La rivoluzione dell’ugualibertà
Il filosofo Étienne Balibar ci ha dedicato un po’ di tempo per parlarci di libertà e democrazia. E del perché la sinistra farebbe bene a riappropriarsi di queste due parole
In un recente discorso per il Veterans Day, Donald Trump si è buttato a capofitto in tutta la sua retorica in stile red scare: «Estirperemo i comunisti, i marxisti e tutti i criminali della sinistra radicale che vivono come parassiti dentro i confini del nostro paese». Le sue parole sono arrivate qualche mese dopo aver annunciato un piano di misure repressive sull’immigrazione che includerebbe anche uno screening ideologico per impedire ai socialisti e ai radicali di ogni genere di entrare negli Stati uniti.
L’isteria trumpiana ha il pregio di ricordarci qualcosa di importante: il socialismo è ancora il cavallo di battaglia preferito dalla destra, la cosa che ama di più odiare. E non è difficile capire perché i suoi campioni, come Trump, non smettano mai di attingere a quel pozzo; il socialismo, dopotutto, viene collocato ancora agli antipodi di quello che è il più santificato valore americano: la libertà.
A dire il vero, il filosofo marxista francese Étienne Balibar è un candidato improbabile per scardinare queste certezze. Eppure, per decenni, il celebre coautore di Leggere il Capitale ha incoraggiato i socialisti a rivendicare la libertà e la democrazia come loro legittima eredità e ad andare persino oltre: la sopravvivenza del progetto socialista, insiste, dipende dalla ridefinizione stessa di ciò che queste due idee significano nel presente.
Per anni Balibar non ha smesso di spiegarci come a sinistra una delle battaglie politiche più importanti si giocasse proprio sul terreno semantico di concetti come libertà, individualità e diritti – parole abbandonate totalmente alla destra conservatrice e corrotte, nel loro significato, da decenni di consumismo neoliberista.
I collaboratori di Jacobin Viviane Magno Ribeiro e Alexandre Pinto Mendes hanno incontrato di recente il leggendario filosofo marxista per discutere di diritti politici, transizione socialista, e del perché la sinistra dovrebbe tornare a rivestire il mantello da paladina della vera democrazia.
Conservatori e ultra-liberisti cercano sempre di ergersi a difensori della «libertà», politica o meno che sia. Nel frattempo la sinistra professa sempre più la sua adesione a valori come la «protezione», il «welfare», la «sicurezza». Ma libertà e protezione sono in opposizione fra loro? E se sì, come crede che evolverà in termini politici questa polarizzazione?
L’idea di «libertà» è stata contesa e contestata sin dalle sue origini nei tempi moderni, poiché è la sua stessa nozione a essere in sé «divisa», così come accade per tutti quei concetti che il filosofo analitico inglese W. B. Gallie chiama essentially contested. Avendo sempre una dimensione filosofica e metafisica, oltre che un’immediata rilevanza politica, questi concetti non possono mai raggiungere l’unità, né essere sussunti sotto un’unica definizione universalmente accettata. Sono piuttosto luoghi di opposizione permanente.
In termini politici, il conflitto non si situa quindi fra coloro che danno valore alla libertà e coloro che la ignorano, scegliendo per sé un altro principio. Il conflitto è proprio fra concetti antitetici di libertà. E non parlo qui solo della distinzione classica fra un concetto «negativo» e uno «positivo» di libertà, ma di un concetto individualistico – quello tipico della tradizione liberale – e un concetto democratico, che prevede un’agency collettiva, dove i cittadini si «liberano» l’un l’altro o si garantiscono la libertà reciprocamente.
Bisogna anche ammettere, tuttavia, che una certa tradizione di sinistra – influenzata soprattutto da una lettura «ottusa» di alcuni testi di Marx – ha avallato l’idea secondo cui la «libertà» sia di per sé un valore «borghese», confondendo il suo senso economico fondato sulla proprietà privata (la libera concorrenza, ecc.) con le libertà politiche o giuridiche (ovvero i diritti), che sono ritenute invece puramente formali. È un errore di lunga data, di matrice tanto storica quanto teorica, perché suffragato da una confusione di base su cui, non a caso, la destra è riuscita a capitalizzare, con effetti del tutto catastrofici per la sinistra.
