
La Valle nel paese del «sovranismo psichico»
L'importanza del movimento No Tav va ben oltre il chiacchiericcio dei partiti e gli equilibrismi di governo: è un esperimento politico e un antidoto alle passioni tristi che popolano l'Italia
Nell’Italia che assume «i profili paranoici della caccia al capro espiatorio» e che vive la fase che il Censis con la consueta sintesi furba ma efficace definisce del «sovranismo psichico», verrebbe automatico associare le decine di migliaia di persone che si ritroveranno oggi a Torino ai tanti che, per restare alla metafora coniata dagli estensori del rapporto, si sono ritirati a difender la propria trincea di passioni tristi: di fronte al declino ci si aggrappa alle piccole cose che ci circondano. Ma una semplificazione del genere, che sicuramente troverete nei salotti televisivi e nei corsivi di alcuni dei giornali della domenica, è funzionale a mettere il corteo No Tav di oggi a Torino nel teatrino autoriferito della politica, nel balletto tra maggioranza e opposizione o nel giochino del governo che si fa opposizione da solo in supplenza di altre voci in parlamento. Addirittura, secondo questa lettura, la piazza di oggi sarebbe il contraltare di quella di Salvini a Roma, un pezzo della dialettica di governo tra gialli grillini e neri leghisti. Del resto, come spiegava qualche giorno fa su queste pagine lo storico francese Gérard Noiriel a proposito dei “gilet gialli”, il potere da sempre traduce le rivolte dei subalterni secondo il proprio linguaggio.
Ma il mescolamento tra culture politiche, tra sfera universale e locale, tra saperi e pratiche, tra luogo e flussi della Valsusa è impossibile da esprimere con le parole del potere. Di più: nella sua storia è entrato, sempre, in conflitto con la politica dei partiti. Che si tratti di quelli tradizionali o delle macchine propagandistiche e rastrella-voti più recenti, nessuno alla lunga ha retto il confronto con quello che i valsusini producono con prassi radicalmente democratica. Dopo aver visto passare le carcasse dei partiti della prima repubblica, aver conosciuto l’ascesa e declino di quelli della cosiddetta seconda (il fallimento della sinistra del centrosinistra si misurò anche da queste latitudini), adesso i No Tav si ritrovano a fronteggiare l’inquietante coalizione del sedicente governo del cambiamento. Ne sottolineano, a volte implicitamente altre con sonore prese di distanza, i limiti e le contraddizioni.
Nei giorni scorsi Wu Ming 1 ha sottolineato quanto sia mendace l’equivalenza tra No Tav e M5S che i grandi media stanno costruendo. Persino Beppe Grillo sa bene che la sostanza è molto diversa. Il fondatore del M5S ha avuto fin dall’inizio gioco facile a sventolare la bandiera No Tav e farne ulteriore strumento polemico contro gli interessi della «politica» tutta. Come spesso capita, i fatti sono più complessi: la storia di queste terre e le dinamiche reali dei movimenti hanno imposto ai 5 Stelle scelte insolite, li hanno costretti a spogliarsi di quella specie di «impermeabilità» verso gli altri che ne caratterizza da sempre l’azione in tutto il resto del paese, soprattutto da quando la scelta di competere alle elezioni lo ha trasformato da federazione di gruppi locali e movimento d’opinione a efficiente macchina elettorale. Ecco perché, ad esempio, l’altro giorno gli esponenti locali del M5S che hanno partecipato alla presentazione del corteo torinese hanno specificato di essere «No Tav in prestito alla politica». Prima viene l’appartenenza al movimenti, poi il simbolo del M5S.
Il governo gialloverde ha assunto toni xenofobi che contraddicono alla radice l’esperienza di queste genti di frontiera, abituate a valicare i confini e a farli oltrepassare, aduse alla disobbedienza civile nelle tante forme che si ritengono utili di volta in volta. L’esecutivo Di Maio-Salvini approva leggi che criminalizzano ulteriormente le lotte. In Val di Susa non c’è spazio per il feticismo della barricata in fiamme fine a se stessa ma i No Tav sono andati ben oltre la retorica della nonviolenza, che troppo spesso dalle nostre parti è stata un paravento per impedire di manifestare dissenso.Va anche detto che ci voleva una dose di idiozia non indifferente per pensare di contrapporgli il mito reazionario della marcia dei quarantamila, della borghesia grande e piccola che scende in piazza per restaurare l’ordine. Ne occorreva, di cretinaggine e mancanza di senso storico, ma il Pd è riuscito a stupirci ancora una volta.
Il M5S, da par suo, vorrebbe delegare ogni decisione alla verifica del rapporto tra costi e benefici. Ma non sarà una relazione tecnica di cui si parla nel contratto di governo tra Lega e M5S a sbrogliare la matassa. Rifiutare il Tav assieme al modello di sviluppo cui esso è legato, le dinamiche decisionali e le concatenazioni di interessi che rappresenta, non riguarda una scelta ragionieristica. Anche se dagli studi presentati in questi anni sappiamo come le cifre e i dati portati a favore della grande opera siano ampiamente campati in aria, un’analisi costi-beneficinon ha la forza di cavare d’impaccio Toninelli e invertire la rotta. Abbiamo già visto come le promesse elettorali si siano sgretolate di fronte all’ipotesi di una penale da pagare nel caso del Tap o alla storiella del contratto ormai firmato di Ilva a Taranto. Un altro artificio tecnico dovrebberendere giustizia ad un movimento che già da anni ha dovuto fare i conti col violento paradosso dei discorsi del potere. L’onere della prova non spetta a chi comanda, non è richiesto a chi vorrebbe costruire la grande opera di dimostrarne la necessità. Al contrario, è chi vi si oppone che ha il compito di argomentare l’inutilità della stessa per fermare la distruzione dispendiosa che la accompagna. Il movimento No Tav da anni si è sobbarcato questa fatica, riuscendo a produrre conflitto e seminare spirito critico.E ancora una volta sottolinea un limite della politica. Che in nome dell’imparzialità vorrebbe fare i conti proprio con quanto è situato, di parte, tutt’altro che neutrale.
David Harvey riconosce alcune condizioni nelle lotte per il diritto alla città. Le prime due sono le condizioni per riconoscere la terza: la consapevolezza che ogni conflitto ha bisogno di appoggio popolare e che il lavoro vada inteso oltre la sua «limitata» forma industriale nella sua forma ampia e diffusa sul territorio della produzione e della riproduzione sociale ci conducono a individuare nelle lotte contro lo sfruttamento anche la capacità di produrre e ridisegnare i luoghi. Tutto il contrario della conservazione. Queste caratteristiche si riproducono in Valle, nei suoi rapporti con la città e nella sua capacità di ricostruire e federare diversi luoghi.
Non sappiamo se la Val di Susa vincerà nel breve periodo e una volta per tutte la sua battaglia. Quello che possiamo dire con certezza è che dalla Valle non si può prescindere. Non significa che lotta quasi trentennale si debba prendere come modello assoluto da esportare altrove. Troppo peculiari sono le caratteristiche di quel territorio, di quella composizione e diremmo anche di quella vertenza per pensare di farne un calco politico da utilizzare in altri territori. Più semplicemente, dalla Valle non si può prescindere perché in questi decenni di sgretolamento di blocchi sociali e forme politiche consolidate, tutti i potenti hanno dovuto fare i conti con l’ostinazione di uomini e donne di quel territorio e con tutti quelli che gli sono stati solidali.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.