L’occasione Landini per la Cgil
Autonomia dalla politica, nuovo mutualismo, ancoraggio alla classe e democrazia partecipata. Ma le sfide del nuovo leader dovranno fare i conti con la struttura materiale e le scelte storiche del più grande sindacato italiano
La Cgil ha una opportunità che non durerà a lungo, ma ce l’ha. Maurizio Landini è stato eletto segretario con uno scontro interno che è giunto ai limiti di rotture personali e politiche irreversibili, ma che alla fine è stato risolto con una soluzione unitaria, di vertice, ma accettata e credibile. Dal momento in cui ha preso la parola come segretario generale, però, l’ex leader della Fiom ha fatto di tutto per lasciare alle spalle lo scontro interno e indicare alla Cgil la strada per recuperare credibilità nel mondo del lavoro e per tornare a essere un’organizzazione vitale.
L’effetto si è avvertito subito, già nella sala della Fiera del Levante, a Bari, che ha ospitato, tra delegati e invitati, circa 1.500 persone, rinvigorite dai richiami di Landini alla Costituzione, la Resistenza, l’antifascismo e l’antirazzismo e alla necessità di un sindacato che si ponga l’obiettivo della trasformazione sociale.
Landini ha utilizzato anche lo slogan “Proletari di tutto il mondo unitevi”, indicato non come un reperto novecentesco ma come un orientamento per il domani. Insomma, sin dalle prime parole pronunciate come segretario generale Landini ha fatto il… Landini. Pronunciando parole come “sono innamorato della Cgil e voglio bene a chi per vivere deve lavorare”. Un vincolo di classe inusuale nel linguaggio burocratizzato della Cgil, ma soprattutto un linguaggio credibile se udito da una figura come Landini, al netto della retorica di certe frasi.
La forza del personaggio, e l’opportunità che si apre alla Cgil, è tutta qui, in fondo. Nella credibilità personale, nel mettersi sulla lunghezza d’onda e sulle condizioni di vita dei lavoratori, sul farsi percepire come “uno di loro”. Da qui l’insistenza sulla centralità dei delegati “senza i quali la Cgil non esisterebbe”. È questa cifra che ha indispettito l’area interna che si è opposta alla sua candidatura e che gli è valsa l’accusa di “populismo”, respinta seccamente nel discorso conclusivo. Quello stile, del resto, lo ha messo al passo con il tempo presente e ha portato dentro la Cgil una ventata di novità che potrebbe esaurirsi anche rapidamente, fagocitata dall’elefantiaca dimensione di una struttura che anche per questo ha difficoltà finanziarie. Oppure potrebbe essere colta come l’occasione di una ripartenza per un nuovo protagonismo.
Per cogliere meglio questa dialettica tra opportunità e rischio di paralisi è utile entrare nel dettaglio delle possibilità che Landini offre alla Cgil, ma anche ripercorrere i motivi di crisi del sindacato per capire se alla fine prevarranno più le prime o i secondi.
La carica politica
Landini, innanzitutto, offre alla Cgil una precisa personalità politica. Non perché ne voglia o possa fare uno strumento della politica, anzi. Se c’è un nodo politico che spiega la sua alleanza, imprevedibile e innaturale, fino a qualche tempo fa, con la segretaria uscente, Susanna Camusso (ex socialista, espressione dell’area “riformista” della Cgil, contro quella dei “massimalisti” di Claudio Sabattini o Fausto Bertinotti, per intendersi) è proprio la rivendicazione del concetto di “autonomia”. In primo luogo dalla politica. Se questa rivendicazione era ciò che distingueva la Fiom, la federazione dei metalmeccanici, e che questa rinfacciava alla Cgil già negli anni Novanta, ma poi fino al 2015, la rottura che si è verificata tra il sindacato e il Pd sulla “riforma” del mercato del lavoro provocata dall’ex segretario democratico Matteo Renzi (il Jobs Act) e sul referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, ha prodotto una lacerazione impensabile quando vigeva la collateralità tra partito e sindacato.
Chi si intende molto di vita della Cgil spiega che la divisione in questo congresso tra Maurizio Landini e Vincenzo Colla – lo sfidante di Landini, espressione della pragmatica Cgil emiliana – è nata quando la Cgil ha deciso di votare No al referendum di Renzi. “Allora si è aperta una distinzione – spiega il nostro autorevole interlocutore – che alcuni rappresentanti dell’area riformista hanno definito ‘strategica’”. Si trattava, con quella scelta, di sganciare la Cgil dal Pd, come si è visto nelle piazze e poi nel voto costituzionale. Se si considera che una volta presa la guida del sindacato, Susanna Camusso, nel 2013, schierò senza esitazioni la Cgil a fianco del Pd di Pierluigi Bersani, candidato alla guida del governo in quelle elezioni, si può cogliere il salto d’epoca.
