Radical King
Il 4 aprile del 1968 fu ucciso l'uomo simbolo dell'emancipazione dei neri. Nell'ultimo periodo della sua vita aveva lanciato una nuova fase del movimento per i diritti civili: un fronte unito contro povertà, guerra e diseguaglianze sociali
Nel 2015 il filosofo e attivista afroamericano Cornel West pubblica una raccolta di discorsi di Martin Luther King Jr. intitolata “Radical King”. L’intento era quello di sottolineare la rapida radicalizzazione del pensiero politico del profeta della nonviolenza, sempre più critico nei confronti degli Stati Uniti, della guerra in Vietnam, ma soprattutto nei confronti di quelle iniquità socioeconomiche verso cui rivolse tutti i suoi sforzi fino al giorno del suo omicidio, il 4 aprile 1968. Durante questo percorso di radicalizzazione, Martin Luther King Jr. rimodellò le proprie posizioni, avvicinandosi a un socialismo democratico caratterizzato dall’insistenza sulla redistribuzione del benessere all’interno della società, in antitesi al trend di un’economia occidentale imperialista che, secondo quanto affermato da King alla Canadian Broadcasting Corporation nel dicembre ‘67, aveva finito con l’impoverire i paesi più svantaggiati attraverso lo sfruttamento coloniale. Fu per certi versi un mutamento repentino quello di Martin Luther King, Jr., che a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta iniziò a guardare con preoccupazione allo stato della comunità nera nei ghetti dei grandi centri urbani nel nord del paese. Il cambiamento fu tale che il teologo James H. Cone, in un libro pubblicato agli inizi degli anni Novanta, suggerì un avvicinamento delle posizioni di King a quelle più radicali di Malcolm X poiché, come l’ex ministro della Nation of Islam ucciso nel 1965, anche il pastore luterano iniziò a sottolineare il legame tra lo stato di deprivazione dei neri nei ghetti con il neoimperialismo statunitense nei paesi del Terzo Mondo, mettendo in risalto come l’american dream fosse, in fin dei conti, un incubo per gli afroamericani.
Il cambiamento in Martin Luther King Jr. avvenne soprattutto dopo la rivolta dell’agosto 1965 di Watts, un quartiere di Los Angeles abitato a maggioranza da afroamericani, che accelerò la crisi della lotta nonviolenta per i diritti civili, la quale rapidamente iniziò a sfaldarsi di fronte ai pugni tesi delle giovani masse nere che cominciavano a rivendicare il black power e che guardavano allo stato della minoranza nera negli Stati Uniti attraverso quell’anticolonialismo che avrebbe loro consentito di avvicinarsi alla lotta terzomondista. Nel documentario King in the Wilderness, diretto dal regista Peter W. Kunhardt e distribuito nel 2018 dall’emittente televisiva statunitense HBO, risulta chiaro come la radicalizzazione di King sia passata attraverso il confronto diretto con la disillusione di quei giovani afroamericani dei ghetti che avevano fatto di “Burn Baby Burn” il proprio motto e che avevano espresso fortemente il proprio scetticismo nei confronti dell’integrazione. King si rese conto che la lotta per la piena cittadinanza degli afroamericani, e quindi lo smantellamento della segregazione legale negli stati del sud, non aveva messo fine alla segregazione de facto degli afroamericani. A dimostrarlo ci pensarono le rivolte dei ghetti neri degli stati del nord che si consumarono a partire dalla metà del ’65, e che misero in risalto come la lotta per i diritti civili non avesse interrotto la marginalizzazione e l’impoverimento della minoranza nera nei grandi centri urbani a nord della black belt.