Considerazioni simili, del resto, potremmo farle anche sull’idea di «protezione», o di «sicurezza», idee altrettanto divise in sé. L’esperienza della pandemia ha dato luogo a sviluppi interessanti su questi temi. Si è discusso per esempio se interpretare come antidemocratiche le misure restrittive che lo stato ha imposto sulle libertà individuali o collettive (come la libertà di circolazione) in modo tale da «proteggerci» contro la diffusione del virus. Io stesso credo che le misure coercitive quali l’isolamento, la quarantena, i lockdown, la vaccinazione obbligatoria, dovrebbero essere discusse democraticamente con la società, i medici, i vari livelli di governo, invece che venire imposte dall’alto in modo autoritario. Pur ammettendo la necessità di una regola generale, il rischio concreto che nel futuro i controlli sanitari possano amalgamarsi con altre forme di sorveglianza poliziesca, ed essere prolungate oltre il necessario, è del tutto reale. In questo senso siamo sollecitati a un intervento e a una sorveglianza di tipo democratico.
Spesso i socialisti affermano che la «vera democrazia» è quella capace di vedere oltre i diritti politici e di influenzare l’ambito economico – dando per implicito che la vera democrazia sia per l’appunto il socialismo stesso. Non è però un po’ troppo semplicistico dare per scontato un rapporto così intrinseco fra democrazia e socialismo?
In realtà, non posso che trovarmi d’accordo con l’idea che il socialismo e la democrazia abbiano un rapporto intrinseco. Anzi, proprio perché l’idea stessa di socialismo – con tutti i suoi annessi: pianificazione, redistribuzione, sviluppo e istruzione di massa – è stata associata in modo così disastroso con l’abolizione più o meno totale della democrazia – producendo in definitiva il collasso del socialismo – mi pare evidente che si debba lavorare in direzione di una combinazione organica fra i due termini. La nostra comprensione di ciò che significa «socialismo» ne uscirebbe sicuramente influenzata, ma anche la nostra comprensione di ciò che significa «democrazia».
Come ho detto in passato, esistono storicamente tre forme di istituzioni democratiche: quelle fondate sulla rappresentanza, quelle fondate sulla partecipazione diretta e quelle fondate sul conflitto sociale. Nel programma comunista di Marx, soprattutto dopo la Comune di Parigi, l’accento viene posto fortemente sulla democrazia diretta o sulla partecipazione, non sulla rappresentanza, che Marx – o meglio i suoi sostenitori – tendevano a ricondurre alla democrazia parlamentare. Si tratta però di una riduzione forse un po’ troppo sbrigativa che, in caso di conflitto sociale, può diventare anche pericolosa. Allora, la forma diretta di democrazia era stata concepita prendendo a modello comunità piccole. Con la globalizzazione dei problemi politici e sociali – pensiamo alle conseguenze del cambiamento climatico, un problema che coinvolge l’intera umanità – si rendono necessari diversi gradi di socialismo, diverse combinazioni di istituzioni democratiche e su vari livelli, dal locale fino al globale.
Per tutte queste ragioni, ma anche per altre, non nutro grande passione per la formula «la vera libertà è quella capace di estendersi al di là dell’ambito politico», che sembra lasciare inalterata proprio la definizione di cosa sia questo «politico» di cui parla. Una libertà autentica dovrebbe essere in grado di rivoluzionare il politico, a cominciare dal suo fittizio «isolamento» dalla sfera economica e sociale. Non si tratta qui soltanto di includere l’agency politica o la politica in generale nella prassi rivoluzionaria, ma di praticarla in modi diversi, più egualitari e ingegnosi (cosa che i grandi partiti socialisti, riconosciamolo una volta per tutte, hanno fatto raramente sul lungo periodo).
Più di un decennio fa, nel tentativo di portare il problema dei diritti in cima all’agenda della sinistra, lei ha coniato il termine «ugualibertà». Può questo concetto aiutarci a districare meglio il rapporto fra democrazia e socialismo? Si può sostenere che l’ugualibertà fosse parte del tentativo di andare oltre la tendenza sempre più sterile a dividere la democrazia in due, una metà socialista «buona», ancora da venire, e una metà già esistente, «cattiva» e borghese?
