La destra nel caos trumpiano
Emily Jashinsky conduce Breaking Points. È una trumpiana atipica, in passato ha apprezzato le posizioni di Bernie Sanders. Qui spiega cosa potrà fare davvero il neo-presidente
Dopo la recente intervista con Ryan Grym, co-fondatore con Jeremy Scahill dell’organo di giornalismo investigativo indipendente progressista Drop Site News, incontriamo a Washington Emily Jashinsky che con Ryan Grim conduce dal 2021, prima su The Hill e poi sul network indipendente Breaking Points, un format giornalistico in cui una voce progressista e una conservatrice si confrontano su temi politici. Di idee conservatrici derivate dalla sua fede cristiano-evangelica, ma del tutto estranea al cristianesimo nazionalista del Make America Great Again che costituisce la base trumpiana, ammiratrice di Bernie Sanders e del suo entourage politico, Emily – che ha collaborato con testate come The Federalist, The Wall Street Journal, RealClearPolitics – è ora anche conduttrice del programma Undercurrents, nel quale intervista personalità del mondo politico e culturale, in onda sulla piattaforma Unherd, la cui missione è «sfidare la mentalità da gregge ovunque la si veda», senza affiliazioni di parte e con autori spesso in disaccordo tra di loro che contribuiscono ad «avvicinarsi un po’ di più alla verità», «senza timori o favoritismi».
Incontriamo Emily nel pieno della raffica delle nomine trumpiane, poco dopo quella di Robert F. Kennedy.
Questa mattina, prima che si sapesse della nomina di Rfk jr, hai pubblicato un articolo intitolato Il gabinetto di Donald Trump è un miracolo o un caos? Quali sono le tue conclusioni?
Credo che sarà più che altro un caos, e anche la nomina di Rfk jr a segretario della Sanità, che era più o meno scontata, ne aggiunge ancora di più. Personalmente in questo momento sono molto fiduciosa per la scelta di Tulsi Gabbard, una persona che non si lascia intimidire facilmente da chi detiene il potere, alla direzione della National Intelligence, posizione importante nel governo e in particolare nella politica estera perché sovrintende 18 organi governativi tra cui la Cia. È una cosa grossa per coloro che hanno sempre messo in discussione la politica estera dell’establishment, rappresentato da quella massa informe di Washington che definiamo Uniparty. Tulsi Gabbard, che è anche una veterana col grado di vice colonnello, è molto determinata e mi auguro che possa rappresentare la voce fuori dal coro decisiva nel momento in cui la politica estera di Trump o dei suoi nominati fosse allineata con quello che i lobbisti e le élite americane hanno preteso per decenni dalla nostra politica estera. Certo creerà dello scompiglio averla infilata in mezzo a personalità in competizione, dal conduttore di Fox News Pete Hegseth, segretario alla Difesa alquanto controverso, al senatore Marco Rubio, segretario di Stato molto establishment, a persone come Michael Waltz e John Ratcliffe, messi rispettivamente a capo del Pentagono e della Cia, che sono state pessime in materia di sorveglianza e che non vogliono eliminare la sezione 702, un enorme problema del Foreign Intelligence Surveillance Act e dell’ingerenza massiccia e molto preoccupante che il nostro governo ha usato come arma nella sorveglianza degli americani medi. Del resto che Gabbard sia un personaggio contrastato da più parti è dimostrato anche dalle feroci critiche piombate subito dopo la sua nomina da persone di tutto lo spettro politico, da Alexandria Ocasio Ortez ad Elizabeth Warren, che la accusa di essere un’alleata di Putin, al falco per eccellenza del primo governo Trump, John Bolton.
Tulsi Gabbard è sempre stata molto discussa fin da quando nel 2016 lasciò il Comitato Nazionale Democratico, dove aveva visto accadere cose poco chiare, per sostenere Bernie Sanders. Nel 2020, quando correva per le presidenziali democratiche, in cui peraltro diede il colpo di grazia definitivo a Kamala Harris, fu boicottata dall’establishment del Comitato Democratico Nazionale ma anche osteggiata da diverse voci della sinistra. Poi il suo percorso verso Trump ha fatto il resto. Chi oggi ne apprezza la candidatura è Glenn Greenwald, pur avendone criticato le posizioni in diversi casi. Che cosa dici dello scetticismo e persino del disprezzo che la circonda da più parti?
