
La fabbrica delle storie
Il Festival di letteratura working class è stato molto diverso dalle kermesse del libro perché è stato un evento collettivo e uno strumento di conflitto. Raccontando la propria storia la classe diventa più forte nel rivendicare i propri diritti
Per decenni ci hanno ripetuto come un mantra che le classi sociali non esistono più, che la classe operaia è cosa d’altri tempi, che ormai siamo tutti classe media. Se non riesci a essere classe media, fai fatica ad arrivare alla fine del mese o sei sotto la linea della povertà, la colpa è soltanto tua. Te lo sei meritato. Come ci ha raccontato nell’intervento finale del Festival di letteratura working class Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica, sono arrivati a far indossare tute bianche alle tute blu della Gkn, per distruggere anche quel simbolo così carico di orgoglio e far sentire più sporchi, con una tuta bianca che in un’officina diventa subito lercia.

Se fai un festival letterario à la page le banche e Confindustria ti sponsorizzano. Se fai un festival letterario working class nessuno ti dà una lira, così ti fai due conti in tasca e ci rinunci. Però nel vivo di una lotta di classe puoi riuscire a fare un evento collettivo, col sostegno di 305 donazioni dal basso e grazie al lavoro militante di più di cento persone. Noi volevamo fare il primo Festival di letteratura working class del nostro paese ma non volevamo farlo in un quartiere gentrificato e mercificato di una grande città. Ambivamo a costruire un evento in cui davvero la working class potesse scrivere la propria storia.
In molti ci siamo chiesti da dove provenisse l’energia particolare che abbiamo respirato in questo festival. La risposta forse sta proprio nella capacità avuta di costruire un evento culturale collettivo nel vivo di una lotta, così diverso dal semplice consumo culturale delle consuete kermesse del libro del nostro paese. Ciò è stato possibile grazie a 20 mesi di lotta degli operai e operaie della Gkn, che sono stati capaci di fare le barricate nelle strade ma anche con le parole, e hanno pensato di aver diritto, seguendo l’art.11 dello Statuto dei Lavoratori, di portare la cultura dentro la fabbrica. L’amalgama che si è creata tra noi, prima nelle piazze e poi grazie alla pubblicazione del libro Insorgiamo, ci ha permesso di rendere concretamente la letteratura uno strumento di conflitto, di lotta di classe. Se il padronato lotta sui colori delle tute, noi dobbiamo lottare sul piano delle forme del racconto, dobbiamo prendere «l’io» dello storytelling narcisista e trasformarlo nel «noi» dell’azione collettiva.

Se la working class racconta la propria storia torna dentro l’immaginario collettivo e diventa più forte nel rivendicare i propri diritti. È un aspetto spesso sottovalutato eppure la classe dominante lo sa talmente bene che il giorno prima dell’inizio del Festival, mentre stavamo montando, il liquidatore di Gkn ha mandato una lettera minacciando di denunciare chiunque avesse partecipato oltre che di staccare luce e acqua allo stabilimento. Del resto attraverso il razzismo e il patriarcato in questi anni sono stati bravissimi a costruire narrazioni in grado di dividere, segregare e distrarre la classe. A mettere i «penultimi» contro gli «ultimi», chi percepisce il Reddito di cittadinanza contro i working poor. Costruendo così la «classe contro sé». Se la working class rompe queste narrazioni può ricostruire un nuovo immaginario, tenere insieme la propria composizione plurale e tornare ad agire collettivamente. Per questo forse un festival letterario è sembrato così pericoloso (e per questo adesso, dopo che non sono riusciti a impedirlo, c’è chi cerca di svalutare il nostro festival dicendo che non è cultura – che è roba per persone colte e bennate – ma un rave o una manifestazione politica, che son cose da poveracci).
Eravamo stanchi, felici, emozionati. Ci siamo commossi, soprattutto quando gli operai hanno portato le loro performance sul palco. Abbiamo riso, abbiamo imparato, ci siamo presi cura delle storie di questa fabbrica. Abbiamo visto aggirarsi il fantasma di Majakovskij. I bambini e le bambine felici nello Spazio Prole. Abbiamo pianto quando Tiziana ci ha raccontato la sua storia di resistenza umana, che l’ha portata a essere demansionata da impiegata a operaia. O quando «i’berva» ha letto Alla linea di Ponthus. E ancora ascoltando le poesie operaie lette da Matteo Rusconi, Fabio Franzin e Angelo Ferracuti.

