Neoliberismo all’italiana
L’ideologia che difende e rilancia gli interessi del capitale contro il mondo del lavoro come si è adattata al nostro paese?
Nelle ultime settimane si sta sviluppando un interessante dibattito sull’influenza avuta dal neoliberismo in Italia negli ultimi trent’anni. Curiosamente queste riflessioni partono da un articolo di Angelo Panebianco sulla rivista Il Mulino che nega che il nostro paese abbia mai vissuto un periodo «(neo)liberale». Nelle settimane successive sono arrivati i contributi di Norberto Dilmore, sempre sul Mulino, che, appropriatamente, mette il caso italiano all’interno del contesto internazionale, nella lunga stagione della globalizzazione di marca liberista cui l’Italia non poteva certo sottrarsi. Su questa falsa riga è anche la risposta di Luciano Capone e Carlo Stagnaro sul Foglio, dove si ammette parzialmente l’influenza non tanto del pensiero neoliberale, quanto piuttosto del vincolo esterno dell’Unione europea che ha imposto politiche cui la classe politica, un po’ obtorto collo, ha dovuto adeguarsi.
Ma cosa è questo neoliberismo di cui tanto si parla? Dilmore si concentra, nuovamente non a torto, sulle politiche simbolo di quel periodo: privatizzazioni, liberalizzazioni, deregolamentazioni, politiche fiscali a favore del capitale.
Il neoliberismo in Italia
Usando questi criteri è davvero difficile negare che non si sia avuta in Italia una fase storica di pura marca neoliberista. Andiamo con ordine: la politica economica è stata sottoposta a un fortissimo vincolo esterno che ha tolto, di fatto, molto della discrezionalità dei governi nello stabilire gli obiettivi di politica economica – esattamente quanto richiesto dalla critica neoliberale. Non ci sono dubbi che questo sia stato soprattutto dovuto all’adesione all’Unione europea, come dicono Stagnaro e Capone: da una parte la politica fiscale era supervisionata da Bruxelles e dai parametri di Maastricht; dall’altra la politica monetaria è tuttora nelle mani della Bce.
Esiste però una forte componente di politica interna. L’Italia ha avuto un susseguirsi di governi tecnici (Dini, Monti) o a guida tecnica (Ciampi, Draghi), per «rassicurare» i mercati o per prendere quelle decisioni impopolari che la politica tradizionale non era in grado di deliberare. James Buchanan – il padre della public choice theory – ne sarebbe stato entusiasta. Tanto è stata debole e deresponsabilizzata la nostra politica che, con l’eccezione di Giulio Tremonti, tutti i Ministri del Tesoro della Seconda Repubblica sono stati dei tecnici. Insomma, Parlamento e Governo rispondevano non solo agli elettori ma anche, quando non soprattutto, ai diktat (mai espressi in maniera particolarmente coerente) dei famosi «mercati» – come se questi non fossero i rappresentanti di ben chiari interessi materiali.
Ne è prova il contenuto della politica fiscale, concentrata prevalentemente sui tagli di bilancio – a fronte di entrate perennemente carenti a causa dell’evasione fiscale – che sono andati a colpire i ceti più deboli. Non solo: secondo un recente studio la fiscalità italiana è solo blandamente progressiva, ed è addirittura regressiva per il 5% più ricco della popolazione.
Il ruolo dello Stato è andato via via riducendosi anche per le regole comunitarie in materia di concorrenza – e quelle legate al commercio internazionale – che limitano gli aiuti pubblici e quindi alcuni dei principali strumenti di politica industriale: l’impossibilità per lo Stato di proteggere e promuovere alcuni settori è da sempre uno dei punti chiave della teoria economica liberal/liberista che vede nell’intervento statale una turbativa per il mercato e una selezione del successo economico su chiave non di efficienza ma di interessi particolaristici e influenza politica.