Ho coniato il neologismo «ugualibertà» (égaliberté in francese) per il bicentenario della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, nel contesto di una ridiscussione sul significato dei principi della «rivoluzione borghese». Non l’ho inventato di sana pianta: facevo anzi riferimento a una lunga tradizione filosofica, che rintraccerei già nella terminologia dell’«aequum ius» e della «aequa libertas» romana, a cui poi alcuni filosofi liberal come John Rawls hanno ridato lustro, insistendo sul concetto di «equal liberty».
Proprio Rawls, tuttavia, non fa che cancellare immediatamente la simmetria che questa formulazione vorrebbe suggerire, spiegando come fra uguaglianza e libertà debba esserci un certo «ordine lessicografico» in cui la libertà possa prevalere sull’uguaglianza – reputata il valore socialista per antonomasia – in caso di conflitto fra i due valori. Ciò che intendevo fare con l’ugualibertà era quindi ristabilire innanzitutto una completa simmetria.
Tra l’altro, dopo aver pubblicato il mio saggio ho avuto la fantastica sorpresa di scoprire – attraverso il commento di un filosofo marxista tedesco, Frieder Otto Wolf – come «equa libertà» fosse un’espressione chiave nel discorso dei Livellatori, l’ala radicale della Rivoluzione inglese, soprattutto durante i Dibattiti di Putney nel 1647. Una scoperta che ha dato vigore alla mia posizione, ovviamente.
La mia intenzione comunque non era di suggerire che fra uguaglianza e libertà non esistesse alcuna tensione, o che non ci potesse essere conflitto. Al contrario, volevo descrivere un rapporto che fosse più dialettico: da una parte i conflitti sono permanenti e non possono essere evitati, nonostante debbano trovare, attraverso pratiche sociali e invenzioni istituzionali – cose instabili per definizione – una risoluzione dinamica in ogni congiuntura. Dall’altra però non è neanche possibile rinunciare del tutto a cercare una risoluzione, la storia ci dimostra infatti che nessuna società o regime politico può dirsi davvero egualitario laddove venga meno la libertà – pensiamo al «socialismo reale» – così come non esiste alcun regime politico che possa proteggere universalmente le libertà dando luogo a disuguaglianze – e qui pensiamo alla democrazia di tipo capitalista. È una «doppia negazione», questa, che ho definito elenchus, o «confutazione», proprio nel senso della logica antica (greca).
Il mio intento era anche quello di dimostrare come il modo tradizionale, liberale e marxista, di separare l’idea di «diritti umani» da quella dei «diritti politici» – i «diritti dell’uomo» dai «diritti del cittadino», per usare i termini della Déclaration – non restituisse una buona lettura dei principi classici, i quali non scindono le due categorie, né definiscono esplicitamente i diritti fondamentali come diritti politici o civici. Il «diritto di avere diritti» di Hannah Arendt è coerente con tutto questo. L’ugualibertà vorrebbe situarsi al cuore di questa unità dialettica.
A quest’idea aggiungerei infine tre conseguenze dirette. Primo: essa ha dato luogo a una controversia che scaturisce sì dalla critica dei regimi socialisti di tipo sovietico nel loro sopprimere le libertà, ma anche dallo sviluppo dell’«interventismo umanitario». In sostanza, il dibattito era questo: Esiste davvero una «politica dei diritti umani»? O quello sui diritti umani non è altro che un discorso puramente moralistico, riutilizzabile a mo’ di riparo per una politica imperialista? In Francia, Claude Lefort difendeva la prima posizione, mentre Marcel Gauchet difendeva la seconda. Da parte mia davo più ragione a Lefort, lasciando però aperta, ovviamente, la questione relativa alla giusta applicazione del principio.