Si parla ormai spesso di intersezionalità tra le oppressioni di genere, razza e classe. Facilmente però proprio lo sfruttamento di classe viene dimenticato o lasciato sullo sfondo. Nominare la classe appare particolarmente pericoloso perché non si tratta di un’identità da includere ma di una categoria che svela l’ingiustizia di un modello produttivo basato sullo sfruttamento e le diseguaglianze crescenti. Il programma del nostro Festival è stato compiutamente intersezionale, e i vari panel stavano insieme perché nessuno rimandava a una dimensione centrale ma a un singolare plurale, che esprimiamo proprio con l’espressione inglese working class, per alludere a un’identità collettiva estesa, inclusiva, capace di tenere insieme le lotte sul lavoro degli operai con quelle femministe, Lgbtq, ecologiste e antirazziste. Filo Sottile e Marte Manca hanno spiegato quanto le battaglie per i diritti civili delle persone trans siano legate alle battaglie sul lavoro; Cash Carraway, dialogando con Claudia Durastanti, ci ha raccontato la condizione di classe di una donna e madre single; Pap Khouma insieme ad Antonella Bundu e Alessandro Portelli ha narrato la vita dei lavoratori migranti vittima del razzismo; Davide Di Ciaula, Carmine Conelli e Giusi Palomba ci hanno raccontato la fabbrica vista da sud; D. Hunter, dialogando con Francesca Coin e Ornella De Zordo, ha testimoniato il disprezzo verso le persone working class e il tipo di solidarietà che può nascere in situazioni socialmente disperate; Cynthia Cruz, con Sarah Gainsforth e ancora Giusi Palomba, ha messo a nudo le ferite e i traumi di classe. Anthony Cartwright e gli altri ospiti anglofoni ci hanno permesso di guardare alla letteratura working class britannica, che ha senza dubbio una tradizione più estesa rispetto al nostro paese.


Proprio dal Regno Unito a un certo punto ci è giunto, totalmente a sorpresa, un messaggio scritto per il nostro Festival dal più celebre narratore britannico della working class, Ken Loach:
Nella cultura occidentale contemporanea la storia della working class è largamente ignorata. Eppure per comprendere le lotte di oggi bisogna conoscere cosa abbiamo conquistato negli anni e cosa abbiamo perso. Bisogna aver cura della nostra letteratura. Scrittori e scrittrici che raccontano il tessuto della vita della working class con autenticità e consapevolezza sono davvero rari. Per questo sono felicissimo del vostro Festival. Leggere delle storie che riflettono in modo verosimile la propria vita può creare empowerment. Spero che il vostro Festival raggiunga questo obiettivo e porti gioia a tanti lettori, vecchi e nuovi.

Domanda ricorrente per ogni relatore e relatrice del Festival è stata come riuscire a trasformare il lavoro individuale di chi scrive in un lavoro collettivo, e come «evitare che la nostra storia la scrivano i borghesi». La nostra speranza è di aver fatto un’esperienza che contribuisca a trasformare lo stesso lavoro culturale, spesso troppo individuale o appannaggio di pochi intellettuali, come ha scritto Loredana Lipperini commentando il nostro Festival sul suo blog.
Alessandro Portelli ha spiegato le potenzialità della storia orale, raccontando come lui nella sua vita non abbia dato «voce ai senza voce ma l’esatto contrario. Io non so inventarmi le storie e gli oppressi mi hanno dato voce raccontandomi le loro vite». «Bisogna sfidare l’insopportabile, che non è la fatica del lavoro o la miseria ma il tempo rubato dal lavoro», ha detto Salvatore Cannavò nel panel finale citando un libro curato dal filosofo francese Jacques Ranciere, La nuit des prolétaires, che raccoglie i racconti scritti di notte da un manipolo di operai negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento intenzionati a sottrarre almeno le ore del sonno alle costrizioni dell’esistenza proprietaria. «Come ti narri tu non ti può narrare nessuno – ha detto Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica – ma questo non va mai inteso in senso individualistico. La narrazione va conquistata collettivamente per non limitarci a rimasticare quello che ci hanno messo in testa. Per questo ci serve conoscere la storia della nostra classe e anche avere un rapporto dialettico con gli intellettuali che in nostra supplenza per un periodo hanno narrato il lavoro. Per potersi raccontare bisogna uscire da una concezione solo economicistica della lotta sindacale, perché non vinciamo se non riusciamo a ridare valore al nostro tempo. E raccontando le nostre vite diamo loro più valore. Speriamo che il Festival della Letteratura Working class diventi il nostro personale pesce d’aprile a una storia che vuole gli oppressi muti e chi domina a spargere narrazioni false e tossiche».
«L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi» scriveva Marx nel discorso inaugurale della Prima Internazionale. Il fare da sé sta dunque alle origini del movimento operaio. La working class può decidere da sé di far ripartire una fabbrica, come ci insegnano gli stessi operai della Gkn con il loro progetto di reindustrializzazione. La working class può anche decidere di scrivere la propria storia.


*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia. Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, è autore tra l’altro di 108 metri. The new working class hero e Amianto. Una storia operaia. Per Alegre dirige la collana di narrativa Working Class.
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