
Nella catena delle Feltrinelli
Parla uno dei lavoratori delle librerie del grande gruppo in sciopero per ottenere 1,50 euro di aumento del buono pasto. «Non è solo una questione di salario ma di riconoscimento del nostro lavoro: qui decide tutto il software interno»
Alla Feltrinelli lavoratori e lavoratrici si mobilitano e il 17 marzo hanno organizzato il loro primo sciopero nazionale, particolarmente riuscito. Una lotta atipica, non si vedono molti dipendenti delle catene librarie scendere in piazza contro l’azienda. Anche perché il settore non è particolarmente in forma, i libri hanno un andamento fluttuante ma da qualche anno, dopo il Covid, hanno iniziato a segnare una discesa costante. Eppure nel 2023 Feltrinelli ha registrato 511 milioni di ricavi, in crescita del 2,6%, con un margine operativo lordo di 25,1 milioni e un utile operativo positivo di 2,1 milioni. Non si tratta di cifre paragonabili ai mega-profitti delle banche, ma quel che chiedono lavoratori e lavoratrici è davvero molto poco, un ritocco al buono pasto. Eppure, come emerge dalla nostra intervista ad Andrea (nome di fantasia), uno dei librai della catena, in questa vertenza c’è in ballo anche il modo di instaurare i rapporti all’interno della catena e nelle singole librerie, un problema di riconoscimento di professionalità, autonomia e dignità del lavoro culturale.
Iniziamo dalla base: quali sono le richieste di questa protesta e quali le concrete ragioni dello sciopero?
Stiamo parlando, banalmente, del rinnovo del contratto integrativo aziendale. La vertenza era cominciata già prima di Natale, quando però, con l’intervento sindacale, è stato evitato lo sciopero durante le feste, periodo notoriamente cruciale per il settore librario, arrivando così fino al 17 marzo. La questione tecnica è l’aumento del Ticket restaurant che vorremmo incrementare di 1,50 euro. L’azienda si dice d’accordo ma vorrebbe spalmare questo aumento su tre anni. Il nostro buono pasto è fermo però a 6 euro, con i quali a Milano non si compra quasi nulla; noi vorremmo invece arrivare subito a 7,50 euro. La differenza è tutta qui.
Quanto è lo stipendio base di un libraio, una libraia Feltrinelli?
Un full-time di quarto livello arriva a 1.500 euro con l’obbligo di almeno dodici domeniche e/o festivi all’anno. Ai contratti part-time viene invece applicato il salario d’ingresso, per cui senza i ticket e senza domeniche e festivi pagati o senza le maggiorazioni del contratto integrativo parliamo di stipendi molto bassi. Ma il problema non è solo il salario, che pure è fondamentale per poter vivere in una grande città. C’è un problema di atteggiamento e di rapporti lavorativi. In Feltrinelli da qualche anno abbiamo un nuovo management che arriva dal mondo della moda a dimostrazione di come il Gruppo stia cambiando. In realtà è già cambiato, almeno dalla fine degli anni Novanta quando fu siglato l’accordo con Ricordi, e partì la stagione dei grandi entusiasmi per le promesse della Grande distribuzione con la costruzione dei grandi Megastore. Luoghi che all’inizio del millennio erano incaricati di «salvare la cultura». E così si è instaurato un metodo commerciale e manageriale che ci ha costretto ad adeguarci alle varie direttive interne, spesso automatizzate. In realtà, abbiamo avuto dirigenti che non c’entrano nulla con la mission dell’azienda e che cercano di modellare il business a linee guida che non c’entrano nulla con il Dna Feltrinelli. Si tratta di direttive che intendono spingere i libri con più alto margine, e secondo le quali gli editori devono aumentare lo sconto alla catena per poter stare dentro i vari spazi. Alcuni dei quali vengono letteralmente venduti ai prodotti diversi dai libri, come penne o astucci.
Siamo arrivati anche a fare le gare interne al gruppo mettendo in competizione le diverse librerie. L’azienda lancia un titolo da vendere il più possibile e chi raggiunge l’obiettivo ottiene non certo aumenti salariali, ma l’accesso a percorsi di welfare aziendale, un modo anche questo per evitare di monetizzare il salario. Sono meccanismi commerciali molto faticosi e che non si accordano con quanto è scritto nei negozi Feltrinelli dove si trova una frase del fondatore, Gian Giacomo: «Il grado di civiltà del nostro paese, dipenderà anche, e in larga misura, da cosa, anche nel campo della letteratura di consumo, gli italiani avranno letto». È una frase che pesa su tutti noi e indica il tipo di cultura a cui ci riferiamo. A noi sembra che l’ambizione iniziale del fondatore sia stata tradita e la passione per il lavoro che facciamo venga interpretata come remissività.