Un secondo dibattito riguardava poi come riconciliare i «diritti dell’uomo» con i «diritti del cittadino». Il punto era spiegare, in altre parole, che i diritti fondamentali sono già sempre politici, che lo status giuridico del cittadino (vale a dire la sua identificazione con la «nazionalità», quella che alcuni teorici americani chiamano ascribed citizenship) non restringe necessariamente l’universalità dei diritti umani. Anzi, quando vengono rivendicati o scoperti nella storia, proprio in quanto diritti politici, umani o fondamentali, essi possiedono di per sé un carattere insurrezionale. È dall’insurrezione che deriva l’istituzione, non viceversa. O forse l’insurrezione comprende già una sua «immaginazione istituzionale», un pouvoir instituant (per usare la terminologia di Saint-Just, il giacobino francese).
L’idea di ugualibertà comportava in definitiva una rettifica della comprensione «marxista standard» della «rivoluzione borghese» per un ritorno alla comprensione del giovane Marx del 1843 e alla sua idea di una «rivoluzione permanente». Al centro delle insurrezioni borghesi, o della loro componente popolare, c’era una tendenza che definivo appunto ugualibertà. La stessa tendenza che concepisco come dimensione chiave del comunismo, il quale sovverte e trascende già sempre i limiti delle costituzioni borghesi, che siano fondate sulla legge della proprietà privata o sulle gerarchie di genere e di razza. L’ugualibertà voleva contribuire in questo modo anche a cancellare una visione lineare della storia delle rivoluzioni in cui il momento borghese appartiene al passato e quello socialista-comunista al futuro: è nel presente – ogni nuovo presente – che questo conflitto deve essere rimesso in scena.
Più di una volta ha fatto notare come la precarietà del lavoro e la frammentazione della classe lavoratrice siano intimamente legate al declino degli standard di cittadinanza e all’«individualismo negativo». Sembra che questo trend sia un fattore anche in quella che è stata chiamata la crisi della forma partito o del partito di massa nelle democrazie moderne.
Avendo lei riflettuto a fondo sulla politica delle forme associative, delle comunità, e sul modo in cui gli individui e i collettivi sono legati gli uni agli altri, intravede una qualche chance per una ripresa della forma partito che non comporti soltanto fare proselitismo per un ritorno ai vecchi partiti di massa in stile socialdemocratico? Qualcosa di simile a un partito-movimento, magari?
I partiti di massa con una qualche dimensione democratica hanno sempre lavorato in articolazione con i «movimenti» e questo è tanto più vero quanto meno i partiti hanno fatto solo da «cinghie di trasmissione» – per usare una famigerata metafora stalinista. Se partendo da qui torniamo al significato della categoria «partito» nell’uso che ne facevano Marx ed Engels nel Manifesto – il cui titolo originale era non a caso Manifesto del Partito Comunista [mentre nell’edizione inglese il titolo è The Communist Manifesto, Ndt] – ci si accorge subito quanto poco il partito fosse esplicitamente un’organizzazione isolata. Quella che abbiamo davanti è una dottrina che combina una visione della storia con il ruolo rivoluzionario del proletariato e con un programma di transizione politica e sociale verso una società senza classi. Una dottrina che può diventare egemone in una molteplicità di movimenti, dando luogo a una sorta di «movimento dei movimenti».
La concezione della «forma-partito» come organizzazione isolata e disciplinata proviene da un’evoluzione successiva, quando bisognava raccogliere le forze – a livello sostanzialmente nazionale, a prescindere dalla vocazione internazionalista – per «impadronirsi del potere dello stato», prima in senso parlamentare, poi in senso rivoluzionario, e persino tramite una strategica combinazione dei due: la nozione prettamente gramsciana di «guerra di posizione».
Ora, per una serie di ragioni storiche e sociali, credo che le due forme siano diventate obsolete (per quanto possano lasciarci anche qualcosa di cruciale, come il problema dell’egemonia e dell’organizzazione politica). Oggi abbiamo bisogno di inventare o di scoprire una nuova forma-partito fra le esperienze esistenti. E questo è tanto più vero quanto più crediamo, in primo luogo, che in una società di profondi antagonismi i cambiamenti possano scaturire soltanto da una lotta multiforme, per cui si parla di «parzialità» o «partigianeria», e in secondo luogo, che laddove il potere è concentrato nelle mani di un’élite corporativa e tecnocratica sia fondamentale che emerga un esteso contropotere di natura popolare. Quelle che abbiamo non sono però forme predeterminate, non c’è alcun modello per il partito del futuro. Ciò che abbiamo per le mani, piuttosto, sono diverse questioni da affrontare.
