
Lo Spirito di Dunkirk e il mondo del benessere
La storia del dibattito sulla povertà dice chiaramente che, oltre a promuovere l’uguaglianza, uno stato sociale realmente efficace dovrebbe promuovere anche l’idea di una società radicalmente nuova, contro il mercato
A seguito del sensazionale successo del libro Il capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty (non meno di 2 milioni e mezzo di copie vendute in tutto il mondo), la disuguaglianza è ora largamente percepita, per citare Bernie Sanders, come «la grande questione morale dei nostri tempi». Chiaramente, questa evoluzione è parte di una più grande trasformazione della politica americana ed europea, seguita alla crisi del 2008, che ha messo l’“1%” dei più ricchi al centro di attenzione sempre maggiore. In questo momento, Il Capitale di Marx è tra i titoli più venduti della sezione “free enterprise” del Kindle store, Jacobin è considerato un ambito rispettabile in cui pubblicare, e il socialismo non sembra più un gruppo rock fallito, che cerca di salire sul palco quando la “festa” è già finita. Al contrario, se dobbiamo credere a Gloria Steinem, un comizio di Bernie Sanders è oggi “dove bisogna essere”, persino “per le ragazze”.
A uno sguardo più attento, tuttavia, non è del tutto chiaro quanto questa attenzione per la disuguaglianza (e specialmente per la disuguaglianza di reddito) assomigli realmente alla teoria dello stesso Marx, o alle idee che hanno dominato i dibattiti socio-politici nei decenni che hanno seguito la Seconda Guerra Mondiale. In effetti, si potrebbe persino sostenere che la nostra attenzione attuale per le disuguaglianze di reddito e ricchezza, pur essendo centrale per qualsiasi programma progressista, finisca tuttavia per restar priva di alcuni degli aspetti più importanti della critica ottocentesca del capitalismo. In quell’epoca, “disuguaglianza economica” era un termine vago, al più secondario. Difatti, la “monetizzazione” della disuguaglianza è un modo in realtà relativamente recente di vedere il mondo – e, aldilà dei suoi indubbi punti di forza, è anche un punto di vista che, come ha notato lo storico dell’Università di Cambridge Pedro Ramos Pinto, ha considerevolmente “ristretto” il modo in cui pensiamo alla giustizia sociale.
La parola mancante nel Capitale
La maniera migliore di misurare questa differenza potrebbe essere semplicemente quella di guardare a uno degli stessi classici del socialismo: Il Capitale (quello originale!). Per quanto possa risultare sorprendente, il termine “disuguaglianza” di per sé non ha mai rappresentato una categoria cruciale per Marx, o per i socialisti del diciannovesimo secolo, a dirla tutta. Curiosamente, a seconda della traduzione, la parola stessa, compare in ogni caso meno di cinque volte nel voluminoo capolavoro di Marx.
La nostra stessa idea di disuguaglianza come qualcosa che si misura con la dispersione del reddito o della ricchezza tra le persone, piuttosto che tra fattori della produzione come lavoro e capitale, divenne comune solo decenni dopo la morte di Marx, avvenuta nel 1883. Come ha sostenuto sul suo blog l’economista Branko Milanovic, tra i massimi esperti di disuguaglianza economica, per molto tempo non aveva semplicemente senso pensare alla disuguaglianza in termini personali, se si poteva assumere che «tutti i lavoratori guadagnano al livello di sussistenza, tutti i capitalisti sono ricchi, tutti i proprietari terrieri anche più ricchi». Fino al tardo Ottocento, nessun pensatore aveva avuto l’idea di classificare ogni singola persona in base al suo reddito totale per misurarne la distribuzione. Allora, ciò che contava era la differenza tra classi, anziché tra individui. È solo con il lavoro del sociologo ed economista italiano Vilfredo Pareto (in seguito simpatizzante del fascismo) che gli strumenti adeguati a misurare la disuguaglianza come la intendiamo oggi emersero realmente.