Puoi raccontarci come si lavora in Feltrinelli, quali sono le mansioni e come si concretizza il ruolo del libraio o della libraia?
Si lavora come in una catena, totalmente strutturata e con margini di autonomia sempre più ridotti a cominciare dall’assortimento. Una volta il libraio aveva un margine di libertà, decideva il proprio assortimento sulla base dell’esperienza, dei rapporti con gli acquirenti. Questo è stato spazzato via, con ordini centralizzati a un livello sempre più burocratizzato e oggi addirittura con un buyer intermedio che verifica e controlla. Anche sulle proposte, cioè costruire una locandina con una selezione di titoli su un tema, i margini sono ridotti a zero. Una volta erano fatte in libertà. Adesso è stato inventato un software, Yoobik, sul quale noi dobbiamo fare la nostra proposta, proponendo però un titolo guida di riferimento mentre una figura anonima dall’altra parte del terminale decide se può andare oppure no. La nostra capacità di fare proposte è stata ampiamente ridotta nonostante avessimo avuto anche un riscontro di pubblico.
Si può percepire in noi un certo snobismo, perché rifiutiamo il ruolo di «commessi». Lo siamo certamente, ma occorre considerare che il nostro è un lavoro particolare – per me il più bello del mondo – perché fondamentalmente non facciamo che parlare tutto il giorno di libri con le persone più varie. Nonostante la gerarchia, la centralità di termini quali «efficienza» o «produttività», che sembrano dei dogmi e che hanno spesso un tono inquietante, esistono nel nostro lavoro delle specificità che vanno al di là della merce-libro. Tramite noi si produce un’intelligenza sociale che non è scontata, eppure ci troviamo di fronte a un management che sa porre solo rigidità e regole svilenti non solo per la nostra professionalità ma anche per il cliente.
In questa vertenza che rapporti avete avuto con il sindacato e che tipo di organizzazione diretta avete costruito?
Il rapporto con il sindacato è flessibile. Non abbiamo Rsu ma sono le Rsa [quindi i rappresentanti non eletti dai lavoratori, ma indicati dalle sigle sindacali, Ndr] che stanno gestendo la trattativa. Però abbiamo cercato di fare discorsi più ampi, abbiamo fatto nostro il claim della lotta della Gkn, «Insorgere e convergere», e stiamo considerando l’idea di avere un collettivo à la Gkn. Firmato il contratto ci ragioneremo, anche per imporre al sindacato una nostra piattaforma e un nostro protagonismo nella gestione della vertenza.
Con il sindacato alla fine abbiamo avuto un processo dialettico: non facendoci scioperare a Natale, il sindacato ha fatto prevalere la mediazione con l’azienda, ma ora è con noi. È un rapporto flessibile. Ma noi vogliamo ripartire da noi stessi e attraverso le nostre storie specchiandoci anche in quelle degli altri. Le connessioni con la Logistica e con il resto della filiera editoriale sono importanti, ci sono settori che ci stanno cercando e in futuro dovremo strutturare questi rapporti. Così come è importante legarsi alle realtà del territorio, quelle che circondano le nostre librerie. Noi, ad esempio, stiamo cercando di entrare in relazione con Ikea e con altri settori del commercio che hanno margini di ritorno molto bassi. Allo scorso sciopero generale noi siamo scesi in piazza con il libro della Gkn, per affermare l’idea che occorre ripartire da noi stessi e avere una tensione verso l’autorganizzazione. Ma è un processo da costruire.
Pensi che il settore editoriale debba porsi il problema di questa vertenza e in generale quali sono le linee su cui occorre investire in questo settore?
È una domanda molto difficile e non ci abbiamo riflettuto abbastanza. Parliamo di un segmento che nel tempo si è trasformato e oggi è molto difficile capire come unificare i vari punti del sistema. Devo dire che dal punto di vista dell’esperienza diretta è nei momenti di lotta che si trovano le unità, le connessioni, così come le soluzioni anche rispetto a un sindacato che a volte è troppo standardizzato e burocratizzato. Però si può anche dire che il problema principale del mondo editoriale è ormai il peso cruciale che assumono la logistica e la distribuzione, con il 50% del prezzo di copertina di un libro accaparrato da grandi gruppi, gli stessi che impongono misure al ribasso. Io ho iniziato facendo il magazziniere e ricordo che diversi anni fa i corrieri erano per lo più uomini non giovanissimi, generalmente dei «padroncini» che guadagnavano abbastanza bene. Negli anni, lo strapotere della logistica, li ha trasformati in cooperative in cui si susseguono appalti e subappalti, e dove spesso si sfrutta manodopera straniera applicandole meno tutele. La cultura è sottomessa a queste logiche e sembra che oggi non sia altro che lo strumento privilegiato del dominio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, intrattenendoci e per farci accettare l’inaccettabile.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.