Punto primo: il tipico partito socialdemocratico è quello che organizza gli elementi della «società civile», direttamente o attraverso organizzazioni affiliate, con l’idea di impadronirsi o di controllare l’apparato statale. Un partito che è ancorato a una rappresentazione dualistica della società e della nazione dove la società civile e lo stato sono esterni l’uno all’altro. Ebbene, in rapporto all’emergere del welfare state già lo stesso Gramsci aveva percepito i limiti di questa rappresentazione. Così come Nicos Poulantzas, che è andato avanti in questa direzione.
Qui dobbiamo capire che la lotta politica permea tanto lo stato quanto la società, nonostante il welfare state sia sempre meno efficace – se non forse al Nord – e nonostante venga costantemente smantellato dalle politiche neoliberiste. E la lotta per la democratizzazione dei servizi pubblici viene condotta meglio dai movimenti civici, piuttosto che dai partiti in senso parlamentare o dalle organizzazioni «sovversive».
Punto secondo: giustamente avete enfatizzato la questione dell’«individualismo negativo». Questa formula però non l’ho inventata io, l’ho presa in prestito dal grande sociologo francese Robert Castel – nel suo libro Le metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato –, il quale in seguito l’avrebbe poi abbandonata, perché le sue connotazioni negative rendevano difficile il suo utilizzo nelle conversazioni con i (giovani) lavoratori precari che la sentivano come stigmatizzante. Ora, per quanto io sia consapevole del problema, tenderei a non allontanarmi dall’espressione originale, che credo tocchi una questione importante: i movimenti e le forme di organizzazione politica nel movimento dei lavoratori coinvolgono sentimenti e pratiche solidali molto forti, in parte basate sulle condizioni dello stesso processo lavorativo, in parte ereditate e trasposte dalle tradizioni e dalle memorie comunitarie che i lavoratori ricavano dalle loro comunità agricole (Una dimensione che E. P. Thompson e altri storici hanno indagato a fondo.) Ebbene, le politiche neoliberiste non fanno oggi che smantellare sistematicamente le condizioni che rendono possibili questi legami di solidarietà; in questo senso sono anzi consapevolmente controrivoluzionare, dando luogo a precarietà assoluta e a quella che lo stesso Castel chiama «disaffiliazione». Queste forme di precarietà tendono poi a scontrasi con altre forme di precarietà, come il «déracinement» dei lavoratori migranti con le loro forme proprie di solidarietà etnica, culturale, razziale e anche religiosa. Nessuna nuova forma di «partigianeria socialista», democratica o comunista, potrà mai emergere se queste «contraddizioni fra le persone» non vengono affrontate e risolte. Ed è un compito per nulla facile.
Punto terzo: parlare di «partiti di massa» e dell’articolazione fra partito e movimenti vuol dire anche, inevitabilmente, sollevare l’annosa questione della differenza-cum-analogie fra le tradizioni socialiste e le tradizioni fasciste. Per quanto mi riguarda non faccio alcuna confusione fra le due, credo però che si debba affrontare molto seriamente, tanto storicamente quanto nel presente, il problema della circolazione dei modelli e delle possibilità di perversione dell’una nell’altra. È una lezione che ci ha restituito il ventesimo secolo e che sarebbe meglio non dimenticare. Ed è anche una delle ragioni per cui diventa così centrale insistere sul combinare il progetto socialista con le migliori vocazioni e i migliori ideali democratici (radicali). Da qui veniamo condotti ad aspetti fondamentali nell’istituzione della forma-partito come la disciplina interna, la funzione del leader, ecc.
Personalmente, per esempio, non mi colloco dalla parte di quegli amici e compagni socialisti che credono possa esistere un «populismo di sinistra», nonostante riconosca che una rappresentazione puramente «anarchica» del movimento (o del movimento dei movimenti) sia una contraddizione in termini. Siamo a un altro rompicapo. Credo che la questione sia tanto più inevitabile quanto più rimaniamo fedeli all’idea e ai principi dell’internazionalismo. Un socialismo che non sia internazionalista non può che diventare nazionalista – non c’è termine medio che tenga.