Ovviamente, Marx pensava che il capitalismo fosse un sistema che allocava le risorse della società in un modo drammaticamente diseguale. Nel celebre capitolo 25 del Capitale nel quale si occupa della “legge di accumulazione capitalistica”, il filosofo scrisse che «L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale». Allo stesso modo, Marx pensava che il capitalismo potesse esistere solo in una società in cui «due tipologie molto diverse di possessori di beni devono venire faccia a faccia, a contatto»; da un lato i proprietari dei «mezzi di produzione» e di «sussistenza» e dall’altra «liberi lavoratori», coloro che da vendere hanno solo «il potere del proprio lavoro». In altre parole, il capitalismo presupporrebbe «la completa separazione dei lavoratori da tutta la proprietà dei mezzi coi quali essi possono realizzare il proprio lavoro». Da questa prospettiva, lo stesso capitalismo secondo Marx veniva realizzato sulla base di una disuguaglianza primordiale nell’accesso alla proprietà, ottenuta attraverso una espropriazione violenta che lui definì, com’è noto, «accumulazione primitiva».
Anche qui, tuttavia, Marx pensava ancora alla disuguaglianza in termini di classi prodotte dal capitalismo, anziché in termini individuali. Per Marx, sembrerebbe, il problema non era esattamente come il reddito venisse distribuito tra le persone, ma come il capitalismo stesso tendesse intrinsecamente all’impoverimento dei lavoratori ed alla creazione di una «popolazione relativamente in eccesso di manodopera» (esercito industriale di riserva). In questo senso, come ha osservato Samuel Moyn, è piuttosto chiaro che Marx non abbracciò mai alcun ideale di «uguaglianza distributiva», perché all’interno del capitalismo, questa sarebbe stata sempre «ostaggio del dominio di classe». Piuttosto, Marx cercò di immaginare una società liberata dal mercato.
Certo, l’ideale marxiano non si realizzò mai pienamente in Europa Occidentale o negli Stati uniti, ma la sua analisi delle cause della disuguaglianza, che originavano da una ricca letteratura di pensatori ed economisti ottocenteschi come i francesi Eugène Buret o Charles Fourier, avrebbe avuto un’influenza duratura sul modo di pensare alla disuguaglianza, ben aldilà della cerchia dei marxisti autoproclamati.
La Guerra capitalista contro l’uguaglianza
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nonostante politici e pensatori radicali ritenessero l’uguaglianza un tema fondamentale, nessuno di loro la considerava davvero un problema separato da quello del mercato. Non perché l’uguaglianza fosse una questione secondaria – al contrario. Piuttosto, questo era semplicemente la conseguenza del fatto che la “disuguaglianza” fosse raramente concepita in forma separata dalla questione sul ruolo del mercato nella società.
Questo modo di pensare non era affatto nuovo. Già nel 1841, quando il giornalista ed economista Eugène Buret avanzò una delle prime analisi generali delle cause della povertà all’interno dell’ordine industriale che si stava facendo strada, scrisse che «se la miseria esiste», questa aumenta «allo stesso passo della ricchezza», e cresce «sotto l’influenza delle stesse cause». Per Buret, era chiaro che un ordine economico dominato dal principio del liberalismo economico (il laissez-faire) stesse plasmando una società in cui il costo della «estrema libertà del ricco e del forte» era pagato dalla «servitù del povero e del debole». Il suo libro, intitolato De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France, avrebbe avuto grande influenza, nella misura in cui proponeva la creazione di «istituzioni eque» che cercassero di limitare il principio del laissez-faire e di mettere fine a quella «teoria del lavoro come una merce» che definiva «inutile» e «crudele».
Non dovrebbe dunque sorprendere, oltre un secolo dopo, leggere il sociologo britannico T.H. Marshall sostenere che l’«uguaglianza di base» non può essere «creata e preservata senza invadere la libertà della competizione di mercato». Per Marshall, che non fu mai marxista – sebbene, a differenza di personaggi come Keynes o Beveridge, fosse iscritto al Partito laburista – era chiaro che persino nel corso del ventesimo secolo «la cittadinanza e la classe capitalista fossero stati in guerra».
Il discredito nei confronti del liberalismo economico ottocentesco divenne così profondo che l’idea dell’uguaglianza venne inclusa all’interno del più ampio contesto di un mondo successivo alla fine del laissez-faire. E dunque, quelle istituzioni che costituirono le basi del nostro moderno stato sociale nei fatti si impegnarono, fin dal loro stesso avvio, a limitare la sfera del mercato, al fine di produrre una società più egalitaria. All’interno di questo contesto, per citare Steven Fraser, quello che all’epoca era concepito come «il problema del lavoro» significava «non solo modificare permanentemente le relazioni tra lavoro e capitale, ma nel contempo eliminare l’immoralità dello sfruttamento, la disuguaglianza e l’antagonismo sociale aizzati dalla grande concentrazione di ricchezza, la minaccia alla politica democratica rappresentata dal potere arrogante e dagli sporchi soldi delle aziende, e persino le cause delle guerre imperialiste nel mondo».