Martin Luther King Jr. iniziò quindi a riorganizzare la lotta nonviolenta per coinvolgere le masse povere delle zone urbane del nord degli Stati Uniti, dando vita a quella che fu la sua ultima e incompiuta attività politica: la Poor People’s Campaign. Annunciata nel dicembre del 1967, la Campagna avrebbe dovuto esporre al governo statunitense e all’opinione pubblica la miseria e le ingiustizie sociali ed economiche a cui tutta la working class americana – bianca e non – era sottoposta, mettendo in evidenza come la società americana si stesse allontanando dai bisogni della collettività a vantaggio di un impegno massiccio nella guerra in Vietnam. Secondo King, infatti, «quando una nazione è ossessionata dalla guerra, questa perde la prospettiva verso la crescente sofferenza della società». Da questo punto di vista, la Poor People’s Campaign rappresenta il tentativo di Martin Luther King Jr. di richiamare la nazione statunitense ai propri doveri verso il popolo americano, avviando così un processo di inclusione dei gruppi marginalizzati che avrebbe portato alla costruzione di una società egualitaria, antirazzista e pacifista.
A partecipare alla Campagna dovevano essere soprattutto i rappresentanti degli strati sociali più poveri che avevano visto inalterata la propria situazione socio-economica di fronte agli aiuti assistenziali varati dalla Presidenza. Il democratico Lyndon Johnson, infatti, aveva fatto della War on Poverty una delle punte di lancia della propria politica, ma questa, in realtà, finì col manifestare la propria incapacità nel superare le discriminazioni basate sulla linea del colore, destinando così maggiore attenzione all’inclusione dei bianchi più poveri nel mercato del lavoro a discapito del sottoproletariato urbano afroamericano. In generale, le spese governative per la guerra in Vietnam aumentarono a dismisura, mentre così non fu per i fondi destinati alla War on Poverty. A tal fine, King mise in comunicazione associazioni di lavoratori e organizzazioni radicate nei ghetti e soprattutto rappresentanti delle minoranze non-white statunitensi, che insieme avrebbero dovuto mobilitarsi in una enorme marcia verso Washington nel maggio del 1968, a cui King non ebbe l’opportunità di partecipare perché ucciso il 4 aprile di quell’anno.
L’attivismo di King della fine del 1967 si inserisce quindi all’interno del fallimento degli aiuti assistenziali della Presidenza Johnson destinati agli strati sociali più svantaggiati, la sempre crescente radicalizzazione di molti gruppi grassroots afroamericani come lo Snick (ovvero la Student Nonviolent Coordinating Committee, un’organizzazione legata a Martin Luther King Jr. e da cui emerse Stokely Carmichael, figura di spicco del black power) e la nascita di molte altre organizzazioni radicali nere come le Black Panthers di Huey P. Newton e Bobby Seale. L’impegno della Presidenza Johnson nella guerra del Vietnam, poi, alimentò i movimenti pacifisti americani, coinvolgendo così King e la moglie Coretta Scott King – quest’ultima con alle spalle un passato di attivismo pacifista e antimilitarista.
I fermenti politici di quegli anni portarono King a costruire e a immaginare una nuova fase della lotta nonviolenta negli Stati Uniti, che avrebbe dovuto favorire la nascita di un fronte unito pacifista, anticapitalista e vicino ai movimenti radicali che avevano visto nel marxismo-leninismo la giusta filosofia da seguire per contrastare le iniquità socio-economiche a opera del capitalismo e dell’imperialismo statunitense.
La Poor People’s Campaign avrebbe dovuto dare vita a una vera war on poverty, diversa da quella di Johnson, la quale avrebbe dovuto inverare i principi a fondamento della Costituzione Americana e della Dichiarazione di Indipendenza. Ciò volle dire per King entrare in contrasto con il fronte liberal – specialmente bianco – che fino ad allora aveva sostenuto le battaglie per l’integrazione e per i diritti civili, così come con la Presidenza Johnson. Allo stesso tempo King dovette scontrarsi con uno spaccamento tra il fronte integrazionista e nonviolento da lui rappresentato e il fronte cooptato dal movimento del black power, sempre meno convinto che l’integrazionismo fosse la risposta ai problemi etnici negli Stati Uniti.
Martin Luther King Jr., allora co-pastore della Ebenezer Baptist Church di Atlanta, cercò quindi di comprendere e analizzare la complessità delle grandi città del nord degli Stati Uniti, guardando al fenomeno della violenza urbana non come il sintomo del fallimento della filosofia della nonviolenza ma, piuttosto, come il mezzo attraverso cui dare vita a una nuova fase della lotta per i diritti civili: una lotta serrata contro la povertà, la guerra e le diseguaglianze sociali.
