La svolta
La strage di Capaci, trenta anni fa, generò la mobilitazione giudiziaria contro la mafia e la presa di coscienza sociale. Ma ci si fermò solo al livello militare di Cosa nostra
Il 23 maggio 1992, sull’autostrada che collega l’aereoporto di Punta Raisi a Palermo, nei pressi di Capaci, esplose la carica di tritolo che uccise il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti della scorta. A trent’anni di distanza abbiamo chiesto a Umberto Santino, fondatore nel 1977 del primo centro studi sulla mafia sorto in Italia, poi intitolato a Peppino Impastato, e autori di vari saggi sul fenomeno mafioso, di spiegarci il contesto politico in cui si inserirono quegli attentati e in che modo hanno segnato la trasformazione sia della mafia che dei movimenti antimafia negli ultimi decenni.
Le stragi del ’92 identificate, dal senso comune come un momento di svolta sebbene abbiano delle specificità, sono figlie come minimo degli anni Ottanta. Ci puoi dire qual è il contesto in cui si sono sviluppate e quali erano le condizioni sociali e politiche dell’organizzazione della mafia? Ci sono secondo te dei rischi in questa rappresentazione del ’92 come anno di svolta?
Se vogliamo ricostruire il ciclo della violenza, direi che comincia negli ultimi anni Settanta, con gli assassinii di Peppino impastato, nel 1978, di Mario Francese, Michele Reina, Boris Giuliano, Cesare Terranova e Lenin Mancuso, nel ’79, Piersanti Mattarella e Gaetano Costa, nell’80, l’assedio dei corleonesi dei primi anni Ottanta e poi culmina nell’82 con gli assassinii di Pio La Torre e Rosario Di Salvo e di Carlo Alberto dalla Chiesa. La violenza interna, per acquisire il comando di Cosa nostra e il controllo delle attività (i corleonesi erano i parenti poveri nel traffico di droga, egemonizzato da Badalamenti, Bontate e Inzerillo) si coniugava con quella esterna. I cosiddetti delitti politico-mafiosi miravano a bloccare i progetti di mutamento del quadro politico (il delitto Mattarella replica nel quadro regionale l’assassinio di Aldo Moro sul piano nazionale). Con il delitto La Torre si relazionarono con il quadro geopolitico, segnato dalla corsa agli armamenti delle grandi potenze, ma ebbero un effetto boomerang con l’assassinio di Dalla Chiesa. Dieci giorni dopo venne approvata la legge antimafia che avvia la reazione istituzionale a una sfida che ha toccato i vertici più alti dello stato. Il contesto è quello internazionale e nazionale a cui facevo riferimento: si gioca l’ultima partita della Guerra fredda con la lievitazione della spesa militare, che ebbe poi un ruolo decisivo nell’implosione dell’Unione Sovietica, e sul piano nazionale e regionale si tenta di risolvere la crisi della “democrazia bloccata” con l’apertura al Partito comunista. La mafia si inserisce in una strategia reazionaria, che fa apertamente ricorso al terrorismo per condizionare un passaggio di poteri che porterà al berlusconismo, una delle stagioni più indecorose dell’Italia repubblicana.
Con la vittoria, precaria, dei corleonesi, l’assetto di Cosa nostra rivelato da Buscetta, sostanzialmente collegiale, muta in monarchia assoluta. Ma il problema di fondo è il tramonto del ruolo storico della violenza mafiosa, legittimata dall’impunità, nella repressione dei movimenti e delle forze politiche che incarnavano una prospettiva di mutamento. Con lo scioglimento della Democrazia cristiana si pone per la mafia il problema della ricerca di nuovi interlocutori, prima con l’opzione leghista-separatista poi con l’identificazione con Forza Italia, ma nel frattempo è crollata la certezza dell’impunità. Con il maxiprocesso si apre una fase in cui le condanne di capi e gregari smantellano l’apparato organizzativo di Cosa nostra. Ma la “convergenza” con settori istituzionali, ipotizzata ripetutamente a livello giudiziario a proposito dei delitti politico-mafiosi, non riesce a prendere corpo, oscurata dalla strategia del depistaggio, che affonda le radici nella morfologia e gestione del potere (si pensi a Portella della Ginestra).