L’autonomia subita ma poi anche voluta – anche se la Cgil ha cercato di trovare nell’esperienza di Liberi e Uguali una nuova sponda politica, illudendosi sulle chanches di quella alleanza elettorale – spiega l’avvicinamento tra Camusso e Landini. Su questa linea il neo-segretario non farà che insistere ancora di più e paradossalmente conferirà al suo sindacato un ruolo ancora più politico perché presiederà tutti i temi in agenda, senza alcuna divisione dei ruoli tra “sociale” e “politico”.
Lo ha fatto immediatamente caricando la manifestazione unitaria con Cisl e Uil del 9 febbraio di una valenza politica contro il governo, soprattutto sul tema degli immigrati, proponendosi già come un possibile “anti-Salvini” che un ampio fronte di elettori di sinistra finora non hanno potuto trovare sulla scena pubblica.
Il rinnovamento interno
La conclusione unitaria del congresso e i ripetuti richiami alla “mescolanza” interna non devono ingannare. Lo scontro che si è verificato avrà ancora degli strascichi soprattutto se è vera l’altra promessa che Landini ha intenzione di onorare, il rinnovamento generazionale e di genere. “Non dobbiamo più pensare che nella Cgil i ruoli possono essere solo di crescita gerarchica. Il lavoro sindacale deve essere in mezzo agli altri”. Un sindacato meno burocratizzato e maggiormente in grado di sporcarsi le mani? Forse. Landini parla però, per la prima volta in Cgil, di “sindacato delle origini” di funzione storica delle Camere del lavoro, di nuovo mutualismo dando molta enfasi al “sindacato di strada” sperimentato dalla Flai, la Federazione dei lavoratori agricoli, che invece di restare chiusa nelle proprie sedi è andata in strada, appunto, a cercare di organizzare i braccianti. Accanto a queste indicazioni c’è l’insistenza sul ruolo dei delegati. Fosse stato per lui la contesa sulla segreteria si sarebbe risolta convocando una grande assemblea di tutti i delegati dei posti di lavoro – diverse migliaia – a cui far prendere la decisione. Non è detto che non accada.
Si tratta di obiettivi che, se realizzati davvero, offrirebbero un volto diverso della Cgil nella quale non si riesce ancora a capire che la perdita di credibilità del sindacato non è tanto nell’incapacità di ottenere risultati (anche questo) quanto nell’apparire al pari di una “istituzione” statuale, nemica dunque di chi non arriva alla fine del mese o non riesce a far valere un diritto.
Se, invece, la Cgil sperimentasse forme nuove di democrazia partecipata – assemblee di delegati che decidono sulle linee fondamentali -, forme nuove di lavoro sindacale a stretto contatto con i lavoratori e con funzionari che si mettano a disposizione di questi, si aprirebbe un varco che anche giovani generazioni potrebbero aver voglia di attraversare. E si aprirebbe una discussione diversa sul tema della democrazia e della rappresentanza. Nel tempo della crisi delle forme tradizionali della politica, la democrazia sarebbe uno strumento di partecipazione e anche di militanza, tramite il quale, attivando la partecipazione, si riattiverebbe l’azione diretta di collettivi sindacali che oggi invece latitano e che conferiscono una delega, pressoché assoluta, a funzionari e rappresentanti sindacali. Anche l’insistenza sulla legge per la rappresentanza dei lavoratori, cavallo di battaglia già della Fiom e ora della Cgil, dovrebbe andare in questa direzione.
Contrattazione e nuove figure
Secondo Landini “alla fine la divisione di fondo è sempre una: da una parte chi è sfruttato e dall’altra chi sfrutta”. Affermazione classista diventata con il tempo atipica in bocca a un dirigente sindacale. Così come l’altra affermazione che ricorda a tutti che nel “nostro programma c’è la volontà di trasformare la società, non in un domani, ma ora”.
La rappresentanza di classe deve, ovviamente, fare i conti con la classe così come è, se vuole essere efficace. Questa è un’altra opportunità vista l’insistenza sulla riforma della contrattazione da adeguare all’attuale composizione di classe. Landini la dice in termini semplici: “Dare gli stessi dritti a coloro che fanno lo stesso lavoro a prescindere dal contratto che hanno”. Si tratterebbe di analizzare a fondo le filiere produttive, indagare il rapporto tra produzione e circolazione e quindi tra industria e servizi, di avanzare richieste e parole d’ordine che unificano ciò che il capitale divide. Un tema quasi completamente rimosso negli ultimi vent’anni con le categorie della Cgil ognuna gelosa del proprio recinto e delle proprie prerogative.
Lo sforzo della Cgil su questo punto c’è stato e per ragioni varie non è ancora stato apprezzato. La Carta dei diritti, ad esempio, “il nuovo Statuto di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici”, cerca di cogliere il nodo dell’universalità con una affermazione chiara: “Qualunque lavoro si faccia, in qualunque modo si svolga la propria attività, qualsiasi contratto si abbia, questi diritti saranno sempre riconosciuti e accessibili”.
