La barricata operaia antifascista del 1922
Nell'agosto del 1922, alla vigilia della Marcia su Roma, i fascisti repressero uno sciopero generale. Ma a Parma la classe operaia impose alle Camicie nere una clamorosa sconfitta militare che ispirò poi la resistenza contro il fascismo
L’avvento del potere fascista in Italia – conclusosi con la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922 e l’incarico di capo del governo a Benito Mussolini – è stato spesso raccontato come inarrestabile. La violenza delle «camicie nere», tollerata, se non fiancheggiata, dalle autorità regie, avrebbe sbaragliato un movimento operaio guidato da dirigenti settari o inetti.
Tuttavia le ricostruzioni storiografiche ci rimandano a un quadro del dopoguerra italiano più complesso. Non solo perché lo stesso movimento fascista ebbe, tra il 1919 e il 1921, una sua profonda trasformazione in agguerrito difensore dell’ordine borghese, e per questo sostenuto da proprietari agrari e industriali, ma anche perché le lotte di operai e braccianti non sembravano spegnersi in molte zone della penisola.
Infatti, molte comunità, rurali e urbane, non si erano affatto piegate alle violenze fasciste e anzi qui il «sovversivismo operaio» – con le sue diverse componenti di socialisti, comunisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari – non cedeva il passo. Così se nell’estate 1922 gli uomini di Mussolini, a furia di intimidazioni, bastonature, incendi e spedizioni punitive, controllavano gran parte della Pianura padana e di altre regioni, i sindacati dei lavoratori, stretti nell’Alleanza del lavoro, furono ancora in grado di lanciare per il primo di agosto un vasto sciopero generale in tutta Italia.
La mobilitazione sindacale doveva essere una risposta di massa alle brutalità fasciste e chiedeva alle autorità di far rispettare i diritti dei lavoratori. Il tardivo appello all’azione, però, registrava lo stato di frammentazione del movimento operaio, non solo nei suoi vertici, divisi su come affrontare quella fase così cruenta della lotta di classe ma anche geograficamente, con alcune città pronte a rispondere con vigore e altre, al contrario, incapaci di attivarsi perché già fiaccate dalle aggressioni nere. Chi colse l’occasione per un’azione in grande stile fu invece il Partito fascista che scatenò le sue squadre armate.
Lo sciopero generale di agosto, quindi, si concluse in gran parte d’Italia in una completa disfatta. Furono devastate camere del lavoro, case del popolo, circoli operai, cooperative, giornali democratici, picchiati e uccisi dirigenti ed esponenti del mondo operaio, costrette alle dimissioni centinaia di amministrazioni locali guidate dalle sinistre. Il vecchio dirigente riformista, Filippo Turati, definì quelle giornate «la Caporetto del movimento operaio», richiamando alla memoria la sconfitta più cocente dell’Italia nella Grande guerra.
Eppure, anche in questo quadro del tutto favorevole alla reazione fascista e alla repressione messa in atto dalle autorità liberali, in alcuni centri i lavoratori furono pronti a resistere. Qui lo sciopero mutò in aperta rivolta e in scontro armato. I casi più eclatanti si verificarono ad Ancona, Bari, Civitavecchia, Genova, Livorno, in alcuni grandi quartieri popolari a Roma (tra cui quello di San Lorenzo), ma soprattutto a Parma, dove la resistenza dei rioni operai a un’imponente spedizione squadrista si concluse con una straordinaria vittoria.
Parma
Le giornate delle «barricate di Parma», divennero presto un caso, sul quale i dirigenti dell’antifascismo iniziarono le loro valutazioni politiche, poiché qui si sommarono una serie di circostanze favorevoli che non si ebbero in altri casi.
All’epoca la città emiliana contava circa 60 mila abitanti. Posizionata tra Milano e Bologna, lungo la via Emilia, era un centro di media grandezza ma di rilevanza negli spostamenti nel nord della Valle Padana. Ancorata al mondo agricolo, la sua struttura industriale era ancora esile e il mondo delle classi subalterne era piuttosto eterogeneo, composto dai «mille mestieri» di un proletariato urbano fatto di lavoratori a giornata, operai, facchini, ferrovieri, muratori, braccianti, piccoli e piccolissimi artigiani.
Un mondo eterogeneo che trovava la sua unità nelle comunità di quartiere, poiché la configurazione urbana della città segnava nettamente i confini tra la zona ricca e borghese del centro storico e quella miserevole di borghi, viuzze e abitazioni fatiscenti delle classi popolari. Due erano le zone operaie più popolose: il vasto rione Oltretorrente, distinto nettamente dalla «città dei signori» dal torrente Parma e dai ponti che lo attraversavano; e altri due più piccoli quartieri, ai confini del centro storico e a ridosso della linea ferroviaria e della nascente zona industriale, il Naviglio e il Saffi.