Sempre seguendo la medesima ottica vanno giudicate le privatizzazioni degli anni Novanta, perfettamente in linea con l’ortodossia neoliberale: il mercato, a prescindere, funziona meglio dello Stato, e anche nel caso in cui le aziende pubbliche siano efficienti vanno comunque privatizzate, magari per per fare cassa (eppure, se facevano profitti perché vendere, se non per motivi ideologici?). Di più: come si privatizza non è importante – lo stesso concetto che si attuò, in quegli anni terribili, in Russia – perché il mercato saprà redistribuire i diritti di proprietà in maniera efficiente nel mercato secondario. Infatti.
E arriviamo infine al mercato del lavoro: a forza di liberalizzazioni l’Italia ha, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd), un mercato del lavoro più flessibile di quello francese o tedesco – diventato iper-flessibile anche nel ricorso ai contratti a termine prima del Decreto Dignità del primo Governo Conte – a fronte di un welfare assolutamente carente. Si sono scambiati i diritti dei lavoratori con l’efficienza del mercato, promettendo in cambio più lavoro e paghi migliori. Naturalmente i diritti si sono persi e il lavoro è diventato sempre più povero.
Anche le riforme del welfare sono andate tutte in direzione del mercato. Il sistema pensionistico è stato riformato più di una volta – si partiva da un sistema effettivamente poco sostenibile ma si è arrivati a una situazione in cui il 40% dei pensionati ha un reddito annuo inferiore ai 12 mila euro; e dove i lavoratori attuali, entrati a lavoro dopo il 1996, spesso con salari indecorosi, si troveranno con una «pensione di povertà» alla fine della loro vita lavorativa. Si è dunque perso il concetto di welfare per trasformarlo in una funzione di mercato. Notevoli in questo senso le spinte anche nella sanità, dove il privato è avanzato ed il pubblico ha cominciato a chiudere gli ospedali in base a criteri basati su una (supposta) efficienza economica e non su bisogni e diritti.
Il settore in cui forse di più, negli ultimi anni, si è vista una quasi totale egemonia neoliberista è quello del welfare in sostegno alla povertà, e in particolare il Reddito di cittadinanza, bombardato a destra e sinistra. Da una parte si è fatto ricorso ad una propaganda spiccia – fannulloni, divano – che pesca in quella retorica anti-poveri e anti-welfare che caratterizzò i primi anni di Reagan e Thatcher. Dall’altra, soprattutto sui giornali dove si è dato ampio spazio a ristoratori e baristi alla ricerca di personale, il Reddito è stato attaccato con le più classiche motivazioni della destra liberale: con il sussidio si turba l’equilibrio di mercato, si permette ai lavoratori di rifiutare un lavoro perché il livello salariale è troppo basso. Sostanzialmente si dice che lo Stato non deve avere responsabilità nello sviluppo economico e nel migliorare le condizioni di vita e lavoro dei cittadini: se i salari sono da fame è perché lo dice il mercato.
Perché dunque, davanti a cotanta evidenza si prova a negare o minimizzare l’influenza delle politiche neoliberiste in Italia?
Viene da pensare che, dati i risultati disastrosi di questo trentennio, si voglia, ideologicamente, distribuire le responsabilità altrove per non assumersi le proprie. Un po’ come quando a sinistra dicevano che l’Unione Sovietica non era veramente comunista.
Naturalmente va notato che il declino italiano non è semplicemente attribuibile al liberismo – le performance economiche in altri paesi sono state sicuramente migliori anche se i limiti di quel sistema economico sono ormai chiari ovunque. Più semplicemente, quel tipo di ricette economiche applicate al caso italiano si sono rivelate disastrose. Non è il caso qui di entrare nei dettagli, ma per anni si è pensato, come diceva Larry Summers, che le leggi dell’economia fossero uguali a quelle dell’ingegneria, che le stesse misure economiche avrebbero dato gli stessi risultati nei contesti più disparati. E invece le istituzioni non sono uguali, sono innervate di storia, cultura, rapporti sociali e, naturalmente, di potere. Esistono, anche all’interno del mondo neoliberale, «varietà di capitalismo» che determinano le performance. Un solo esempio: in un paese con una struttura industriale basata sulla piccola impresa familiare, con scarso accesso al credito e ancor minore ricorso al mercato azionario, la competizione è stata fatta sul dumping salariale invece che su investimento e innovazione – e le liberalizzazioni del mercato del lavoro hanno puntato, con la complicità della politica, proprio su quello.