Salvare l’anima dell’uomo
Il problema sottolineato da Fraser – estendere il discorso sulle disuguaglianze aldilà degli aspetti meramente monetari – ha anche una dimensione profondamente politica e morale. Per la gran parte dei pensatori progressisti che avevano sperimentato le conseguenze sociali provocate dalla nascita della «società di mercato» nell’Ottocento, creare istituzioni pensate per limitarla era anche un modo di preservare un ordine veramente democratico e una dose di valori genuinamente umani.
Come nota lo storico di Cambridge Tim Rogan nel suo libro The Moral Economists, è solo di recente che le «preoccupazioni per la disuguaglianza» hanno assunto un ruolo centrale negli argomenti contro il capitalismo. In effetti, secondo lui, «per gran parte dell’Ottocento e del Novecento», quello che personaggi come l’economista ungherese Karl Polanyi (celebre per il suo La grande trasformazione), lo storico economico inglese R. H. Tawney o persino il grande storico marxista E.P. Thompson avevano più a cuore era la «desolazione morale o spirituale del capitalismo». Per questi pensatori, la società totalmente piegata al liberalismo economico aveva non solo rimosso la distribuzione della ricchezza dall’ambito della decisione politica, ma anche modificato la natura delle transazioni sociali in quanto tali. L’espansione della sfera economica aveva «rotto» ogni tipo di relazione e legame che non fossero condotti nei termini del «puro interesse personale» del «pagamento in denaro» e «affogato», come ebbe a scrivere Marx, «le estasi più paradisiache di fervore religioso (…) nell’acqua ghiacciata del calcolo egoistico».
Persino l’esperienza del tempo, come mostrato nei lavori dello stesso Thompson, subì un profondo cambiamento nel passaggio alla società industriale. Mentre nelle economie pre-capitalistiche il tempo trascorre, nell’inglese contemporaneo il tempo si spende (to spend time) – e può dunque essere sprecato. Le ore lavorate aumentarono considerevolmente con la rivoluzione industriale – più del doppio rispetto a quelle di un contadino medievale – ma a questo corrispose, all’inizio, anche un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori inglesi, con il grande esodo verso i centri urbani dove la forza lavoro si andava accalcando in condizioni ignobili. Infine, per aumentare la produttività, la stessa qualità del lavoro sarebbe peggiorata considerevolmente: processi di standardizzazione del lavoro come il celebre sistema Taylor trasformarono l’uomo in un mero «accessorio della macchina», come nella celebre resa cinematografica di Charlie Chaplin in Tempi Moderni, dove l’effetto comico è generato dall’assoggettamento di tutto il suo corpo alla temporalità della fabbrica.
Che riguardasse la produzione, il lavoro, o le relazioni umane più in generale, «la società di mercato», come sostenne Polanyi, fu vista come una minaccia alla vita politica democratica dal momento che consentiva al mercato di dar forma all’ordine sociale piuttosto che viceversa. Più che un mero trucco retorico, questa «critica morale» e politica ebbe un profondo impatto su pensatori e decisori politici; lo stato sociale doveva essere più di un semplice strumento redistributivo.
Per questo stesso motivo pensatori come Richard Titmuss poterono sostenere che l’obiettivo di uno stato sociale europeo fosse di inculcare e poi conservare il cosiddetto “spirito di Dunkirk”. Il salvataggio di migliaia di soldati britannici dalla costa francese avvenuto nel maggio-giugno 1940 ad opera di una flotta di centinaia di imbarcazioni civili ebbe un impatto eccezionale sul popolo britannico. Titmuss, scienziato sociale britannico e fondatore dello studio delle politiche sociali (un vero e proprio ambito di studio, distinto nelle università inglesi dalle scienze politiche Ndt), vide in questo spirito i semi di una imminente «società generosa». Come ebbe a scrivere nell’estate del ’40, con Dunkirk, «lo stato d’animo della gente cambiò, e, in una reazione simpatetica, così cambiarono i valori. Se si doveva condividere i pericoli, allora bisognava condividere anche le risorse».
