
Oscar Farinetti, capitalismo in cerca d’autore
Analizzando Quasi, esordio poetico di Oscar Farinetti, si scorge la miseria politica e intellettuale di certo ceto produttivo italiano. E un imprenditore che si pretende estraneo a qualsiasi critica
Oscar Farinetti: imprenditore piemontese, ex-proprietario di Unieuro, fondatore di Eataly, incarnazione plastica del renzismo quando questo era in ascesa, è ora anche poeta. O meglio, «quasi poeta», giacché lo stesso Farinetti introducendo Quasi (La Nave di Teseo, 2018), sua prima raccolta di poesie, si affretta a mettere le mani avanti: «non ho la presunzione che si tratti di poesie, mi va benissimo chiamarli pensieri». Che però non gli vada benissimo è suggerito dal fatto che la poesia è rievocata solo tre righe dopo: «ciascuno di noi può essere in grado di mettere un po’ di poesia accanto a ciò che fa». Vero o meno che sia – il 90% di ciò che Farinetti scrive in Quasi è così indefinito da non poter essere né vero né falso – è comunque certo che non tutti pubblicano poesie. Farinetti invece sì: frutto del lavoro di «tre-quattro anni», e a quanto pare inizialmente destinate allo «stupore» di pochi amici, le 71 poesie di Farinetti sono accompagnate da altrettanti dipinti dell’artista Marco Nereo Rotelli e da una lunga postfazione del filosofo e musicista Massimo Donà. Ignoreremo sia i dipinti sia gli spunti filosofici di Donà per concentrarci piuttosto sulla voce farinettiana.
L’introduzione di Quasi si chiude con la preghiera di leggere fino in fondo (e l’abbiamo fatto, non saltando una sillaba), e l’invito a criticare solo alla fine. E quindi eccoci qua.
Quel che Quasi vuole essere, nelle intenzioni di Farinetti, è presto detto: un elogio dell’imperfezione, dell’irrisolto, o perfino del malriuscito. Così si apre la raccolta:
Adoro il quasi
l’incompiuto, il copiato,
il meno peggio, il suppergiù
M’ispira il compromesso
che trovo in sé perfetto
Tutto ciò è ribadito con un’insistenza ai limiti della molestia: Farinetti non sciupa un’occasione per palesare, decine di volte, la sua preferenza verso «il provarci», categoria dello Spirito che in ultima analisi dovrebbe sottrarre ogni tentativo – o perlomeno il suo tentativo! – alle grinfie del giudizio. Perché il presunto elogio dell’imperfezione è a sua volta così precario e imperfetto che gli ossessivi richiami ad apprezzare la «meraviglia [del]l’incompiuto» smascherano l’obiettivo, grossolano e minaccioso al tempo stesso, di rivestire il testo di una sorta di pellicola che dovrebbe renderlo impermeabile a ogni critica:
Ma poi, perché giudicare?
Siamo convinti che serva?
Noi ne siamo piuttosto convinti, e quindi anticipiamo il nostro giudizio: dal punto di vista poetico Quasi è osceno, un fallimento totale. E anzi, lo è in modo così irrecuperabile che paradossalmente, insieme alla voce di Farinetti che ci esorta a lasciar stare («propongo di abolire l’impressione | sostituiamola con la comprensione»), si accompagna una preoccupazione complementare: che Quasi sia così sfilacciato da rendere inutile qualsiasi analisi critica. Come tentare di misurare con una barra sinusoidale gli angoli di una pappa di pongo. O, mettendola giù con la catena di domande che ci ha perseguitato durante la preparazione di questa recensione: ha senso recensire le poesie di Farinetti? Ha senso farlo addirittura in due? Ha senso leggersele? Infine, ha senso spendere 17 euro per portarsele a casa?
All’ultima domanda (la più facile) abbiamo risposto con un secco no: seduti sulle poltroncine della Feltrinelli di Bologna, fotografando l’intero libretto, abbiamo deluso il commesso che ci aveva pressoché implorato di comprarlo per portarne una copia via da lì.
Per quanto riguarda le altre domande, occuparsi di questa poltiglia poetica ha senso perché il fallimento dell’operazione, ancorché integrale, ha degli aspetti peculiari che lo distanziano dal tipico dilettantismo poetico. Questa finisce così per restituirci, senza filtri (Farinetti non ne ha sia quando rivendica la sua immediatezza, sia quando non si accorge di ciò che implica quel che dice), le modalità di pensiero di uno dei principali imprenditori italiani.
La cosa è resa ancora più interessante dal fatto che con queste poesie Farinetti mira a una sorta di improbabile legittimazione culturale. In un’intervista al Corriere della Sera – in una rubrica che si chiama, niente meno, «il bello delle persone/visionari», e che forse meriterebbe essa stessa un’analisi di questo tipo – Farinetti dichiara apertamente: «sono un mercante, ma voglio dimostrare che si possono fare affari mettendoci poesia». Non solo, confessa: «essere quasi poeta credo che mi riesca abbastanza bene», aggiungendo anche che la ragione per cui viene attaccato è il suo essere, contemporaneamente, «ricco e di sinistra».
