Il 25 novembre e il fortino di Meloni
La destra è spiazzata dall’ondata di indignazione, rabbia e determinazione della manifestazione contro la violenza sulle donne. Il che dimostra ancora una volta l'egemonia debole del governo sul paese
«Io non so come si pensi di combattere la violenza contro le donne – scrive Giorgia Meloni su Twitter – rendendosi protagonisti di intollerabili atti di violenza e intimidazione come quelli avvenuti sabato a danno dell’associazione Pro Vita e Famiglia».
La presidente del Consiglio sceglie di rispondere alla «marea fucsia» di sabato 25 novembre asserragliandosi nel fortino consunto del vittimismo. L’intera destra italiana risulta ampiamente spiazzata dall’ondata di indignazione, rabbia e determinazione a raggiungere risultati concreti nel contrasto alla violenza sulle donne, espresse dalla forza della manifestazione che a Roma ha toccato un picco di partecipazione mai visto prima.
«Una sede devastata è inaccettabile sempre. Particolarmente se la si devasta nel nome delle donne violentate, picchiate o uccise», continua Meloni e con lei la grancassa di deputati e deputate del suo partito, della sua maggioranza, giornalisti degli pseudo-giornali che a lei guardano con adorazione. Non è importante, in questa narrazione, che la sede in questione sia stata semplicemente ricoperta di scritte e che gli unici ad averne pagato il prezzo siano alcuni studenti malmenati dalla polizia. Non è la ricostruzione dei fatti, qui, a occupare un ruolo preminente. Anzi, i fatti devono essere utilizzati per sostenere una tesi, gestire il proprio racconto, offrire una via d’uscita a una componente politica che dalla manifestazione di sabato 25 novembre esce male perché la destra italiana in tema di diritti e ribellione delle donne è in larga parte sulla difensiva, incapace di esercitare alcuna egemonia come del resto le capita su diversi altri temi.
Su Jacobin Italia ne aveva già scritto, subito dopo l’insediamento del governo Meloni e in relazione al suo primo, simbolico, provvedimento sui rave party (a proposito, che fine ha fatto?), Giuliano Santoro: «Questa storia rivela il carattere reazionario di una destra che rivendica la concretezza del realismo rappresentandosi con i piedi ben piantati nel mezzo delle sfide contemporanee, ma nei fatti è arroccata su posizioni anti-moderne, oscurantiste e profondamente ideologiche. In poche parole: emerge ancora una volta la debolezza e al tempo stesso l’aggressività del potere». Le stesse parole possono essere utilizzate oggi: per contrastare una protesta diffusa e capillare che, evidentemente, è percepita come avversa, si sceglie il diversivo, quando questo è possibile, ma soprattutto l’arroccamento.
Per tutti i giorni precedenti alla manifestazione del 25 novembre la destra ha pigiato come una forsennata il tasto della difesa del patriarcato, ha tentato di criminalizzare le parole, scomode, della sorella di Giulia Cecchettin, Elena, provando a dipingerla addirittura come una neo-satanista, ha cercato di spostare il piano del discorso, cercando di togliersi dall’angolo di chi per tutta la vita si è immolata alla triade che del patriarcato è pietra angolare, Dio, Stato e Famiglia. La fondatezza di quest’ultima è sempre stata derivata non tanto dalle relazioni sentimentali e affettive orizzontali, e quindi non incardinabili in generi predefiniti, ma in una benedizione verticale che discende dal Dio supremo, passa per il ruolo intangibile dello Stato e illumina di sé anche la Famiglia, regno della possibile felicità terrena. Peccato, però, che la famiglia sia il luogo in cui è incubata la maggior parte dei casi di violenza contro le donne (secondo i dati del ministero dell’Interno al 20 novembre 2023, delle 106 donne vittime di omicidi volontari, 87 sono state uccise in ambito familiare/affettivo di cui 55 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner) e lo Stato viene percepito sempre più se non complice di questa situazione certamente spettatore silenzioso.
Un argomento-cliché dell’atteggiamento assunto dalla destra è ben riassunto dal testo pubblicato dal Giornale a firma Francesco Giubilei, pollo d’allevamento dell’intellettuale di destra a venire: «In principio era l’antifascismo, poi la scuola del merito, nelle ultime settimane la Palestina, infine il tragico omicidio di Giulia Cecchettin, ogni occasione è buona per i collettivi studenteschi per puntare il dito contro il governo. Non bastano le accuse agli uomini, al patriarcato, alla ‘mascolinità tossica’, alla ‘cultura machista’ da parte del mondo politico e culturale progressista, all’appello non potevano mancare i collettivi per strumentalizzare l’uccisione di Giulia. Neanche il tempo di archiviare le proteste contro Israele e le occupazioni delle università pro Palestina, che a finire sul banco degli imputati sono gli uomini e la destra».