Tuttavia, questo nuovo ordine non riguardava soltanto la semplice redistribuzione, ma la creazione di istituzioni democratiche che avrebbero abolito quelli che il riformatore inglese William Beveridge, per molti versi “fondatore” dello stato sociale britannico, definì i cinque «mali giganti» (bisogno, ignoranza, malattia, squallore, e ozio – nel senso ottocentesco e primo-novecentesco di disoccupazione, ndt) e avrebbero promosso la solidarietà aldilà del contesto di guerra. Dallo stato sociale ci si aspettava dunque che costituisse non soltanto uno strumento potente per l’uguaglianza, ma anche la promessa di una società radicalmente nuova, che chiudesse l’era degli orrori della guerra e dello sfruttamento ottocentesco.
Una nuova forma di proprietà
Lo “spirito di Dunkirk” conferì allo stato un ruolo enorme nel garantire i diritti sociali fondamentali alla sua popolazione (diritti all’assistenza sanitaria, all’istruzione, al lavoro, e via dicendo). Una porzione crescente della remunerazione del lavoro divenne allora socializzata per finanziare piani di protezione sociale su larga scala, e alte aliquote fiscali vennero imposte sui membri più ricchi della società, al fine di finanziare servizi pubblici che avrebbero costituito una nuova “proprietà sociale”. Questa formula, in uso in Francia da fine ottocento, veniva individuata come la soluzione alle minacce di guerra civile che minacciavano una società in cui solo i proprietari vedevano garantiti appieno i propri diritti di cittadinanza. Come dimostrato dal sociologo francese Robert Castel, l’obiettivo era quello di costruire, accanto alla proprietà «privata» esistente, una forma di proprietà «sociale», che avrebbe reso «disponibile anche ai non-proprietari un tipo di risorse che non fosse il possesso diretto di un patrimonio privato, ma un diritto di accesso a beni e servizi collettivi che hanno una funzione sociale».
Come sostenuto da Castel, uno degli aspetti più originali di queste nuove istituzioni di protezione sociale e servizio pubblico era che «questa forma di proprietà non si crea né circola nel contesto di scambi di mercato». Era anche soggetta a un arbitrio democratico. In questo senso, allora, è importante comprendere le istituzioni dello stato sociale come un’estensione dell’imperio democratico, che rendevano la riproduzione degli individui argomento di scelta politica. Ciò rese possibile decidere collettivamente che tipo di umanità la società avrebbe dovuto creare.
Ovviamente, il fatto che queste nuove istituzioni fossero orientate esclusivamente intorno al lavoro salariato finiva per poggiare in modo essenziale sul lavoro non retribuito delle donne nel contesto domestico, sostenuto dagli alti salari con cui in epoca fordista il capofamiglia poteva sostenere l’intero nucleo familiare. Di conseguenza, in misure diverse a seconda dei diversi paesi, questo plasmò un modello di cittadinanza dai connotati significativamente discriminatori per le donne o la forza lavoro immigrata. Tuttavia, in forte discontinuità con i sistemi di assistenza alla povertà ottocenteschi (le celebri poor law al centro degli strali dei riformatori inglesi ottocenteschi), questa nuova e netta architettura doveva essere, significativamente, disegnata contro il mercato, piuttosto che agire ai suoi margini. Soprattutto, la domanda e le lotte per ottenerne l’effettiva universalizzazione si intensificarono nei decenni che seguirono la guerra e lentamente estesero i benefici del sistema a gran parte della popolazione.
Tale visione sarebbe cresciuta progressivamente in Europa (e in misura minore negli Stati uniti) e avrebbe costituito le basi di ciò che Marshall definì la «cittadinanza sociale». Queste istituzioni, secondo Marshall, non avrebbero avuto come obiettivo semplicemente di «abbattere l’ovvia seccatura dell’indigenza negli strati inferiori della società», ma avrebbero assunto «le sembianze di un’azione che avrebbe modificato l’intero disegno della disuguaglianza sociale». «Non è più sufficiente sollevare il pavimento del seminterrato dell’edificio sociale», continuava, «lasciando la struttura superiore così com’è. Si è cominciato a ridisegnare l’intero edificio». Una simile, nuova comprensione del ruolo dello stato venne promossa in tutto il mondo.