Non è difficile unire i puntini: l’incursione di Farinetti nel mondo della cultura, sotto i numi tutelari di Tonino Guerra – che molti ricorderanno come l’”ottimista” degli spot di Unieuro, prima che Farinetti si dedicasse all’agroalimentare – e dei già citati Massimo Donà e Marco Nereo Rotelli, è un modo per presentarsi come un imprenditore moderno con spiccata sensibilità umana e politica. Questo imprenditore moderno, che dalle catene di elettrodomestici a poco prezzo si è elevato alle vette dell’eatalianità, pur preso dalle maglie di una carriera impegnativa, riesce a ritagliarsi il tempo per scrivere poesie che celebrano l’imperfezione, senza mai prendersi troppo sul serio. Poesie che un po’ decantano il buon cibo, in accenti da vero e proprio spot di Eataly («Il cuoco dolce» ne è un perfetto esempio), un po’ ci tengono a spiattellare i sensi di colpa a mezzo servizio di chi ha guadagnato molto ma è «di sinistra», e quindi si vergogna, quando mangia bene, pensando a chi muore di fame («Mangiare»). Quasi, in due parole, è quello che ottenete quando cercate di convincere il figlio di Calenda a comportarsi bene per farsi condonare una punizione: bronci infantili, contrite frasi da bravo bambino recitate a pappagallo, e un lavoretto per la mamma fatto con i piedi per ottenere quanto prima di riavere la Playstation e tornare a farsi i cazzi propri.
Fucili che non sparano
Le poesie di Quasi sono lunghe mediamente una o due pagine, e consistono di frasi disordinate con partizioni metriche e strofiche irriflesse; occasionali rime vengono dimenticate in capo a qualche verso (vomitare/camminare; malizia/sporcizia; forte/storte). Farinetti inciampa talvolta nella filastrocca, con assonanze e bozzoli di ritmo che però non controlla; ecco, per esempio, Mondi:
Il mio mondo è il mondo
Il tuo mondo è il mondo
Il suo mondo è il mondo
Ognuno vive nel suo mondo
…che è il mondo
Quanti mondi!
Tu me ne parli
e mi confondi
[…]
Troppi mondi!
La mancanza di controllo della materia poetica che, ancorché tiepidissima, sfugge costantemente dalle mani di Farinetti, è paradossalmente una delle cifre di Quasi. Se il teatro di Cechov soddisfa notoriamente il monito per cui ogni fucile in scena deve prima o poi sparare (ovvero, la macchina teatrale è fondamentalmente priva di sbavature, e ogni componente che la mette in moto ha una sua funzione), la poesia di Farinetti è viceversa una in cui i fucili non sparano praticamente mai, e la macchina gira a vuoto: tubi di ventilazione si ripiegano su se stessi, ruote dentate si risolvono in semicerchi. Fuor di metafora, Farinetti si dimentica spesso l’intenzione poetica mentre la sta eseguendo (e con una sistematicità che lascia supporre o un’assenza di seconde letture o l’assenza di un amico/editor sufficientemente sincero, o più probabilmente entrambe). Per dirne una: in uno degli svariati panegirici dell’incompiuto, scrive
Trovo belle le famiglie
ma non vado ai matrimoni
Adoro la pizza
ma mi infurio ad aspettare
Delle case mi piace
ciò che si vede guardando fuori
Qui Farinetti sembra banalmente non accorgersi che l’opposizione fra la pizza e l’attesa – amare la prima e odiare la seconda – non produce l’effetto contro intuitivo che le altre due opposizioni cercano di ottenere, e anzi, allineandosi col senso comune, smorza il détournement – il tentativo di far smarrire al lettore l’orientamento nel consueto modo di vedere il reale.
Noia appiccicosa
La rincorsa all’antifrasi è comunque una costante di Quasi. Farinetti è evidentemente convinto che la poeticità di un verso risieda nella capacità di produrre un qualche cortocircuito inatteso: «Il solito grazie | … e ti senti fico | invece sei un… | non te lo dico »; «Trincee di pace |sono meglio di quelle di guerra». Il problema è che questi micro-paradossi non hanno praticamente mai la forza di trasformarsi in aforismi, e si spengono nello stesso dimenticatoio in cui spediamo il contenuto dei biscotti della fortuna subito dopo la lettura: «C’è il tempo della farfalla | c’è il tempo della tartaruga»; «Vivo fuori moda| oltretutto costa meno».
Al netto di sporadiche e goffe escursioni su altri registri (in una poesia, Farinetti impreca con un «perdinci»; in altre tenta il forestierismo con titoli come «Never quiet», «Maybe», «Story telling»), Quasi sviluppa una lingua media che, partendo da una retorica dell’approssimazione, sfocia in una fuliggine semantica che non si dissipa mai, e quindi in un linguaggio che non descrive, non precisa, non provoca, non stupisce, non infastidisce, non spiega, non mostra. Non svolge di fatto alcuna funzione poetica che non sia la formulazione di massime di cortissimo respiro: «il lusso è il tempo | trovarlo | per ciò che costruirai».