Di recente ha avuto modo di riprendere un vecchio dibattito: quello sulla transizione socialista. Facendo suo un vecchio adagio di Bernstein – «l’obiettivo finale non è niente, il movimento è tutto» – il suo obiettivo dichiarato era quello di ripensare la questione della transizione al socialismo al di là dei vecchi orpelli della «teoria delle due fasi» e dello «statalismo». Ecco, come se la immagina una transizione in cui «l’obiettivo finale non è niente»?
Su questo punto meglio evitare qualsiasi confusione. Quello che ho fatto è stato estrapolare la formula di Bernstein dal suo contesto: l’appello al «gradualismo» del 1899 e il successivo «dibattito Bernstein» interno alla socialdemocrazia europea, di cui dovremmo discutere troppo a lungo. In ogni caso, nel citare la formula di Bernstein, non intendevo suggerire che non ci siano obiettivi, o che gli obiettivi non siano importanti, ma che gli obiettivi sono immanenti al movimento stesso e pertanto ridefiniti e chiarificati ogni volta che il movimento si sviluppa, che le sue forze si riuniscono, che i suoi ostacoli vengono identificati e superati.
La formula, in questo senso, per me faceva un po’ il paio con la celebre definizione di comunismo proposta da Marx nell’Ideologia tedesca (1846), come movimento che trasforma/abolisce (aufhebt in tedesco, la categoria dialettica fondamentale) «lo stato di cose presenti», cioè la forma stessa della società. L’associavo quindi all’idea che il conflitto e la democrazia conflittuale non si limitino a essere degli strumenti, ma che rimangano una caratteristica intrinseca ed «eterna» di quella società il cui obiettivo non è la stabilizzazione di un qualche regime istituzionale, ma la capacità di trasformare e rigenerare sé stessa in modo permanente. Ecco perché non c’è «obiettivo finale»; perché nessun obiettivo potrebbe mai significare «la fine».
Oggi, rifacendomi ancora a Marx, anche se più criticamente, aggiungerei che tutto questo va di pari passo con il rifiuto dell’assunto metafisico esposto nella prefazione di Per una critica dell’economia politica (1859): «L’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione». Falso. Per i suoi problemi più importanti, l’umanità non possiede mai le condizioni per una soluzione, piuttosto deve crearle e inventarle lei stessa, un processo «aleatorio» – come ha scritto il mio maestro Louis Althusser nel suo ultimo saggio – sempre in corso d’opera. Questa metafisica evoluzionista, in effetti, è legata a doppio filo proprio con la «teoria delle due fasi» di cui parlavi.
Rinunciare all’idea delle fasi e allo statalismo non significa però rinunciare all’idea stessa di una transizione, ancor meno all’idea di una transizione rivoluzionaria. Questo problema è oggi più che mai all’ordine del giorno, e andrebbe esplorato in ogni suo aspetto – dagli obiettivi immediati e più urgenti alle nuove forme di organizzazione fino alle istituzioni radicalmente democratiche, evitando di usare forme esistenti di potere senza decostruirle.
Nel saggio a cui implicitamente fate riferimento, tratto dal mio volume Histoire interminable (Ecrits I, 2020), propongo una generalizzazione del motto leniniano: nella «dittatura del proletariato» lo stato è l’unità di due opposti, uno «stato non-stato», uno stato che comincia immediatamente a «estinguersi». Certo, non è questo che è successo nella storia reale dell’Unione sovietica, eppure c’è un’intuizione dialettica cruciale nell’idea che «la transizione» è un movimento capace di trasformare le sue forze e forme costitutive. Propongo quindi di vedere la transizione come qualcosa che prevede uno «stato non-stato», un «mercato non-mercato», una «industria non-industria» (comportando una rivoluzione nell’idea stessa di «produttività»)
In questa cornice chiamo poi in gioco la nozione di «regolamentazione», la quale a mio avviso rimane sostanzialmente valida quando guardiamo ai problemi globali come il cambiamento climatico, il disarmo, la regolamentazione della corsa agli armamenti, delle operazioni finanziarie, del monopolio o della proprietà intellettuale, o l’interdizione della violenza sessista-omofoba a livello internazionale. Non identifico il concetto politico di transizione con queste regolamentazioni, certo, suggerisco però che bisogna combinare quest’ultime con le «insurrezioni» e con le «utopie».