Nel 1944, la Dichiarazione di Filadelfia, che ribadì gli obiettivi dell’Organizzazione internazionale del lavoro, affermava che «il lavoro non è una merce», e che «l’estensione della sicurezza sociale» era un obiettivo fondamentale. Nel 1946, l’atto costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità citava «il più alto livello di salute ottenibile come un diritto», e nei tardi anni Cinquanta l’economista svedese Gunnar Myrdal, vincitore del premio Nobel, invocava l’istituzione di un «mondo del benessere» (Welfare World; notare che l’inglese welfare state si traduce letteralmente con stato del benessere, Ndt). Come sostenuto dallo storico e giurista di Yale Samuel Moyn nel suo libro più recente, mentre la decolonizzazione procedeva speditamente, «i nuovi stati nati dalla lotta contro l’impero tendevano a sognare ancora più grande quando si trattava del proprio benessere nazionale, e invocavano ideali di uguaglianza». I primi leader post-coloniali, come l’indiano Jawaharlal Nehru, il ghanese Kwame Nkrumah, o il senegalese Leopold Sedar Senghor, erano impegnati a costruire la promessa del benessere oltre ai confini del mondo imperiale.
Sebbene difficilmente scevro da critiche, l’ideale dell’universalizzazione di queste istituzioni rimase dominante fino alla metà degli anni Sessanta. L’impegno a ottenere l’uguaglianza fu dunque incorporato in maniera forte dentro il più grande contesto generale dei “diritti sociali” e della cittadinanza, piuttosto che attraverso le sole lenti della distribuzione del reddito.
Tuttavia, con l’avvento della cosiddetta “società opulenta” e le illusioni eccessive che questa sostenne riguardo i benefici condivisi della crescita, portò lentamente ad una marginalizzazione della disuguaglianza come questione politica. Nel noto best-seller del 1958, intitolato proprio La società opulenta (The Affluent Society) persino l’economista americano John K. Galbraith notò «l’evidente (…) crollo di interesse nei confronti della disuguaglianza come questione economica». L’incredibile aumento della produzione aveva funzionato, secondo lui, come una «alternativa alla redistribuzione». Ciò che avrebbe catturato l’attenzione pubblica nei primi anni Sessanta era piuttosto la povertà che rimaneva «all’interno dell’opulenza». Il risorgere dell’attenzione per la povertà non avrebbe, tuttavia, portato nuova linfa alle critiche ottocentesche al mercato. Al contrario, avrebbe contribuito a rimodellare radicalmente la visione della giustizia sociale. La grande questione diveniva non più la disuguaglianza, ma la sola povertà.
La svolta della “povertà”
Quando il socialista democratico americano Michael Harrington pubblicò quello che sarebbe diventato il suo libro di maggior successo, L’altra America, nel marzo ’62, l’obiettivo era contestare le premesse delle politiche sociali e delle categorizzazioni adottate dalle politiche sociali del secondo dopoguerra. Secondo Harrington, il cui libro vendette oltre un milione di copie, i poveri americani avevano del tutto «mancato i vantaggi sociali e politici degli anni Trenta» (delle politiche del New Deal rooseveltiano, Ndt). I programmi sociali non erano secondo lui più la soluzione, ma piuttosto diventavano parte del problema. Contro la visione dominante di allora, Harringon sosteneva che le istituzioni dello stato sociale seguite alla seconda guerra mondiale – salario minimo, leggi sul lavoro, gli stessi sindacati – non erano pensati per i poveri, e contribuivano persino alla loro «espulsione». L’”altra” America di Harrington era in verità «oltre lo stato sociale».
Quello che era in principio un resoconto statistico della povertà nella «ricca» America, pubblicato in un numero del 1959 del magazine Commentary (mensile di cultura, espressione della sinistra anti-stalinista americana), si trasformò presto in una critica più profonda di come la povertà era stata concettualizzata dall’ottocento in poi. L’idea divulgata nel libro era che la «povertà» era ora una condizione «specifica», distinta dai problemi del lavoro, della disuguaglianza o del mercato. Questo era un argomento fondamentalmente nuovo, visto che negli anni Cinquanta nessuno veramente pensava ai “poveri” come un gruppo distinto di cittadini, con le proprie dinamiche. Riflettendo il lavoro dell’antropologo Oscar Lewis, Harrington sosteneva che la condizione della povertà fosse come quella di un «estraneo (alien) interno, cresciuto in una cultura radicalmente differente da quella che domina la società». Questo era, secondo lui, il «più importante punto analitico» sostenuto nel libro.