Un corollario disturbante di tutto ciò, e che d’altra parte spiega la noia appiccicosa che il grosso delle poesie del volume porta con sé, è che la voce di Farinetti sembra quella di un automa: apercettiva, anaffettiva, atemporale. Da un dilettante (e non c’è frammento di Quasi che sfugga al dilettantismo) sarebbe lecito aspettarsi il contrario: un lirismo iper-emotivo che spaccia afflati passionali per effetti poetici. Non così Farinetti; qui la voce è prosciugata da ogni reale contatto col mondo, e le poche eccezioni sono così artefatte da far ventilare l’ipotesi che dall’altra parte ci sia un guscio vuoto: «il suo fiato | che sapeva di pane»; «il grano danza | Santo cielo! è meraviglioso | le spighe ondeggiano».
Altro esempio. Quasi contiene occasionali cenni a personaggi reali, vivi o morti, ma il name-dropping è così casuale che la giustapposizione dei nomi citati è involontariamente comica: Pasolini, Totò, il Che, George Carlin, Thomas Jefferson, Papa Francesco, McLuhan, Montale e Neruda (il primo citato come eugenio, in minuscolo, il secondo come PABLO, tutto maiuscolo, e lo stesso trattamento tipografico è riservato ai loro versi citati; non sappiamo perché).
E però, appunto, questo commercio col mondo è così esiguo da non attenuare l’impressione che la voce di Quasi sia quella di un megafono la cui sola funzione è stordire l’ascoltatore a forza di pseudo-definizioni impossibili da trattenere. La sola cosa che si impone (e lo fa per accumulazione, ossessivamente) è una lista di Buoni e Cattivi a cui Farinetti sembra perennemente ricondurre il suo mondo mentale, un’ontologia manichea della quale è sia vittima sia profeta. E qui le analogie col vecchio riferimento politico sono tali da far venire il dubbio: è l’imprenditore a riciclare un immaginario renziano, o invece nei fatti il renzismo andrà inteso, materialisticamente, come rappresentazione politica della miseria intellettuale di un certo ceto “produttivo” italiano? Chi siano i Buoni è infatti ormai chiaro: quelli che ci provano, chi esibisce un pratico dinamismo, chi non si tira indietro di fronte alle decisioni («Razza italiana» mescola a questa prospettiva un patriottismo un tanto al chilo che prorompe in «Porca miseria, abbiamo fatto il mondo | dov’è finita la curiosità?»). Fonte di ogni male sono invece i criticoni, «i lamentosi e negativi», «i gufi» e «i professoroni» insomma, e così via in un crescendo di nefandezze che ha come vertice ultimo l’atto stesso di giudicare.
È una dialettica che si mangia via tutto e resta stabile, mentre perfino l’immagine che Farinetti offre di sé si sfalda: inutile chiedersi se preferisca pensarsi come un imprenditore illuminato che, scrivendo poesie, ha fatto qualcosa di inconsueto e stupefacente; o invece come qualcuno che si è dedicato a un’attività alla portata di tutti, e che ha svolto lievemente. È la contraddizione (non sta a noi stabilire se involontaria o ricercata) di chi non ha deciso se preferisce sentirsi diverso o sfumarsi nella collettività. Come scrive Matteo Pascoletti in una recensione su Flanerì: «Così concentrato […] sull’anticipare le critiche […] l’autore non presta attenzione a ciò che […] rivela. Ovvero un quasi rancore da Io so’ io, e voi non siete un cazzo».
Il beneficio di una lettura attenta di Quasi è insomma che svela, perfino didascalicamente, come ogni elemento che entri nel campo percettivo di Farinetti sia istantaneamente riportato dentro questo conflitto, infantile ma inestinguibile, fra Chi Ci Prova e Chi Invece Critica («La gente per bene non giudica, aiuta»). C’è qualcosa di patologico in questa ritrosia a ogni forma di giudizio; e non c’è abbraccio riconciliatorio, fra i diversi che Farinetti propone nelle pagine di Quasi, che non possa facilmente intendersi come un potenziale stritolamento: rivolto ai «fortunati mocciosi» che possono scegliersi «sesso», «tradizioni» e «religione», dichiara che li afferrerebbe per trascinarli con sé «e farli sentire uguali». Una delle conseguenze del 4 marzo è che, almeno per un po’, questo modo di vedere e rappresentare l’Italia è stato sfrattato dalle stanze del potere, e deve ricorrere all’editoria amica per trovare spazio. Negli anni duri che abbiamo davanti, è bene ricordarci di non lottare solo contro questo presente pauroso, ma anche contro un passato prossimo vuoto e grottesco come Quasi
*Luca Francesco San Mauro è ricercatore di logica matematica alla Technische Universität di Vienna. Ha studiato e svolto ricerche a Bologna, Siena, Pisa, Buenos Aires e Novosibirsk. Dal 2010 al 2017, cioè dal primo all’ultimo giorno, è stato fra i redattori della rivista 404: file not found.
Gaia Tomazzoli è insegnante (precaria) d’italiano alla Sorbonne Nouvelle di Parigi. Ha terminato da poco un dottorato di ricerca in Italianistica a Venezia, scrivendo una tesi sulle metafore nella Commedia di Dante.
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