Parecchie persone di sinistra, e intendo la sinistra vera, quella di Sanders, non hanno tutti i torti nell’essere scettici sull’evoluzione di Gabbard da vicepresidente del Comitato Nazionale Democratico a protagonista attiva della campagna di Donald Trump, e credo non ci sia nulla di male nel chiedersi se questo passaggio sia stato sincero o un piano cinico per ritornare in qualche modo nell’establishment e acquisire sempre più potere. Capisco queste preoccupazioni e lo stesso fatto che io, da conservatrice, sia diventata una fan di Tulsi potrebbe far dire a diversi miei amici di sinistra che questo è uno dei motivi per non fidarsi di lei, oltre al fatto che nella sua storia ha avuto posizioni contraddittorie e/o ha cambiato idea rispetto ad alcune istanze. Per esempio su Israele ora è molto più in linea con la destra rispetto a prima. Però Tulsi è una che parla molto, fa podcast, ha rilasciato tonnellate di interviste e credo che ascoltandola si possa percepire il senso dell’autenticità o meno di questa conversione e dei principi ai quali è rimasta fedele. D’altra parte quando parlo con persone del circuito trumpiano trovo molte perplessità su Tulsi Gabbard perché ha mantenuto alcune posizioni della sinistra di Bernie Sanders.
Per esempio quali?
Quelle sulla rete di protezione sociale e sui programmi di previdenza sociale. Non è una conservatrice fiscale, come sono invece molte delle persone di cui si circonda Trump che vogliono tagliare la Social Security e il Medicare, e inoltre continua a essere molto critica dell’avventurismo americano in politica estera. È sempre stata una sostenitrice di Julian Assange ed è diventata molto critica su temi come sorveglianza e censura, su cui i Democratici si sono spinti troppo in là, anche perché lei stessa si è trovata inserita nella lista delle persone da censurare e sorvegliare, cosa che le ha fatto aprire gli occhi. Al momento non ho motivi per dubitare di lei sul fatto che continuerà a combattere per quei principi.
Come sarà la convivenza con Marco Rubio che per molti versi rappresenta il suo opposto?
Marco Rubio è un falco della tipologia più estrema riguardo a qualunque politica interventista americana a cominciare da Israele e Iran. Ha solo leggermente cominciato a porsi qualche domanda sull’Ucraina sostenendo che lo stallo attuale richiede che si arrivi a una soluzione. Per il resto le sue posizioni sono molto aggressive non solo su Israele e Iran, ma sulla Cina, sulla dinamica tra Taiwan e il governo di Pechino, sull’interventismo in America latina, dove supporta anche colpi di stato, e nel mantenere le sanzioni su Cuba. E poiché Tulsi, a parte il suo spostamento su Israele, non condivide le posizioni di Rubio, ci sarà una bella battaglia nell’amministrazione Trump sulla politica estera.
Ma dove si colloca Trump in questa scacchiera così bizzarra che lui stesso sta creando?
Anch’io mi pongo la stessa domanda e perlopiù mi rispondo che a Trump importa solo fare degli accordi. Se non li fa lui direttamente significa che la politica estera la fanno le persone che lui ha nominato, sulle quali può scaricare le responsabilità. Per esempio supponiamo che ci sia un colpo di stato in America Latina appoggiato da Marco Rubio, senza però la sovrintendenza di Trump e indipendentemente dal fatto che Trump lo voglia o no. In quel caso la politica estera assumerà le sembianze di Marco Rubio. D’altra parte Trump sa anche che se riuscisse per esempio a far discutere Putin e Zelensky, ad avere discussioni costruttive con Xi Jinping, e perfino in Israele dove ha criticato Netanyahu per «le sue disastrose relazioni pubbliche», i risultati potrebbero essere interessanti o potrebbe persino verificarsi il miracolo. Comunque mentre nel suo primo mandato la sua politica estera è coincisa con quella dei due falchi John Bolton e Mike Pompeo, questa volta ha voluto fare una cosa diversa, nominando sì Marco Rubio che è più o meno come Mike Pompeo, ma nominando anche Tulsi Gabbard. La cosa certa è che tutte le nomine fatte finora corrispondono a persone della cui fedeltà Trump si sente sicuro. Staremo a vedere.
Passando a Elon Musk, quanto durerà ancora questa specie di bromance, fratellanza d’amorosi sensi tra due persone dall’ego smisurato come il loro? Non c’è il rischio che la presenza di Musk diventi talmente invadente da divenire insopportabile per Trump?