In tal senso, la questione della povertà, nel modo in cui è emersa nei primi anni Sessanta, si sarebbe rivelata qualitativamente diversa dal modo in cui era stata posta nell’Ottocento. Sembrava, in primo luogo, non più intrinsecamente, ma estrinsecamente collegata alla più antica distinzione della relazione capitale-lavoro.
Il problema della povertà veniva separato da quello dello sfruttamento. Non è un caso che le stesse parole sfruttamento, mercato, socialismo, o persino disuguaglianza compaiano a malapena nel volume di Harrington: una chiara discontinuità rispetto ai pensatori ottocenteschi che non trattavano mai questi problemi in modo distinto. Ma ovviamente, se i poveri costituiscono un gruppo che «forma un sistema a parte», quel gruppo rappresenta anche un problema specifico. Da allora, come sostenne l’intellettuale statunitense Dwight Macdonald, «la disuguaglianza di ricchezza non è più, di per sé, necessariamente un grande problema sociale»; «la povertà lo è». Per Macdonald era chiaro che la preoccupazione principale era ora di «garantire un livello minimo» [floor in inglese], a non un sistema come la protezione sociale che, secondo lui, semplicemente perpetuava «le disuguaglianze» mantenendo «i poveri poveri per sempre».
Già nei primi anni Settanta, sia negli Stati uniti che in Europa, l’emergere spettacolare del «problema della povertà» avrebbe fortemente incoraggiato una visione della giustizia sociale concentrata su una concezione monetaria della povertà. In effetti, l’attenzione delle classi dirigenti per un “minimo” sotto il quale nessuno potesse scendere, spinse rapidamente fuori dal tavolo qualsiasi discussione sui massimi da realizzare, o sul ridurre la dipendenza dal mercato. Proposte di reddito minimo garantito e programmi di tassa negativa sul reddito divennero enormemente popolari tra i politici e i partiti di orientamento molto diverso, come un modo di combattere finalmente la povertà e al contempo evitare qualsiasi accenno a grandi piani di intervento macroeconomici e complicati programmi sociali.
Questo periodo vide il fiorire di dibattiti riguardo le definizioni della povertà e dei “bisogni”, che aprirono la strada ad ambiziosi programmi per misurare e comparare i livelli di povertà in giro per il mondo. In Francia, il dirigente pubblico Lionel Stoléru, che aveva studiato l’idea di Milton Friedman di una tassa negativa sul reddito alla Brookings Institution nei primi anni Settanta, offrì un esempio calzante di questo cambiamento. Secondo Stoléru, l’attenzione alla «povertà» era l’unica politica sociale ragionevole all’interno di un sistema di libero mercato. Se si fosse seguita una politica tendente alla riduzione della disuguaglianza, si sarebbe inevitabilmente condizionato «il cuore del dinamismo dell’economia mercato». Un programma specificamente tarato contro la povertà, all’opposto, come sostenuto dallo stesso Friedman, «mentre opera attraverso il mercato», non avrebbe «distorto il mercato, o ostacolato il suo funzionamento», come avevano fatto i programmi di ispirazione keynesiana.
In questa nuova concezione di giustizia sociale, preservare il mercato ed i meccanismi dei prezzi era una preoccupazione centrale. Se i mercati portavano ad un esito indesiderabile, come condizioni abitative scadenti, la soluzione doveva essere ridotta a trasferimenti pecuniari, piuttosto che a servizi pubblici (l’edilizia popolare pubblica) o alla regolamentazione dello stato (calmieri sugli affitti). Come sostenne Friedman in un momento in cui ancora dichiarava di avere «forti tendenze egualitarie», ciò che la gente «solitamente attribuiva ad alloggi scadenti, e dunque al mercato», erano «in realtà i costi sociali della povertà». Il principio generale, allora, era di affidarsi completamente all’«uso del sistema dei prezzi per la distribuzione dei beni», e quando necessario, per «ottenere cambiamenti nella distribuzione del reddito».