Ancora una volta prevale l’atteggiamento narcisistico-vittimista preferito dalla cultura «underdog» che cerca di farsi strada a colpi di piagnisteo, senza avere altri argomenti da gettare nella mischia se non quello della propria esclusione e marginalizzazione storico-culturale.
Il problema è che la destra si autoesclude dal corso profondo che agita la società italiana e occidentale. Non siamo in grado di stabilire con certezza la forza egemonica della piazza del 25 novembre, ma sul piano simbolico questa egemonia inizia a percepirsi chiaramente e la «grammatica della piazza», come l’ha definita Valeria Parrella sul manifesto, è esattamente questa forza di raccontarsi «il contrario di quella che si vede sui social», la stessa che «hanno cercato di smontare, di depauperizzare». In quella «grammatica» ci sono gli ingredienti che la destra al governo non può vedere: voglia di non essere umiliate, uccise, ferite, violate, voglia di smetterla anche con questa lotta rivendicativa che dura da secoli e di essere finalmente soggetti a tutto tondo, senza più il bisogno di dover chiedere il permesso per esserlo.
In questa lotta invisibile – non è stata Giorgia Meloni un obiettivo esplicito della piazza – la destra esce malconcia, egemonicamente soccombente. La presidente del Consiglio ha pensato di celebrare la giornata con una scritta a illuminare palazzo Chigi e un post di esaltazione istituzionale sui social media: «Siamo libere, e nessuno può toglierci quella libertà, nessuno può pensare che siamo nel loro possesso. Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, voglio dire alle donne italiane che non sono sole, e che quando hanno paura 1522 è il numero da chiamare, in qualsiasi momento, per avere aiuto immediato. Perché le leggi ci sono, le Istituzioni ci sono, compatte, per prevenire e combattere l’abominio della violenza contro le donne, dello stalking, del femminicidio».
Cercando di impossessarsi di una conquista non sua – «siamo libere e nessuno può toglierci questa libertà» – ma figlia delle generazioni passate, del femminismo tanto vituperato e molestato, l’offerta alle donne da parte della prima donna a capo del governo si limita a un numero verde e all’invito a rivolgersi allo Stato (di nuovo) che quotidianamente quella violenza rimuove e calpesta (le chiamate inevase da parte di donne molestate, la violenza minuta sui posti di lavoro, il linguaggio offensivo dei media, in una lista che potrebbe continuare a lungo). Tutto qui?, verrebbe da chiedere. E la risposta non potrebbe che essere esattamente quella: tutto qui.
La libertà delle donne spaventa gli uomini e in particolare le destre che vedono in quella spinta la rimessa in discussione di equilibri secolari. Giorgia Meloni si fa interprete di questo istinto anche perché, riprendendo le parole di Giuliano Santoro «dietro il paravento della donna poco più che quarantenne si nascondono le facce consunte delle fasi politiche precedenti». Oggi, rispetto a un anno fa, possiamo aggiungere anche altro. Dietro quel volto sempre sorridente e proiettato verso l’orizzonte che campeggia su ogni singolo messaggio social, Giorgia Meloni nasconde, assumendola su di sé, giovane donna di potere, la rabbia malcelata, lo sbuffare feroce e irrequieto di una cultura, maschile, che oggi si sente minacciata e bandita. Ne dà una rappresentazione plastica l’editoriale di domenica 26 novembre del direttore di Libero, Mario Sechi, che fino a poche settimane fa di Meloni è stato il portavoce e il cui titolo è già osceno: Quel burqa calato sulle loro coscienze. Ma è il merito a contare di più: «La nostra battaglia culturale è impari, forse perdente – scrive Sechi – perché non può essere compresa senza avere la cognizione del dolore. Nessuno di noi ha visto la guerra, la tradizione orale del tramandare si è interrotta con la scomparsa degli uomini e delle donne che hanno ricostruito l’Italia, è l’eco dei racconti di mia nonna, grazie a lei ho sentito e vi