È qualcosa che potrebbe capitare anche molto presto. Reti come la Nbc hanno già riportato fughe di notizie secondo cui la cerchia ristretta di Trump sarebbe esasperata dal continuo intromettersi di Musk in decisioni politiche importanti. E sappiamo bene quanto Trump sia infastidito da chiunque venga percepito come un usurpatore del suo potere, della sua gloria, del suo controllo. Quindi Musk corre quel rischio tuttavia, essendo intelligente, credo stia molto attento nel calcolare quello che può permettersi di fare. Penso che il suo obiettivo finale sia diventare il re dell’universo, cosa che potrebbe aprire qualche positiva trasformazione in materia di censura e sorveglianza, visto che lui non ne vuole per sé. D’altra parte agisce da oligarca, facendo da supervisore nel processo di transizione a Mar-A-Lago e soprattutto allestendo questa agenzia, il Department of Government Efficiency, che collaborerà con la Casa Bianca per controllare l’efficienza del governo e i suoi sperperi. È davvero una situazione caricaturale da oligarca della Gilded Age che ora lui si trovi potenzialmente a controllare il modo in cui il governo detterà le regole sia per lui che per i suoi competitori. Musk è uno dei massimi beneficiari del denaro proveniente dai contratti col governo, così sembra che diventerà esattamente tutto quello contro cui dice di battersi.
Quindi questo cosiddetto Doge, in riferimento a un meme di internet, che Trump ha affidato a lui e a Vivek Ramaswami non è un premio di consolazione?
No. Credo che sia incredibilmente importante per Elon Musk, ed è sostanzialmente il motivo per cui ha riversato tonnellate di denaro nella campagna di Trump. Sapeva che accaparrandosi le simpatie di Trump i suoi affari ne avrebbero avuto enormi vantaggi, ma anche che alla fine il mondo assomiglierà molto di più a come lui lo vuole, in modi che oltre a essere proficui economicamente corrispondono anche alla sua ideologia e alla sua idea di politica. Ecco perché è così importante non rischiare di alienarsi il favore di Trump. Finora è stato attento a far convergere tutta l’attenzione su Trump e quando parla in pubblico ne sottolinea la grandezza e lo loda in mille modi, perché sa quanto Trump adori essere considerato il genio, il maestro burattinaio che manovra tutto e tutti.
Un’altra nomina controversa è quella di Matt Gaetz che, tra le molte particolarità che lo caratterizzano, ha avuto una relazione con una diciassettenne ed è stato accusato di traffico sessuale, anche se due anni di indagini non hanno condotto a nulla. Che significato ha averlo messo a capo del Dipartimento di Giustizia, che sovrintende anche all’Fbi, e quanto persone come lui, Tulsi Gabbard o Rfk rischiano di non essere confermati?
La nomina di Matt Gaetz è quella più a rischio perché è il personaggio decisamente più controverso [in effetti il 21 novembre si è ritirato, Ndr]. Ma anche Tulsi, Rfk e Pete Hegseth potrebbero avere problemi per la conferma. Tuttavia Donald Trump vuole nominarli utilizzando la clausola costituzionale del recess appointment, che si applica quando il Senato non è in seduta. Oppure può metterli in una posizione tale per cui possano agire come direttori anche senza il bisogno di una conferma. Ci sono diversi modi in cui Trump potrà aggirare l’ostacolo, anche per Matt Gaetz. C’è una possibilità, molto remota, che Trump lo abbia scelto per usarlo come pedina di scambio per altre persone problematiche, tuttavia lo scenario più verosimile è che Trump vuole Gaetz totalmente libero di muoversi nel Dipartimento della Giustizia, perché non c’è organo governativo che Trump odi più di quello, visto che lo ha legittimamente perseguito e ha fatto di lui il suo bersaglio. Ora vuole restituire la partita e punire tutti quei burocrati carrieristi e avvocati dell’élite che lo hanno preso di mira da candidato e da presidente. Sostanzialmente vuole distruggere il Dipartimento di Giustizia e nessuno come Matt Gaez è così matto da agire come palla da demolizione e creatore di caos. E che il dipartimento di Giustizia si trovi nel caos a Trump va benissimo.
Veniamo alla nomina di Robert F. Kennedy jr., un altro outsider controverso che in quattro mesi ha compiuto il percorso – da democratico a indipendente a trumpiano – che Tulsi Gabbard ha fatto in quattro anni.