Povertà, nel mondo
A livello globale, questa visione della povertà «compatibile col libero mercato» venne diffusa entusiasticamente per mezzo di istituzioni internazionali. Uno dei principali architetti di questa evoluzione fu Robert McNamara. Segretario della difesa sotto John F. Kennedy e Lyndon B. Johnson, venne nominato a capo della Banca Mondiale nel 1968, dopo aver giocato un ruolo decisivo nell’intensificazione della guerra del Vietnam.
Durante la sua presidenza della Banca, McNamara articolò una strategia anti-povertà che si differenziava in modo significativo dalle visioni adottate in precedenza. Secondo McNamara, la povertà poteva essere parte integrante della strategia della Banca Mondiale se si fosse focalizzata non nella redistribuzione fine a sé stessa, ma piuttosto sull’ «aiutare i poveri a raggiungere il loro potenziale produttivo». «La giustizia sociale venne globalizzata e minimizzata», sostiene Moyn, favorendo la creazione di un livello minimo sotto il quale «a nessuno è permesso scendere», eppure in forte opposizione alle narrazioni egalitarie dei leader postcoloniali.
Entro il volgere degli Ottanta, l’approccio di McNamara si era diffuso ad altre istituzioni internazionali. L’Ocse, per esempio, invocava la fine dell’estensione dei programmi sociali, e la fine del fare dell’uguaglianza «un fine in sé stesso», visto che avrebbe dovuto essere considerato nulla più che uno «strumento nella lotta alla povertà». Prima della fine dei Novanta, le Nazioni unite, che nel 1996 lanciarono il primo anno internazionale per lo sradicamento della povertà, erano diventate anche molto attente a strutturare la loro agenda anti-povertà all’interno del più grande obiettivo di creare un «ambiente economico pro-crescita». Ciò implicava, come dichiarato nelle raccomandazioni del World Summit for Social Development, tenutosi nel 1996, la creazione di uno «stabile quadro di politiche macroeconomiche (…) che includerà il controllo dell’inflazione, la liberalizzazione del commercio, la promozione della produzione agricola, la fine dei controlli sui prezzi dei prodotti agricoli, l’incoraggiamento del settore rurale con la rimozione dei vincoli sui mercati del lavoro, come le restrizioni alla mobilità del lavoro, e con l’assicurazione che un sistema di indennità vada a beneficio dei bisognosi».
In realtà, l’implementazione di queste misure «anti-povertà» venne spesso accompagnata da piani di «aggiustamento strutturale, e richieste di privatizzare i servizi pubblici che erano stati considerati, appena pochi decenni prima, come parte integrante di una società più equa. La giustizia sociale sarebbe dunque stata concepita non più come una forma di protezione contro le disuguaglianze generate dalla libera azione del mercato, ma come un intervento mirato a permettere a ciascuno di prendervi parte. La lotta contro la povertà aveva dunque funzionato principalmente come una politica di gestione delle disuguaglianze crescenti, piuttosto che un tentativo di limitare quelle stesse disuguaglianze. Non deve sorprendere, dunque, che questa divenne il tipo di politica sociale prediletta nell’età neoliberale in cui ci troviamo a vivere.
In quest’ottica, gli avvenimenti degli anni Settanta hanno costituito più che una semplice messa ai margini delle analisi connesse alla disuguaglianza di reddito. È stato lo stesso fondamento di come pensiamo alla disuguaglianza ad esserne stato profondamente alterato. Con l’emergere di un’attenzione mirata alla “povertà”, le critiche al mercato hanno progressivamente cessato di essere parte integrante della nostra visione della giustizia sociale.
La riscoperta della disuguaglianza?
Questa lunga scomparsa della disuguaglianza come tema centrale è stata interrotta, durante il movimento di Occupy Wall Street, dall’impressionante uso dei dati raccolti e “stilizzati” negli anni da economisti accademici come Tony Atkinson, Thomas Piketty o Emmanuel Saez. In effetti, la stessa entità della disuguaglianza era nota da tempo; eppure, come notato di recente su The Nation da Atossa Araxia Abrahamian, «non teneva svegli la notte molti ricercatori».