Dall’esplosione del ghetto di Watts alla scelta di Martin Luther King, Jr. di dare avvio alla Poor People’s Campaign, i riots urbani aumentarono vertiginosamente: il Comitato Investigativo indetto dal Senato statunitense rilasciò il primo novembre del ’67 una stima dei danni e delle conseguenze pratiche delle rivolte che da Los Angeles a Detroit si susseguirono per più di due anni. Dalle cinque rivolte urbane del 1965 si passò alle settantacinque della hot summer del 1967, il numero dei morti e dei feriti incrementò e l’ammontare dei danni recati alle proprietà private e alle infrastrutture crebbe di circa sedici volte.
Sia Martin Luther King Jr. sia i gruppi radicali neri nati a seguito dell’influenza del black power guardarono ai riots non solo come il sintomo estremo della marginalizzazione sociale degli afroamericani, ma anche e soprattutto come una forza potenzialmente distruttiva che andava trasformata e plasmata a vantaggio di un movimento per il cambiamento radicale della società e della politica governativa statunitense. A partire dal 1967 il Black Panther Party, ad esempio, iniziò a condannare lo spontaneismo delle masse nere in rivolta, indicando il Partito d’Avanguardia come unica forza capace di incanalare la rabbia sociale in una resistenza organizzata e rivoluzionaria contro quel braccio armato dello Stato che aveva sistematicamente represso nel sangue i riots nati in seno ai ghetti neri. Martin Luther King Jr., invece, era dell’avviso che la disobbedienza civile fosse l’unico strumento politico capace di interrompere le rivolte urbane e di generare un movimento nazionale, interetnico e vicino ai bisogni dei lavoratori e del sottoproletariato urbano che, attraverso una lunga marcia verso Washington, avrebbe dovuto costringere il Congresso Usa a mettere in moto una politica nazionale tesa ad abbattere definitivamente la «piaga della povertà» che si era abbattuta con forza su una considerevole parte del popolo statunitense.
Attraverso il filtro della povertà, King aveva quindi cercato l’origine delle rivolte nei ghetti trovandola, infine, in quell’intreccio tra sfruttamento economico, emarginazione sociale e scontro etnico che aveva portato centinaia di afroamericani ad attaccare i simboli della presenza economica della «struttura di potere bianca» all’interno dei ghetti. L’attacco agli esercizi commerciali di proprietà dei bianchi da parte degli afroamericani rappresentava per Martin Luther King Jr. il segno più evidente di una lotta tra gli spossessati, soggetti all’alienazione della deprivazione, e la proprietà privata bianca in quanto tale. In questo senso, era necessario creare i presupposti per costringere le istituzioni americane a destinare buona parte delle spese federali alla crescita di nuovi posti di lavoro, e soprattutto alla risoluzione dello stato di marginalizzazione economica e sociale di quegli americani tagliati fuori da processi produttivi sempre più automatizzati e dalle discriminazioni etniche.
L’ultima lotta di Martin Luther King Jr. lo avvicinò ancora più al mondo delle lotte sindacali statunitensi – a cui fu sempre legato e di cui si servì per la Poor People’s Campaign – ma, allo stesso tempo, fu profondamente impregnata da quei valori evangelici e religiosi che avevano spinto l’apostolo della nonviolenza a lottare contro la discriminazione etnica negli Stati Uniti a partire dagli anni Cinquanta. Alla fine del 1967 King dichiarò che avrebbe reclutato «tremila tra i cittadini più poveri provenienti da dieci aree urbane e rurali diverse» in qualità di punta di lancia della Campagna contro la povertà, definendo questi ultimi come una «freedom church» militante che, forte della filosofia nonviolenta, avrebbero contribuito a far sì che «l’organo legislativo e l’organo giudiziario del governo decidano di fare seriamente qualcosa per incrementare posti di lavoro e stipendi».