Su questo documento sono state raccolte le firme per una legge di iniziativa popolare e, nonostante questa iniziativa di democrazia partecipata, il tema non forma ancora la fisionomia della Cgil. Su questo ci sarà molto da lavorare per Maurizio Landini. Ma la discussione è utile anche a chi è fuori dalla Cgil se non altro perché spinge a discutere sulla composizione del lavoro e sul suo rapporto con le nuove tecnologie e con le modificazioni dell’industria, soprattutto in relazione al mercato globale.“Abbiamo bisogno di mescolare” il mondo del lavoro, dice Landini, e questo dovrebbe costituire l’anima del sindacato confederale.
Quindi, autonomia dalla politica e ruolo attivo del sindacato, ritorno alle origini e nuovo mutualismo, contrattazione, ancoraggio alla classe, democrazia partecipata. Queste sono le opportunità che si aprono.
Le contraddizioni interne
Ma tutto questo si scontrerà con una Cgil che da decenni è disabituata alla durezza che il capitale impone allo scontro di classe. Che ha preferito adattarsi ai “sacrifici”, alle compatibilità, che si è fatta ancella della politica e dei governi di centrosinistra a partire dagli anni Novanta. Una Cgil che ha modificato anche la propria composizione burocratica conferendo sempre maggior importanza a organismi vincolati all’impresa come gli enti bilaterali – gli enti che gestiscono la formazione professionale o il welfare aziendale finanziati direttamente da quote di salario e su cui si contano in Italia circa diecimila incarichi retribuiti, appannaggio dei tre principali sindacati confederali – o ai patronati che ricevono un finanziamento statale di circa 400 milioni di euro l’anno. Il sindacato istituzionale è soprattutto quello che deve la propria esistenza al riconoscimento da parte delle imprese e da parte dello Stato e che ha allentato i vincoli con la propria base sociale. Le quote dei lavoratori non bastano a sostenere l’ampio numero dei funzionari, l’attività politica, le sedi e tutto quello che comporta una diffusa attività sindacale. Si tratta di una contraddizione materiale con cui è bene fare i conti fino in fondo.
E che spiega una ormai consolidata cultura sindacale che ha introiettato le ragioni del mercato e delle compatibilità. Dopo la “politica dei sacrifici” inaugurata con la “svolta dell’Eur”, la conferenza sindacale dei delegati in cui l’allora segretario Luciano Lama, esponente dei “riformisti” del Pci, fece passare la linea della “moderazione salariale”. C’è poi stata la svolta del ’91-’92 quando la Cgil, sotto la guida di Bruno Trentin, accettò la soppressione della scala mobile. In mezzo c’era stata la battaglia sui punti di contingenza aboliti dal governo Craxi nel 1984 e il referendum del 1985 che segnò una sconfitta epocale per la classe operaia italiana. Ma sono molteplici le fonti che spiegano la scarsa convinzione di Luciano Lama su un referendum voluto soprattutto dal Pci sia pure con una divisione interna. E dopo la scala mobile, la Cgil negli anni Novanta scommette sui governi di centrosinistra, il primo Prodi del 1996 ma anche il secondo nel 2006, venendo trascinata giù dalla delusione che le politiche liberiste di quelli provocheranno.
Tutto questo rappresenta la “costituzione materiale” della Cgil e da questa cultura non sarà facile uscire fuori. Ci vorrà una solida cultura di classe, ma anche un dibattito politico all’altezza e una rivisitazione delle scelte storiche.
Terzo elemento di freno all’azione che Landini potrebbe imprimere alla Cgil è lo scontro interno. Una fetta consistente della Cgil, o almeno del suo gruppo dirigente, mediterà una rivincita e le leve per poterla ottenere sono molteplici. Un rapporto stretto con la classe padronale che quasi tutti i dirigenti anti-Landini hanno consolidato nei propri contratti di categoria; una attenzione privilegiata alla ricomposizione in corso nel Pd – sempre che avvenga – e che si nota con i molteplici segnali di attenzione che, ad esempio, l’ex (?) renziano Maurizio Martina, uno dei tre contendenti alla segreteria nelle primarie di marzo, ha lanciato al congresso; le difficoltà finanziarie con cui la Cgil dovrà fare i conti e che potrebbero mortificare gli slanci di rinnovamento.
Resta il dato di una novità con cui è bene fare i conti e che occorre anche incalzare senza atteggiamenti di presunzione. La Cgil ci ha abituato a grandi sconfitte in genere seguite a grandi entusiasmi. Resta però la più grande concentrazione di lavoro organizzato e se il suo dibattito recupera uno spirito di classe non si può che osservare con attenzione.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
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