Il successo dello slogan «Siamo il 99%» ha cambiato il sentimento e catturò l’immaginazione pubblica, creando le condizioni per l’attuale interesse, quasi una moda, verso la disuguaglianza. Tuttavia, come sostenuto da Ramos Pinto, questo non significa necessariamente una rottura rispetto all’attenzione sugli aspetti quantificabili ed economici della disuguaglianza. Al contrario, mentre il focus sulla disuguaglianza rappresenta un miglioramento rispetto a quello precedente sulla povertà, comporta comunque una riduzione del nostro orizzonte alle «caratteristiche personali» e alla loro «relazione con il potenziale di mobilità di reddito», piuttosto che guardare a categorie e relazioni più politiche. Come scrive sempre Ramos Pinto nell’articolo citato in apertura, la discussione rimane intrappolata nel focalizzarsi sugli «effetti, anziché ricercare le cause».
La sfida che ci troviamo di fronte diventa dunque come dovremmo preoccuparci della disuguaglianza? In effetti, a seconda di come la concettualizziamo, le soluzioni che potremmo immaginare sarebbero molto diverse. Se ci fossilizziamo su una visione ristretta ai suoi effetti, e quindi incentrata sulla mera disuguaglianza di reddito, potremmo aumentare l’uguaglianza riducendo la distanza tra ricchi e poveri.
Tuttavia, lo si potrebbe perfettamente ottenere senza avere conseguenze sul mercato stesso, mirando semplicemente a migliorare le opportunità di mercato per tutti, per rendere possibile alla gente di tirarne fuori il massimo. L’unica differenza sarebbe che in questo caso il ricco non sarebbe in grado di spendere milioni di dollari in cessi d’oro massiccio. Il che rappresenterebbe di certo un mondo migliore, ma pur sempre un mondo in cui tutti dipendiamo dal mercato per acquistare i beni di cui abbiamo bisogno o voglia; un mondo dove la partita economica rimane spietata, ma dove nessuno di noi dovrebbe temere la deprivazione materiale. Non esattamente lo “spirito di Dunkirk”. Nessuno dei pensatori socialisti ottocenteschi, in effetti, avrebbe immaginato mai un mondo di tal fatta, credendo fortemente che la disuguaglianza fosse una conseguenza proprio del liberalismo economico.
Un mondo del genere sarebbe di gran lunga differente da uno dove l’uguaglianza fosse ottenuta principalmente per via della de-mercificazione e democratizzazione di beni come l’assistenza sanitaria, il trasporto pubblico, l’energia, e via dicendo; un mondo che, socializzando e garantendo l’accesso agli aspetti più importanti della nostra esistenza, ridurrebbe la dipendenza dal mercato e di conseguenza attaccherebbe alla radice la fonte da cui la disuguaglianza origina. Per lungo tempo, un simile progetto non è stato considerato scandalosamente utopico, persino dai più radicali dei riformatori. Al contrario, per molti di loro una politica progressista non riguardava soltanto il miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori, ma soprattutto fornire la promessa di una società più democratica ed umana. Ed era senza dubbio questa promettente visione del futuro che spinse nel dicembre ’43 migliaia di persone a mettersi in fila al freddo per acquistare una copia dell’asciutto documento tecnico noto come il “Rapporto Beveridge”, che vendette non meno di 635 mila copie.
Ci si potrebbe chiedere, certamente, perché dovremmo chiedere di più che ridurre le disuguaglianze economiche in un’epoca in cui persino questo obiettivo modesto sembra di impossibile realizzazione. Eppure, all’indomani della “fine della storia”, la sfrontatezza ideologica è tornata prepotentemente di moda – perlopiù in vesti destrorse e xenofobe. In questo grande cambiamento, la sinistra dovrebbe trascendere il suo attuale, ristretto impegno a ridurre la disuguaglianza economica, e proporre una visione più coraggiosa, di un mondo che vada oltre l’utopia del mercato. La forza delle “grandi idee” è che non mirano semplicemente a rimescolare qualche carta, ma a cambiare alla radice le regole del gioco. «In un momento rivoluzionario nella storia del mondo – notava Beveridge – è tempo per fare rivoluzioni, non per mettere qualche pezza».
*Daniel Zamora è sociologo, attualmente post-doc all’Università Libera di Bruxelles e a Cambridge. Qui l’articolo originale su Jacobin.mag. Traduzione Giacomo Gabbuti.
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