Quando agli inizi del 1968 la Campagna contro la Povertà partì, King fu costretto a ricreare nuove alleanze con nuove organizzazioni: La National Welfare Rights Association, i contadini capeggiati da Cesar Chavez e le organizzazioni che coinvolgevano i poveri dell’Appalachia furono alcune delle tante associazioni che cercarono di colmare il vuoto lasciato da chi aveva smesso di seguire il pastore luterano a seguito della sua svolta antimilitarista e fortemente contraria alle scelte di Johnson in merito alla guerra del Vietnam. In questo avvicinamento della Poor People’s Campaign ai sindacati, il 10 marzo 1968 King parlò ai nuovi e vecchi sostenitori a New York, in occasione di un convegno organizzato dal Local 1199, un sindacato del settore ospedaliero composto a maggioranza da afroamericani e portoricani. Qui King, riprendendo un suo altro discorso dell’aprile 1967 tenuto presso l’Università di Stanford dal titolo The Other America, lo radicalizzò per evidenziare i paradossi della società statunitense.
Per King, infatti, vi erano due Americhe: mentre nella prima scorre «il miele della prosperità e il miele dell’eguaglianza», in cui abitano milioni di persone che possiedono «cibo e beni necessari per i loro corpi, cultura ed educazione per le loro menti, libertà e dignità umana per il loro spirito», nella seconda «milioni di persone si trovano costrette a vivere in maniera inadeguata, al di sotto della soglia di povertà, e spesso risiedono in case fatiscenti». Nell’altra America «il problema più critico è quello economico», e mentre nella prima America vi è «socialismo per i ricchi», nell’altra America vi è «duro individualismo per i poveri». Mentre nell’America ricca il popolo aveva potuto godere di tutti i privilegi legati alla cittadinanza, nella seconda America, quella povera, le idee di giustizia e libertà annunciate dalla Dichiarazione non erano state rispettate, se non addirittura violate.
In quell’occasione, King mise in luce come i privilegi associati alla cittadinanza e declamati dalla Dichiarazione di Indipendenza provenissero sì da Dio, ma fossero fortemente ancorati al pieno impiego e alla redistribuzione sociale. Infatti, ogni qualvolta un essere umano veniva privato del lavoro o del reddito, per King l’America lo privava della propria cittadinanza, non garantendogli così il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità. Tra negazione e affermazione dei diritti, erano gli Stati Uniti stessi a sdoppiarsi in due “Americhe”, una costituita dalla piena cittadinanza e un’altra in cui la marginalizzazione la faceva da padrona. La Poor People’s Campaign immaginata dal pastore luterano avrebbe dovuto eliminare questo sdoppiamento, favorendo la costruzione di una e una sola America, quella dove il godimento dei diritti sarebbe stato totale e lo spettro della guerra allontanato per sempre.Il fronte interetnico della Poor People’s Campaign rappresentava un mezzo attraverso cui cogliere la complessità dello sfruttamento economico e del divario sociale negli Stati Uniti, ma ciò non voleva dire per King appiattire ogni differenza specifica. Durante il convegno alla Local 1199, infatti, il pastore luterano tenne a precisare la specificità del caso afroamericano, che più di tutti aveva subito lo stigma di una esclusione sociale associata al colore della pelle e a una storia fatta di schiavismo e disumanizzazione. Pur tuttavia, la Poor People’s Campaign venne pensata da King come una struttura fluida, capace quindi di inglobare le organizzazioni favorevoli a un allargamento degli spazi di cittadinanza e alla fine delle discriminazioni su base etnica. Ma, soprattutto, Martin Luther King Jr. aveva lasciato intendere che la Campagna si sarebbe dovuta curare di appoggiare le associazioni – soprattutto dei lavoratori – in lotta per un miglioramento dei contratti di lavoro.