Il «popolo dei borghi», soprattutto quello dell’Oltretorrente, aveva già fatto parlare di sé dai primi anni dell’Unità d’Italia, quando furiose sommosse e scontri con i soldati del re avevano infuocato più volte le sue strade. All’inizio del Novecento, poi, qui trovarono fertile terreno i dirigenti del sindacalismo rivoluzionario che legittimarono l’azione diretta dei lavoratori e le rivolte di piazza, con barricate a difesa dei quartieri. Anche nel primo dopoguerra, quando il movimento operaio si frammentò sempre più nelle sue diverse componenti – sindacalisti, socialisti e comunisti – l’unitario spirito sovversivo del proletariato urbano non venne meno.
Nel biennio 1921-22, quando le aggressioni fasciste si moltiplicarono, questa volontà di lotta unitaria dei lavoratori fu interpretata politicamente da Guido Picelli, di modesta condizione sociale, combattente durante la Grande guerra, decorato al valor militare, dirigente di un’associazione di reduci vicina al Partito socialista e già animatore delle Guardie rosse, una milizia armata pronta a difendere scioperi e sedi sindacali.
Eletto deputato nel maggio 1921, Picelli entrò in contatto a Roma con il nascente movimento degli Arditi del popolo, una rete di operai di ogni orientamento politico che intendeva rispondere alle violenze fasciste con la stessa moneta, a mano armata. L’organizzazione fu presto boicottata dai socialisti, i cui vertici vollero firmare un «patto di pacificazione» con i fascisti, nella speranza di contenerne l’aggressività. Ma anche la segreteria comunista di Amadeo Bordiga, propensa a gruppi armati «di partito», considerò gli Arditi con sospetto accusandoli di subordinare i rivoluzionari a elementi «piccolo-borghesi» indisciplinati. Solo in alcune città, tra le quali Parma, ai militanti fu concesso di esservi inquadrati, a patto che i leader fossero «affidabili».
Gli Arditi del popolo di Parma erano circa 300 uomini, molti dei quali reduci, altri formatisi nei conflitti del dopoguerra, quasi tutti giovani, operai o braccianti. Si trattava insomma di un piccolo esercito proletario, fortemente radicato nei rioni popolari e deciso a difendersi dai fascisti ma anche dalle forze dell’ordine se li avessero aiutati. Rifiutando la politica di «pacificazione», per oltre un anno la milizia di Picelli rispose colpo su colpo alle squadre nere e così, alla vigilia dello sciopero del 1922, mentre i fascisti della città erano pochi e male organizzati, gli arditi del popolo controllavano i loro rioni e avevano messo a punto un piano di difesa per ogni evenienza.
A completare il quadro parmense si deve aggiungere che anche il potente sindacato rivoluzionario di Alceste De Ambris (forte ancora di circa 20 mila iscritti) non cedette ai corteggiamenti del Partito fascista, nel nome di una «comune» matrice interventista, e coerentemente scelse la lotta allo squadrismo mussoliniano, costituendo una propria rete di difesa antifascista con la Legione Filippo Corridoni.
Questa la situazione all’agosto, quando lo sciopero bloccò completamente la città e iniziarono ad arrivare colonne di «camicie nere» dalle campagne ma soprattutto dalle province vicine, come Cremona, Mantova, Piacenza, Reggio Emilia e Modena. Secondo le cronache del tempo giunsero tra i 7 e i 10 mila uomini. A comandarli fu inizialmente il deputato fascista Michele Terzaghi ma presto, visti gli insignificanti risultati, la direzione del Partito inviò Italo Balbo, uno dei capi più importanti dello squadrismo della Pianura padana.
Occupato il centro della città le «camicie nere» tentarono assalti ai rioni operai ma gli arditi del popolo dell’Oltretorrente e del Naviglio-Saffi risposero innalzando barricate, scavando trincee e organizzando punti di osservazione, ronde e collegamenti. Al loro fianco si unirono presto i militanti del sindacalismo rivoluzionario e anche molti del Partito popolare, una formazione d’ispirazione cattolica. A combattere sulle barricate si trovarono così socialisti, comunisti, anarchici, sindacalisti, repubblicani e popolari nel nome di un’unità antifascista costruita sulla stessa appartenenza di classe.