sto il tuono delle bombe, la paura e l’estrema povertà del dopoguerra. Si chiama memoria, sta svanendo». Voi, che non avete visto la guerra, non sapete stare al mondo, è il monito dell’ex portavoce di Giorgia Meloni, in una nenia tradizionalista che è sempre la stessa. Poi c’è la definizione di un mondo che sembra circondare d’assedio questo avamposto tradizionalista e reazionario: «Ci sarebbe la scuola, ma guardate cosa alleva… i bambini escono dalle elementari (che miracolosamente reggono, eroiche maestre) per finire nel girone dei cazzari delle scuole superiori e dell’università dove ti insegnano a stare nel gregge». In un passaggio funambolico, poi, per mescolare tutto in un melting pop che deve nascondere la vera realtà di ogni singola cosa, si aggiunge che «è diventato normale sostenere la cancellazione di Israele, innalzare il ‘patriarcato’ a arma di distruzione di massa, calpestare la regola della maggioranza. Confusione, disordine, scemenze, è la nuova Babele», che in realtà viene srotolata come un rosario dall’estensore dell’articolo. Fino al «burqa sulla coscienza dell’Occidente» che la piazza femminista ha calato grazie al «silenzio sullo scempio che gli uomini di Gaza fanno della donna» come se fosse quella la cifra della manifestazione. E quindi in questo «videogame islamista» (sic) è finito anche il Partito democratico, dimostrazione dell’«accelerazione della crisi», de «la piazza pazza». L’immensa insorgenza femminile e femminista del 25 novembre ha la colpa di tacere sugli stupri di Hamas, e di usare la tragica vicenda di Giulia per «trarne vantaggio politico: contro il governo Meloni, contro Israele, con Gaza».
Un articolo demenziale, ma figlio di quel vittimismo unito ad arroganza che permea anche una destra che si nasconde dentro al centrosinistra. Basti leggere l’editoriale del Corriere della Sera a firma Paolo Mieli del 27 novembre in cui a una manifestazione quantificata in «un milione» di partecipanti si rimprovera fondamentalmente «il dettaglio della mancata menzione – da parte delle organizzatrici – del più clamoroso stupro di massa dei nostri tempi: quello consumato il 7 ottobre dai terroristi di Hamas». E poi via a discorrere di Israele, antisemitimismo e appoggio alla Russia di Putin. Come se le centinaia di migliaia di donne scese in piazza sabato 25 novembre avessero questo per la testa e la loro prima preoccupazione fosse di inviare un sostegno a Mosca!
Con simili sponde appare più chiaro anche il tentativo di creare qualche varco in quel fronte avverso, chiaro nel tentativo di invocare la solidarietà verso l’Associazione Pro Vita da parte di Pd, M5S e Cgil: «Spero stavolta arrivi – continua Meloni nel post che abbiamo richiamato all’inizio – da Elly Schlein, da Giuseppe Conte, da Maurizio Landini e dalla Cgil ai quali tutti manifestammo la nostra solidarietà in occasione del vergognoso assalto alla sede del sindacato». All’epoca, in realtà, la presidente del Consiglio fece molta fatica a riconoscere «la matrice» di quell’assalto, in una pratica di smemoratezza che ormai le è consona. Paragonare poi un assalto fascista in piena regola – per il quale in appello si è già arrivati a condanne fino a 6 anni – e la contestazione a una sede associativa serve a rinsaldare l’approccio vittimista cercando di seminare zizzania a sinistra (sapendo bene che nel centrosinistra non mancano coloro in grado di cadere volentieri nel tranello).
Nello scontro che si è aperto il 25 novembre il governo Meloni conferma quello che il voto del 22 settembre aveva già dimostrato nei numeri: non essere la maggioranza del paese elettore, semmai una minoranza ben organizzata. La sua forza continua a fondarsi sull’assenza di alternative valide e strutturate. La piazza del 25 novembre sembra aver conquistato, almeno momentaneamente, una sua egemonia contro la retorica autoriferita del governo e dei suoi sostenitori. E quella piazza rappresenta una parte significativa del paese, almeno di quella trainata dalle donne, che chiede di finirla con la violenza, la discriminazione, gli abusi e quindi il patriarcato. Questa domanda, presente da diversi anni, oggi si è manifestata in una forma acutissima, e la sua politicità consiste proprio nel richiedere un cambiamento di mentalità, ma anche sociale e persino giuridico-istituzionale. Pari almeno ai passaggi di epoca rappresentati dalle leggi sul Divorzio e sull’Aborto. In attesa di una conquista che rappresenti di nuovo un passaggio irreversibile.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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