A seguito della morte di due netturbini della città di Memphis nel febbraio 1968, 1.300 afroamericani membri del Memphis Department Public Works diedero inizio a un enorme sciopero che coinvolse tutto il settore degli operatori ecologici. Teso all’aumento degli stipendi e a un miglioramento delle condizioni di lavoro, lo sciopero si protrasse fino a marzo, stabilendo per il 28 di quello stesso mese una marcia di protesta. King, che nel frattempo aveva cercato di organizzare insieme ad alcuni rappresentanti della Southern Christian Leadership Conference la Poor People’s Campaign, decise di partecipare per fornire ai lavoratori il proprio supporto. Alla marcia si unirono anche gli studenti, che insieme ai lavoratori sfilarono con dei cartelloni con su scritto nero su bianco “I Am a Man”, ma ben presto scoppiarono i primi tafferugli. La manifestazione pacifista si tramutò in violenta, la polizia sparò e uccise un ragazzo di 16 anni e i bastoni che fino ad allora avevano sorretto i cartelloni, divennero le armi con cui gli scioperanti iniziarono a confrontarsi violentemente con il braccio armato dello stato.Nonostante la svolta violenta della manifestazione, King decise di ritornare nuovamente a Memphis il 3 aprile per supportare gli scioperanti. Qui pronunciò il suo ultimo discorso pubblico, I’ve Been to the Mountaintop, in cui spiegò perché fosse necessario supportare lo sciopero degli operatori ecologici. Per Martin Luther King Jr. era necessario sviluppare una lotta che guardasse al di là degli interessi specifici di ogni organizzazione o gruppo sociale, per la costruzione di un fronte guidato da un «altruismo pericoloso» per gli sfruttatori, ispirato dalla necessità di vedere nella lotta dell’altro il punto di partenza per una risposta collettiva alle diseguaglianze sociali. Seguendo la parabola del buon samaritano, King aveva immaginato una lotta che doveva coincidere con una attenzione da rivolgere nei confronti dei più bisognosi e con la capacità politica di «proiettare l’“io” in un “tu”». Ciò che per Martin Luther King Jr. doveva guidare la lotta era l’amore incondizionato verso il prossimo, soprattutto al di là delle differenze etniche.Il pomeriggio del 4 aprile, un colpo di fucile di precisione raggiunse alla testa il pastore luterano, sancendo così la fine di una vita spesa per la lotta contro le diseguaglianze sociali. La Poor People’s Campaign non riuscì a sopravvivere a Martin Luther King Jr., pur tuttavia, essa ebbe il merito di influenzare gran parte delle organizzazioni afroamericane dal 1968 in poi, le quali vi colsero un elemento fondamentale: per superare le diseguaglianze economiche e sociali, è necessaria la costruzione di un fronte unito negli obiettivi che si basi su una struttura interetnica, che curi i bisogni della working class e del sottoproletariato urbano, e che sia così capace di rappresentare l’intera complessità sociale nella lotta a beneficio di tutta la collettività umana. La campagna contro la povertà è rimasta nell’immaginario collettivo americano, e come dimostrato dal caso del Reverendo William Barber, che nel 2018 ha guidato una rinnovata Poor People’s March, viene sottolineata ancora oggi la necessità di dover creare un movimento interetnico per il miglioramento della condizione sociali delle classi più svantaggiate della società americana. Quello che Martin Luther King Jr. ha lasciato in eredità è, infatti, un modello inclusivo di lotta, che guarda all’interazione tra gruppi eterogenei come un elemento di forza per il cambiamento dei rapporti socioeconomici di un paese.
Sottolineare l’ultima lotta di Martin Luther King Jr. a cinquantuno anni dalla sua morte non vuol dire soltanto commemorarne l’impegno, ma anche e soprattutto evidenziare l’attualità del pensiero radicale del pastore luterano statunitense, il quale aveva compreso come la risposta alla povertà e allo sfruttamento economico non poteva che essere la costruzione di un movimento dal basso multietnico, radicato nella working class, che avrebbe dovuto guidare il paese verso una «rivoluzione dei valori» finalizzata al superamento delle ingiustizie sociali e al perseguimento della felicità da parte degli americani e che, successivamente, avrebbe dovuto unirsi agli atti di disobbedienza civile in tutto il mondo per la costruzione di un futuro diverso per tutta l’umanità.
*Bruno Walter Renato Toscano è laureando del corso Scienze Storiche e Orientalistiche presso l’Università degli Studi di Bologna, e membro della redazione del blog C’era una volta l’America, curata dal Centro Interuniversitario di Storia e Politica Euroamericana (Cispea)
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