Gli ordini non erano più emanati dai dirigenti sindacali ma dal comando degli arditi del popolo, mentre lo sciopero mutò in aperta rivolta, in forme di autorganizzazione dal basso, svuotando sia le istanze tradizionali del movimento operaio (le segreterie di Camere del lavoro e partiti) che le autorità del potere regio. Se la resistenza armata era sotto il comando di Picelli e dei suoi arditi, la mobilitazione coinvolse spontaneamente tutta la popolazione, che aiutò a fortificare i borghi, ad allestire mense e infermerie, a portare direttive e munizioni da un punto all’altro della città. E così, mentre a livello nazionale lo sciopero cedette il passo alla violenza nera, a Parma la resistenza si fece di giorno in giorno più tenace.
Numerosi furono gli assalti al Naviglio e al Saffi, le zone più scoperte al nemico, e fitte scariche di moschetto rimbombarono per le strade e sui ponti dell’Oltretorrente. Sparatorie alternate a tregue mentre le autorità, civili e religiose, cercavano forme di pacificazione. Temendo che la situazione degenerasse in un bagno di sangue, fu in particolare il prefetto a intraprendere con decisione la linea di contenimento dei due fronti avversi. In alcuni casi qualche ufficiale simpatizzò per i fascisti lasciando loro spazio, ma in molti altri gli ordini prefettizi furono rispettati e l’aggressività squadrista limitata. Anche in questo la vicenda di Parma risultò anomala per il fascismo, abituato a incontrare il favore dei funzionari delle questure e dei graduati dell’esercito.
Non riuscendo a sfondare le barricate operaie, le «camicie nere» si scatenarono nelle zone del centro, distruggendo alcuni circoli dei ferrovieri, la sede del quotidiano democratico il Piccolo, gli uffici del sindacato cattolico e una decina di studi e case di avvocati e notabili. Si contavano intanto sei morti tra le vittime della spedizione nera e decine di feriti da entrambe le parti.
Tuttavia, il pomeriggio del 5 agosto, dopo un’ultima incursione respinta, i fascisti decisero la smobilitazione. In quelle ore da Roma arrivò la notizia che il governo nazionale aveva decretato lo stato d’assedio per alcune città, tra le quali Parma: a mezzanotte i poteri sarebbero passati dalle prefetture ai comandi dell’esercito. Per Balbo e i fascisti fu l’occasione insperata per rivendicare un successo inesistente. Il 6 agosto, quindi, gli ultimi fascisti lasciarono la città mentre nei rioni popolari esplosero grandi festeggiamenti.
L’eco di quella vittoria straordinaria superò presto i confini cittadini (ne parlò anche il New York Times) e divenne motivo di riflessione per l’intero movimento antifascista e poi, negli anni della dittatura di Mussolini, racconto epico da sussurrare in borghi e osterie. Nei primi anni Trenta, quando le cronache del tempo raccontarono delle due transvolate oceaniche di Balbo, a capo di missioni aeree dall’Italia all’America, iniziò a circolare tra i lavoratori la sagace battuta «Balbo, t’è pasè l’Atlàntich mo miga la Pärma» (Balbo hai passato l’oceano Atlantico ma non il torrente Parma). L’orgoglio della vittoria dell’agosto 1922 non solo non si era sopito ma avrebbe innervato di nuova forza prima il movimento clandestino antifascista e poi la lotta partigiana del 1943-45.
Picelli il comunista
Tra i racconti epici di quei giorni spiccavano quelli sulla sua guida effettiva, sul «comandante» delle barricate di Parma, Guido Picelli. Poco dopo gli eventi del 1922, egli aderì anche formalmente al Partito comunista, per il quale fu rieletto deputato nel 1924. Perseguitato dai fascisti parmensi, che non gli perdonavano lo smacco subito, si era ormai trasferito a Roma.
Nel 1926, quando il regime fascista cancellò i residui margini di libertà, venne arrestato assieme ad altri dirigenti comunisti, tra cui Antonio Gramsci. Condannato a cinque anni di confino di polizia, trascorsi prima nell’isola di Lampedusa e poi in quella di Lipari, aderì alle posizioni della nuova direzione comunista che si era affermata al congresso di Lione.
Con la fine della condanna, nel novembre del 1931, si trasferì a Milano e da qui, attraverso i contatti con l’organizzazione comunista, emigrò clandestinamente in Francia, dove tenne conferenze tra le consistenti comunità di lavoratori italiani.
Espulso dalla Francia, attraverso vari paesi europei, nel 1932 giunse a Mosca, dove trascorse poco più di quattro anni, quasi tutti lavorando come operaio nella grande fabbrica di cuscinetti a sfera intitolata a Lazar Kaganovic. Per circa un anno insegnò anche ai giovani comunisti italiani tattica militare e strategie di guerriglia presso la Scuola leninista internazionale. La sua grande aspirazione era però di poter accedere a una scuola militare sovietica ma, nonostante il sostegno del Partito comunista, le sue ripetute richieste non furono soddisfatte, probabilmente perché non conosceva la lingua russa.