Dalla parte del capitale
Scartata dunque l’ipotesi che l’Italia non abbia partecipato come e più di altri al trentennio di globalizzazione neoliberale, rimane il punto politico. Per Capone e Stagnaro in Italia non si è mai avuto un Reagan o una Thatcher – non c’è mai stato un vero movimento liberale che sia stato politicamente egemone. E per Panebianco l’Italia è stata, invece, soprattutto pervasa da spinte anticapitaliste e particolaristiche che si opponevano al neoliberismo che in fondo altro non è che «un pericolo per posizioni monopolistiche, per rendite di posizione, grandi e piccole». Una convinzione maturata parlando con un tassista (sic!) che se la prendeva con Uber. Panebianco in effetti cade nel solito equivoco di pensare che il neoliberismo altro non sia che un’ideologia in favore della libertà economica, che il mercato sia uno strumento neutro di libertà.
L’esempio di Uber è particolarmente calzante perché ci permette di portare al centro del dibattito il tema principale che non viene neppure sfiorato negli articoli finora pubblicati: il rapporto capitale-lavoro. In effetti i sostenitori della gig-economy sottolineano come la liberalizzazione dei mercati sia un vantaggio per i consumatori e un attacco alle rendite. Ma la vera liberalizzazione di cui Uber è protagonista non è quella del mercato dei trasporti privati, ma quella del mercato del lavoro. Ne abbiamo già parlato, lavoratori spogliati di ogni garanzia, trattati come fossero «imprenditori di sé stessi», senza malattia, vacanza, riposo, diritti: le regole che le nostre democrazie si sono date per il funzionamento della società, per proteggere i lavoratori, per evitare un eccesso di sfruttamento.
Sempre Panebianco nel suo articolo ci spiega che la libertà non è un salame, non si può fare a fette, e non c’è libertà senza libertà economica. Ma, evidentemente, non vale il contrario, se due pilastri del neoliberismo come il Fraser Institute e Heritage Foundation, nel loro ranking dei paesi con maggiore libertà economica mettono in testa rispettivamente Hong Kong e Singapore – ne scrisse in dettaglio Quinn Slobodian. Il punto è più complesso di quel che ci dice Panebianco: non la negazione della libertà economica, ma quali sono i suoi limiti, giacché il mercato non è un’istituzione naturale ma un costrutto che rappresenta non ideali ma interessi. O davvero pensiamo che ci possa essere una libertà economica assoluta di «inquinare», di «sfruttare il lavoro minorile», ecc.?
Ecco allora che una volta chiarito che il punto non è la libertà come concetto astratto, ma l’organizzazione che vogliamo dare alla nostra società, possiamo arrivare a una più congrua definizione di neoliberismo: un’ideologia che difende e rilancia gli interessi del capitale contro il mondo del lavoro. E lo fa attraverso uno strumento, il mercato appunto, che è in naturale, direi ontologica, contrapposizione alla democrazia: in quest’ultima il potere è distribuito in maniera, almeno formalmente, uguale – una testa, un voto; nel mercato, invece, il potere decisionale è distribuito in maniera oligarchica – un dollaro, un voto. Ne consegue che lo Stato democratico alloca – o dovrebbe allocare – le risorse secondo criteri politici, tenendo conto della volontà degli elettori; mentre il mercato alloca le risorse tenendo conto dei rapporti di forza nel sistema economico.