Il ’92 ha certamente segnato una svolta. La legislazione antimafia è stata aggravata con il carcere duro e l’ergastolo ostativo, che ha suscitato problemi sul piano dei rispetto dei diritti umani. Si sono costituite la Procura nazionale e la Direzione investigativa antimafia, una sorta di risarcimento per l’isolamento e l’avversione soprattutto nei confronti di Falcone, ma anche di Borsellino. La svolta c’è stata anche nella presa di coscienza di ampi strati della popolazione, legata in gran parte all’emotività prodotta dall’eclatanza della violenza, che ha finito per generare una sorta di culto dei nuovi Santi-Patroni. Ma sul piano giudiziario ci si è fermati di nuovo alla mafia militare e questa volta, per la strage di via D’Amelio, il depistaggio, con l’invenzione di un falso pentito, ha coinvolto anche la magistratura e ancor’oggi si fa di tutto per non riconoscerlo.
Sul piano politico la svolta si è verificata con la fine della forma-partito e l’avvento di forme che stanno tra l’impresa padronale e la tifoseria, con il liberismo come pensiero unico e l’occupazione del potere come unico scopo. Sul piano internazionale l’illusione di un nuovo ordine mondiale è durata poco. Più che una politica inclusiva si è mirato a riaffermare la continuità delle organizzazioni internazionali, dall’Onu alla Nato, isolando sempre di più la Russia, costringendola a un capitalismo selvaggio che ha fatto la fortuna delle oligarchie mafiose, e ponendo le basi per la situazione attuale che minaccia di scatenare una guerra mondiale.
Secondo il paradigma della complessità che hai proposto nelle tue analisi di Cosa nostra, la mafia è un insieme di organizzazioni criminali che svolgono attività violente sia illegali che legali al fine di accumulare profitti e potere. Questo sistema si basa anche sul consenso e su rapporti trans-classisti di cui la borghesia mafiosa è perno. Chi componeva questo blocco sociale negli anni Novanta?
Si è soliti identificare la mafia con Cosa nostra, ma ci sono altri gruppi che possono definirsi associazioni di tipo mafioso in base alla legge antimafia. Volendoci limitare a Cosa nostra possiamo dire che quella egemonizzata dai corleonesi con criteri dittatoriali e il continuo ricorso alla violenza, a scapito del consenso, sia stata sconfitta e si è avviata una fase che già con Provenzano andava verso la collegialità e l’autonomia relativa delle varie famiglie. Pare che il verticalismo ceda il passo all’orizzontalità, anche tenendo conto della vulnerabilità di un potere centralizzato e facilmente individuabile.
Il blocco sociale negli anni Ottanta e Novanta era rappresentato da soggetti che potevano godere dei proventi dei traffici illegali e della disponibilità soprattutto dei fondi europei, con un ruolo decisivo della borghesia imprenditoriale e professionale. Uno dei terreni più fertili per la mafia è stato per molti anni la sanità privatizzata, con costi incredibili per l’amministrazione regionale. Nella clinica Villa Santa Teresa di Bagheria, un emblematico esempio di borghesia mafiosa, con imprenditori, professionisti, mafiosi, politici che hanno egemonizzato il “mercato sanitario”, per un tumore alla prostata il costo medio era di 143.000 euro. Dopo la confisca è di 8.000 euro. Con la pandemia si è verificata l’assoluta necessità di una sanità pubblica, bisognerà vedere cosa si farà una volta svanito il Covid, in attesa del prossimo virus.
Da cosa è caratterizzata la mafia oggi? In quali attività è impegnata principalmente? Quali sono i suoi interlocutori e su cosa si basa oggi il suo consenso?
Si parla di mafia mercatista e manageriale, ma come tutti i fenomeni di lunga durata, persistenti nel tempo, la mafia intreccia continuità e trasformazione. L’estorsione c’è sempre, perché ha carattere identitario, come riconoscimento della signoria territoriale mafiosa. Ma ci sono quanto meno delle smagliature. Come si spiega ad esempio l’insediamento di gruppi stranieri? Hanno l’autorizzazione della mafia indigena? Ci sono attività comuni? Si parla quotidianamente di sequestri di partite di droga, ma con Badalamenti la mafia siciliana aveva un ruolo egemonico a livello internazionale, ora l’egemonia è della ’ndrangheta calabrese e il traffico di droga lo fanno tutti: si può dire si sia polverizzato, come un affare di famiglia, a cui partecipano anche i bambini. Non c’è più la liquidità di una volta e proliferano furti e rapine autorizzati dalle cosche, si aprono i negozietti di compro oro, una forma di speculazione sulla povertà crescente. Il sistema relazionale è sempre transclassista ma vive la crisi indotta dalla pandemia e ora dalla guerra. Il consenso è correlato con il coinvolgimento nelle attività dei gruppi mafiosi, con la spartizione dei guadagni e la tenuta del controllo sociale.
Hai parlato di un ruolo delle mafie nella pandemia. Cosa può accadere ora con la guerra?
