondi della storia non siano addomesticabili a esercizi di celebrazione – né attraverso statue, né con più semplici francobolli – o di condanna. Tanto più in un periodo di crisi dei paradigmi di lettura della realtà che ci circonda come quello che stiamo vivendo, non serve né tramandare un’intoccabile «storia sacra», né subire l’imposizione di esercizi di memoria che per loro natura non potranno mai farsi condivisi. Serve la storia, intesa come ricerca, approfondimento, ricostruzione, confronto coi contesti e con la complessità del reale.
*Andrea Mariuzzo insegna Storia dell’educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove è professore associato. Si occupa principalmente di storia italiana e comparata dell’istruzione superiore e dell’università, del reclutamento e dell’identità professionale dei docenti, e di storia della politica e delle riforme scolastiche nell’età contemporanea.
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