Assieme al dibattito sulla transizione, la sinistra ha sostanzialmente abbandonato le discussioni sull’uso legittimo, democratico o persino rivoluzionario della forza. Anni dopo l’esercito «popolare» maoista, esistono ancora esempi contemporanei di polizia comunitaria fra i curdi, o in alcune comunità del Messico, ma la questione della gestione democratica del conflitto è di fatto scomparsa dai maggiori dibattiti. Ora, visto che gran parte del suo pensiero gira attorno alla questione della violenza politica, non crede che dovremmo riflettere a lungo su cosa significherebbe democratizzare quelle istituzioni sociali che sono responsabili dell’uso della forza?
La questione della forza e della violenza si mantiene tanto su una dimensione metafisica quanto su una dimensione politica. In tedesco, per inciso, i due termini vengono combinati in un’unica parola, con un ampio spettro di applicazioni possibili: Gewalt (il che spiega alcune delle oscillazioni nella lettura di testi classici come Il ruolo della violenza nella storia di Engels). Sulla funzione e sulle condizioni per l’uso della forza persistono divisioni inossidabili, soprattutto sulla violenza armata o militarizzata.
Ci metteremmo troppo a chiudere il discorso, ma ci sono diversi punti che val la pena affrontare qui. Primo, non può esserci alcuna dottrina universale e indifferenziata riguardo all’uso della violenza se diretto a ottenere trasformazioni sociali, perché le condizioni di partenza non vengono mai scelte liberamente. E non è neanche vero che in ogni situazione politica esiste solo una possibilità, ovvero reagire alla violenza dell’ordine dominante con una simmetrica «violenza rivoluzionaria». La caratteristica universale delle società di classe, o più in generale degli stati di dominio, è che i governanti si affidano più o meno preventivamente alla violenza controrivoluzionaria, pronti come sono a implementarla per proteggere i loro privilegi. Fino a che punto possano spingersi qualora il loro dominio venga contestato dai movimenti democratici è però una questione che concerne il rapporto fra le forze politiche e che non è deducibile unicamente dai loro interessi. Qui comincia la politica concreta.
Secondo, ogni volta che la violenza – persino la guerra – è stata usata per scopi rivoluzionari in senso autentico, le forme rivoluzionarie, egualitarie soprattutto, con cui è stata intrapresa hanno sempre differito dalla tradizione militarista degli eserciti imperiali e nazionali. Ecco perché gli esempi che hai citato di Rojava o Chiapas sono così interessanti, a prescindere dalle loro differenze. D’altra parte, anche il caso dell’esercito popolare maoista e della «lunga marcia» meriterebbe un esame attento, perché è forse il più grande esempio del ventesimo secolo in cui una massa popolare – i contadini poveri – si mobilita al servizio della resistenza contro un invasore imperial-fascista, tanto per la propria emancipazione sociale quanto per la realizzazione degli ideali comunisti di uguaglianza. Di certo questo non sarebbe successo senza la leadership e la disciplina imposta dal Partito comunista. È anche probabile che ciò sia dipeso dalla capacità di imbrigliare le vecchie tradizioni ribelli dei contadini contro i latifondisti, i signori della guerra, ecc. Eppure, col senno di poi che abbiamo oggi, è impossibile non chiederci se nella storia ormai secolare della Cina moderna sia stato il nazionalismo a servire l’obiettivo del comunismo o se non sia accaduto piuttosto il contrario. Un tipico esempio di hegeliana «astuzia della storia».