Anche Rfk è una persona eccentrica, però a Mar-A-Lago piace a molti della cerchia di Trump che si sono convertiti al suo stile di politiche regolatorie, che è tipico della sinistra. Certo molte posizioni di Rfk non sono di sinistra, ma riguardo a cibo, agricoltura, farmaci, sanità e alla battaglia contro le relative big corporation, le sue idee coincidono con quelle progressiste. Le mie fonti di destra mi hanno riferito che Trump è stato assillato da lobbisti che hanno spinto più che potevano affinché Trump non nominasse Rfk, ma anche che parecchia gente di destra che ha passato anni a difendere quegli interessi ora comincia a capire di aver avuto torto. E questo è un buon segno. Sta di fatto che il potere reale che avrà Rfk è un pericolo enorme per le corporation di farmaci e sanità e ci sarà un bel conflitto tra lui e i neocon. Anche in questo caso regnerà il caos, il che non significa che non possa avvenire un miracolo. Comunque sebbene la possibilità di infliggere seri colpi alla corruzione sia una questione aperta, è certo che questa fusione formale del Trumpismo con il discredito verso il fondamentalismo del mercato che Rfk ha avuto per tutta la vita provocherà un conflitto tra la destra libertaria e quella anti-corporation per i prossimi quattro anni, cosa che potrebbe portare a due conclusioni: o cambierà in meglio il Gop oppure radicalizzerà i più ardenti difensori del corporate power portandoli a prendere il controllo totale.
Cambiando area cosa pensi accadrà nel Partito democratico?
Quello che accadrà non lo so, però da persona cresciuta nel Wisconsin e non in una grande città della East Coast credo che le idee politiche della maggior parte della gente non siano di parte o ideologiche, bensì una sorta di mix di entrambi i partiti e di entrambe le ideologie. Quindi per me è importante che tutti e due i partiti arrivino ad allinearsi maggiormente con gli interessi delle loro basi e non con quelli dei finanziatori. Ecco perché faccio veramente il tifo per Democratici populisti come Alexandria Ocasio Cortez, Bernie Sanders, Marianne Williamson, Ro Khanna, sperando che possano allontanare il loro partito dal controllo degli interessi delle corporation, e credo che ora la sconfitta di Kamala Harris possa offrire un’incredibile opportunità. Persino James Carville, anziano consulente dell’establishment democratico più estremo, ha detto su Msnbc che forse Bernie Sanders aveva ragione nell’attribuire le colpe della sconfitta allo scollamento del partito dai bisogni della working class. Questa è una cosa grossa, soprattutto detta da lui, perché dopo essere stati presi a calci per due volte da Donald Trump, Clinton prima e Harris adesso, dovrebbe essere chiaro all’élite democratica che è ora di dire basta ai mega finanziatori delle corporation e capire che si deve cambiare. Non c’è mai stato in passato un momento in cui questo ragionamento potesse essere più persuasivo di ora. Quindi esiste un’opportunità reale sia che nei circoli democratici vengano accolte istanze politiche e sociali precedentemente considerate anatemi, sia che i progressisti vincano questa battaglia. Resto comunque abbastanza scettica perché la corruzione è il segno predominante del nostro sistema bipartitico e gli interessi delle corporation dominano il modo in cui si parla delle cose, creando abilmente distrazioni tra la gente comune e rendendola ostile al suo interno. È per questa ragione che speravo che RFk jr rimanesse in corsa come candidato di un terzo partito, perché aveva l’opportunità di diventare un Ross Perot o un Ralph Nader e attirare una larga fascia di elettori. Ma credo comunque che possa davvero essere un buon momento per i progressisti.
Che cosa ti fa propendere per questa speranza dopo così tanti anni di schiaffi in faccia ai progressisti? Le giustificazioni per la sconfitta di Kamala vengono riportate dai media mainstream a cause che non hanno nulla a che fare con il distacco del Partito democratico dalla sua base.
I Democratici vogliono soprattutto il potere. Ciò che Hakeem Jeffries e Chuck Schumer, i leader Democratici di Camera e Senato, vogliono è il potere. E se si rendono conto che non lo riavranno più a meno che non si facciano concessioni ai progressisti, quello che si può ottenere da loro può essere veramente tanto. Anch’io naturalmente sono scettica, ma se c’è un momento buono per i progressisti è proprio questo.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders.
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