Anche gli incarichi al Comintern, probabilmente nel settore dell’attività politico-militare, non divennero mai attività a tempo pieno. Continuò quindi a lavorare in fabbrica, dove peraltro il comitato del Partito lo accusò di un presunto comportamento «frazionista» che comportò un’indagine dalla quale uscì indenne, anche grazie al giudizio positivo del Pcd’I che anzi ne raccomandò l’iscrizione al Partito sovietico.
Provato da queste traversie, Picelli chiese di tornare a svolgere attività politica in Francia e poi, una volta scoppiata la guerra civile spagnola, di recarsi in quel Paese per combattere a difesa della Repubblica. Con il visto di Togliatti e grazie all’intercessione di Manuilski, rappresentante del Partito sovietico nel vertice del Comintern, poté quindi lasciare Mosca a metà ottobre del 1936.
Una volta a Parigi emersero divergenze con il centro estero del Partito comunista, che riteneva di non poter accogliere le sue proposte di azione militare senza l’avallo del governo spagnolo. Il suo carattere impulsivo e il desiderio di tornare subito a combattere lo spinsero ad avvicinarsi ai socialisti massimalisti e, tramite questi, al Poum (Partito Operaio Unificato Marxista), che gli offrì il ruolo di capitano nelle sue milizie.
A Barcellona, dopo una presenza di pochissimi giorni alla Caserma Lenin, controllata dai poumisti, venne contattato da alcuni militanti comunisti, che lo convinsero a recarsi ad Albacete e a riprendere il suo posto nelle Brigate internazionali e nel Partito comunista, facendo autocritica sulla «stupidaggine» compiuta. Nominato comandante di battaglione, addestrò diverse centinaia di volontari italiani. A metà dicembre 1936, per coprire i vuoti subiti dal Battaglione Garibaldi, a Picelli venne affidato il compito di guidare 300 volontari da impegnare nella XII Brigata internazionale. Il comandante del «Garibaldi», il repubblicano Randolfo Pacciardi, gli affidò la guida di una compagnia e lo nominò proprio vice.
Picelli partecipò ai combattimenti nella zona di Mirabueno dimostrando il suo coraggio e le sue capacità di comando. Il 5 gennaio 1937, alla testa di due compagnie, conquistò la cima della collina di El Matoral, da dove i combattenti italiani dovevano proteggere e sostenere ai fianchi il battaglione polacco che cercava di strappare ai franchisti la posizione strategica di San Sebastian.
Mentre guidava i suoi uomini, morì colpito da una postazione franchista. L’annuncio della sua morte venne affidato a Giuseppe Di Vittorio, il futuro segretario generale della Cgil. Commemorato dai partiti del fronte popolare a Madrid, il funerale si tenne a Barcellona, organizzato dal Psuc, partito che aveva unito comunisti e socialisti catalani. Vi assistette una grande folla che accompagnò il feretro.
Qualche anno dopo la sua morte, da ambienti anticomunisti, si iniziò a diffondere la tesi di una sua uccisione da parte dei servizi segreti sovietici o degli stessi comunisti italiani. Se ne fece portavoce in particolare Julian Gorkin, ex dirigente del Poum, espulso poi da questo partito e arruolato al Congresso per la libertà della cultura, la struttura finanziata e sostenuta dalla Cia, per sostenere la battaglia ideologica nella guerra fredda.
Nel 1953 fu Valentin Gonzales «el Campesino» a girare l’Italia a sostegno della campagna elettorale della Democrazia cristiana e a rilanciare con molto clamore la tesi di un Picelli «trotskista» eliminato dai comunisti nelle retrovie anziché caduto in combattimento. Nel corso dei decenni questa teoria è stata ripresa in diverse occasioni più per ragioni di polemica politica che per desiderio di conoscenza storica. Fino a oggi, infatti, nessuna testimonianza diretta o indiretta di volontari garibaldini presenti sulla collina di «El Matoral» il giorno della morte di Picelli o documenti presenti nell’archivio del Comintern e oggi accessibili ai ricercatori hanno portato elementi a sostegno della tesi del «complotto».
Tutte le informazioni di cui disponiamo ci dicono che Picelli morì come era vissuto: combattendo apertamente e coraggiosamente l’ascesa del fascismo.
*Franco Ferrari è redattore di Transform! Italia e autore di Indagine su Picelli. Fatti, documenti, testimonianze. William Gambetta è storico del Centro studi movimenti di Parma, autore di numerosi saggi sull’antifascismo italiano e curatore dell’antologia di Guido Picelli La mia divisa. Scritti e discorsi politici.
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