Terzo, tornando alla filosofia della storia marxista per come viene espressa nella prefazione del 1859 della Critica dell’economia politica, dobbiamo osservare come la rappresentazione evoluzionista, storicista e deterministica del progresso sociale, combinata con l’idea dialettica che il conflitto sia il motore della storia, della «potenza del negativo» ecc., abbia generato l’idea – formulata esplicitamente in un famoso passaggio del Capitale – che la «violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova» (una vecchia allegoria messianica, in realtà). È da qui infatti che scaturisce la convinzione metafisica secondo cui in certe «situazioni rivoluzionarie» la violenza possa accelerare il corso della trasformazione o la transizione stessa, senza però mai deviarla o invertirla del tutto. Così come la convinzione non meno metafisica che una forza rivoluzionaria (partito, movimento, classe, ecc.) possa usare la violenza anche estrema per raggiungere i suoi obiettivi, senza venire influenzata internamente dagli effetti dissolventi di questa stessa violenza.
Come risultato, la Rivoluzione russa, che cominciò con il famoso motto «trasformare la guerra imperialista in una guerra civile rivoluzionaria», terminò nella costruzione di un sistema politico completamente militarizzato, che temeva la ribellione dei suoi stessi cittadini ed eliminava i suoi stessi attivisti. È vero, tutto questo è avvenuto in un contesto di continua e violenta controrivoluzione, ma la rivoluzione stessa non era ideologicamente preparata ad analizzare queste azioni retroattive. Lenin e Gandhi rimasero totalmente estranei l’uno all’altro. Sono questioni come questa che cerco di affrontare in Violence et civilité, tracciando una linea di demarcazione problematica fra «violenza» e «violenza estrema», ovvero quella che non lavora più in modo strumentale con la propria razionalità politica nel suo senso clausewitziano.
Quarto, anche la congiuntura presente, con le sue forme eterne di violenza estrema nel Medio Oriente – sia interne sia aggravate da interventi esterni di carattere imperialista – e con la guerra calda ricominciata in Europa, descrive quello stato di cose deprimente per cui un’«economia dell’estrema violenza» non rappresenta tanto un’eccezione ma la normalità, o piuttosto uno «stato di eccezione normalizzato». Achille Mbembe ha parlato di «brutalizzazione» delle nostre società. Se quindi nessun uso della violenza o della controviolenza viene escluso in un processo rivoluzionario, è anche necessario comprendere come possa trattarsi soltanto dell’ennesimo capitolo di una generale escalation di violenza, che io definisco la tomba della politica. Tramite la categoria di civilité, che non descrivo né come «nonviolenza» né come «controviolenza» ma «antiviolenza», non tento di far altro se non nominare questo problema.
Parafrasando Rosa Luxemburg, sembra che il socialismo debba essere pensato alla stregua di una costruzione storica, piuttosto che di un futuro garantito. Lei stesso ha espresso scetticismo riguardo all’utilità dell’utopia per la politica di sinistra. Ci chiedevamo come mai.
Al contrario, l’utopia è un ingrediente essenziale, organico, di ogni azione e processo che miri alla trasformazione del nostro inaccettabile e invivibile mondo. In realtà, nei suoi usi tradizionali, il concetto di «utopia» ricopre molti significati diversi, alcuni dei quali sono stati documentati e discussi ampiamente da Karl Mannheim, Ernst Bloch, Miguel Abensour, Pierre Macherey, e più di recente da Erik Olin Wright.
Io non rifiuto l’idea di «immaginare il futuro», ammesso che non lo si identifichi con lo stilare piani dettagliati per l’organizzazione della «società socialista». Per quanto, anche qui, cosa hanno fatto i più straordinari progetti di «socialismo utopico», come quelli di Fourier e di Owen nel diciannovesimo secolo, se non incarnare una ricchissima immaginazione insurrezionale? Da parte mia, l’utopia che preferisco è quella capace di mantenere la forza di sovvertire le norme e le istituzioni esistenti, quella radicata nelle pratiche di resistenza effettive e in modi alternativi di esistenza. «Sperimentazioni del futuro» mi pare una buona formula, di un futuro però capace anch’esso di alterarsi nel suo emergere attivo.
*Étienne Balibar insegna filosofia europea contemporanea alla Kingston University di Londra. Viviane Magno Ribeiro è docente di filosofia del diritto presso la Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro. Le sue aree di ricerca sono la filosofia politica e la storia. Alexandre Pinto Mendes è professore di diritto presso l’Università Federale Rurale di Rio de Janeiro. La traduzione è di Emanuele Giammarco.
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