La critica neoliberale allo Stato è in realtà una critica alla democrazia e la depoliticizzazione dell’attività economica va meglio intesa come de-democratizzazione. Meno Stato, meno democrazia, meno potere discrezionale dei governi, meno proprietà pubblica.
I liberali nostrani possono, a ragione, lamentarsi di un mercato spesso bloccato da interessi particolaristici: i tassisti, appunto, nel caso di Panebianco; camionisti, notai, giornalisti, ecc. Ed è vero che in un paese caratterizzato da una politica così debole – anche perché si è attivamente lavorato per distruggere lo Stato – sono molti, troppi, i gruppi di interesse con potere di veto. Ma giudicare da questo il successo del neoliberismo in Italia sarebbe uno sbaglio. Basti pensare agli Stati uniti dove il mercato bancario è talmente competitivo che si è coniato il termine «too big to fail», l’antitesi di qualsiasi mercato concorrenziale; o al Canada, altro paradiso liberale, in cui la stessa situazione la troviamo per le assicurazioni; per non parlare delle big tech e del loro mostruoso potere sia economico che politico. La stessa legislazione anti-monopolio negli Usa è fatta su misura per consentire la concentrazione industriale – per quanto mediata dalla tutela dei consumatori. In parole povere, non esiste, se non in teoria o nella propaganda, un liberismo pro-mercato; politicamente esiste semplicemente un liberismo pro-business – tanto che alcuni economisti liberali, da Simon Johnson a Luigi Zingales, han cominciato a capire che il pericolo per il mercato viene ormai più dai capitalisti che dallo Stato.
Basterebbe, in fondo, ricordare una pagina non propriamente gloriosa di questi anni, quando in Italia si decise di privatizzare anche le autostrade, un classico monopolio naturale che anche per la teoria neoclassica standard non può essere lasciato al mercato. Negli Stati uniti ed in Gran Bretagna, infatti, le autostrade sono pubbliche e gratuite. Da noi, invece, non si sono sentite le proteste dei liberali per quella vergognosa privatizzazione, mentre, al contrario, sono perfettamente udibili le proteste contro il «ritorno» dello Stato. Non si era detto che il neoliberismo lottava contro privilegi e rendite di posizione? O la rendita di posizione ce l’hanno solo i tassisti?
Una stagione fallimentare
Quel che è vero è che l’Italia ha dimostrato in questo trentennio di essere un paese marginale negli equilibri economici e politici mondiali. E come spesso accade, i movimenti egemonici generati nel centro del sistema rischiano di avere ricadute tutt’altro che virtuose nella periferia. Privatizzazioni e deregolamentazioni non hanno favorito, come altrove, il grande capitale, largamente assente o migrato altrove; ma, come dicevamo, sono state immesse in un sistema socio-economico dominato dalla piccola impresa, se non addirittura da ristorazione e turismo, settori più interessati al taglio dei costi che all’innovazione tecnologica. Non è stata la mancanza del mercato ma, al contrario, l’assenza di una politica per trasformare e rendere più innovativo, produttivo e competitivo il nostro sistema economico a condannare l’Italia a questa situazione.
Capone e Stagnaro nel loro articolo dicono, correttamente, che il neoliberismo è diventato egemone tanto nella teoria economica che, soprattutto, nella prassi politica perché il sistema precedente – il compromesso socialdemocratico – aveva fallito e non era in grado di rispondere alle necessità tanto dell’economia che della popolazione. Lo stesso si può dire, ora, del neoliberismo: le continue crisi, povertà ed esclusione in crescita, le diseguaglianze stridenti, il declino della liberal-democrazia sono tutti segnali chiari di un sistema socio-economico non più in grado di dare risposte adeguate. Solo partendo da un’attenta e rigorosa critica di questi fallimenti si può fare i conti non solo con il passato ma anche con il futuro.
*Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega e Il Mulino.
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