Le mafie possono agire a vari livelli: come welfare elementare per gli strati più disagiati; con il prestito usurario a commercianti e imprenditori travolti dalla crisi, che prelude all’apprensione dell’attività e dell’impresa, anche con funzione di riciclaggio; con l’accaparramento dei fondi del Pnrr, se si attenuano o aboliscono i controlli.
Con la guerra le occasioni non mancano, dal contrabbando di beni al traffico d’armi, fino alla tratta di esseri umani, dai bambini alle donne. Al No mafia Memorial abbiamo organizzato un seminario con Federico Varese, uno dei maggiori studiosi della mafia russa. Putin negli ultimi tempi l’aveva repressa duramente, ma ora rialza la testa, approfittando della crisi.
Com’è cambiata l’antimafia dalle stragi del ’92? Quali sono gli stereotipi secondo te più pericolosi su cui si è basato il movimento antimafia dagli anni Novanta a oggi? L’azione sociale antimafia contemporanea, come hai più volte sostenuto, resta monotematica, precaria e mancante di un progetto complessivo. Quali sono esempi di pratiche antimafia oggi che recuperano invece un approccio di classe?
Si sono formate nuove associazioni legate alle vittime di mafia, in primo luogo a La Torre, Falcone e Borsellino. Nel 1995 è nata l’associazione Libera, con lo scopo di unificare l’associazionismo antimafia, partendo però con il piede sbagliato. Con il gruppo Abele di Torino i promotori erano soggetti più o meno politicizzati, come l’Arci, le Acli, la Sinistra giovanile, e il primo nucleo si è formato con le sezioni locali di queste organizzazioni a prescindere dal loro effettivo impegno antimafia. I referenti regionali sono stati nominati, non eletti, e in Sicilia è toccato a una rappresentante delle Acli che non si era mai vista prima. Poi è stata rimossa perché si è candidata con Forza Italia. Il Centro impastato ha aderito in un secondo tempo e ha cessato di farne parte per problemi di democrazia interna indotti da una gestione di tipo carismatico.
Bisogna dire che, nel vuoto lasciato dalla fine delle lotte contadine, la società civile ha avuto un ruolo positivo con le attività nelle scuole, l’antiracket, l’uso sociale dei beni confiscati. Con tutti i problemi che più volte ho indicato: l’educazione alla legalità come contenitore generico per iniziative sporadiche e rituali, affidate a un singolo referente; il vuoto o la stereotipicità dell’analisi; la rappresentazione mediatica delle vittime più note. Ad esempio, il Peppino impastato protagonista del film I cento passi ha poco a che fare con il Peppino storico. L’antiracket si ferma alle regioni meridionali nonostante che estorsioni e usura siano diffuse in tutto il paese; l’uso sociale dei beni confiscati deve confrontarsi con una pratica burocratica che comporta più problemi che soluzioni. I recenti “casi” riguardanti personaggi che passavano per antimafiosi in prima linea, si spiegano con una concezione dell’antimafia come camuffamento e affarismo, indotto dall’industria degli incarichi e dalla circolazione dei fondi.
Penso che un “approccio di classe” debba soprattutto fondarsi sul contesto sociale che ho definito mafiogeno, per l’inconsistenza dell’economia legale, la povertà materiale ed educativa, la condizione giovanile: ragazzi che agiscono in gruppo, come embrioni di mini gang, e considerano l’aggressività e il vandalismo come tirocinio all’affiliazione mafiosa. La “questione giovanile” è decisiva in una strategia che tolga futuro alle mafie. Bisogna operare sul territorio, creare servizi e spazi di aggregazione. Il No mafia Memorial vuole legare memoria e progetto di mutamento. Non essere solo un museo.
*Umberto Santino fondatore, con Anna Puglisi, e direttore del Centro Impastato di Palermo, il primo centro studi sulla mafia sorto in Italia (1977) e ideatore del Memoriale-Laboratorio della lotta alla mafia – No mafia Memorial. È autore di vari saggi, tra cui ricordiamo: L’omicidio mafioso (1989), L’impresa mafiosa (1990) e Dietro la droga (1993) con Giovanni La Fiura, La borghesia mafiosa (1994), L’alleanza e il compromesso (1997), La democrazia bloccata (1997) , La cosa e il nome (2000), Storia del movimento antimafia (2000-2009), Dalla mafia alle mafie (2006), La mafia dimenticata (2017), con Anna Puglisi: La memoria e il progetto (2020). Martina Lo Cascio sociologa all’Università di Padova, si occupa di Supermarket Revolution, lavoro e agricolture. È attivista di Contadinazioni e FuoriMercato autogestione in movimento
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.