Processo alla ExxonMobil
Uno dei colossi del petrolio mondiale è finito alla sbarra negli Usa per aver mentito sui rischi finanziari del surriscaldamento globale. Una vicenda esemplare di finta riconversione green
Stretta tra Brexit ed elezioni umbre (due eventi che si possono considerare di pari importanza nel grande corso della storia…), è passata in secondo piano tra i media europei una notizia che invece meriterebbe la prima pagina: ExxonMobil, uno dei grandi giganti del petrolio mondiale, è stata trascinata in tribunale dagli stati di New York e Massachusetts per aver mentito agli investitori riguardo ai rischi finanziari del surriscaldamento globale.
Il processo, iniziato il 22 ottobre, si basa su una legge anti-frode del 1921, che protegge gli investitori dalle false dichiarazioni, anche quando queste vengano fatte senza lo scopo di ingannare. È il primo caso in cui questa legge viene usata per problemi legati al cambiamento climatico, e ha le basi per provocare una piccola rivoluzione.
Exxon è accusata di aver mentito agli investitori riguardo alle reali prospettive di rischio del futuro valore dei propri asset, cioè le riserve di idrocarburi e la tecnologia per estrarli di proprietà della compagnia; non avrebbe infatti comunicato i dati che circolavano internamente riguardo al futuro del proprio valore nell’epoca del cambiamento climatico. Il procuratore generale dello stato di New York ha stimato che il danno per gli azionisti si aggiri tra i 450 milioni e gli 1,6 miliardi di dollari; noccioline rispetto al giro d’affari della Exxon, che era di 290 miliardi di dollari nel 2018. Ma il processo non è storico per le cifre in gioco: quello che la compagnia (e l’insieme di tutta l’industria petrolifera) teme è un effetto domino che porterebbe altri stati (negli Usa e oltre) a intentare simili cause, il che provocherebbe un forte disinvestimento nell’industria petrolifera; se questo si avverasse, si riuscirebbe a sancire per via giudiziaria quello che per legge non si riesce ancora a fare: mettere uno stop all’estrazione di idrocarburi. Il petrolio, insomma, smetterebbe di essere il cuore della finanza mondiale, il centro dei più importanti interessi economici del mondo.
La situazione è talmente seria che la Exxon ha fatto qualcosa che di rado le compagnie petrolifere si preoccupano di fare: si è presa la briga di rispondere, invece di ignorare semplicemente le accuse senza dare spazio al processo, con una sezione dedicata sul suo sito. Nelle dichiarazioni, abbastanza goffamente, la compagnia cerca di creare indignazione per il fatto che l’inchiesta tenti di far pagare alle compagnie petrolifere le conseguenze del cambiamento climatico, nello stesso modo in cui le compagnie di tabacco negli anni Novanta sono state costrette a pagare per i costi socio-sanitari delle sigarette – parallelismi che le associazioni ambientaliste coinvolte nell’inchiesta richiamano non solo esplicitamente, ma con orgoglio. Sarebbe una rivoluzione copernicana: gli «Imperi del profitto», come li ha definiti lo storico Francesco Petrini, vedrebbero le loro azioni crollare – il famoso «segnale chiaro» ai mercati finanziari globali.
È questo un lato della battaglia contro il surriscaldamento globale di cui si parla poco. Da anni, ormai, il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney ammonisce che non si possono considerare come asset strategici le riserve di combustibili fossili; che il disinvestimento è necessario per salvare la struttura della finanza globale nel lungo termine. A luglio di quest’anno, una lettera aperta scritta da Bank of England, Banque de France e Greening Financial System (del consorzio bancario internazionale) ha avvertito che le compagnie di ogni settore che non investiranno verso l’obiettivo emissioni zero saranno punite dagli investitori e andranno in bancarotta – una transizione rapida sarà quindi necessaria perché al collasso ecologico non si accompagni un collasso finanziario mondiale.
Finora però, questi timidi segnali di ripensamento del sistema economico mondiale, lanciati per altro da uno dei punti cardine di questo sistema (Mark Carney non è esattamente Greta Thumberg), non sono stati presi in considerazione: le compagnie petrolifere, che investono miliardi di dollari l’anno in produzione di gas e petrolio, restano le galline dalle uova d’oro dei mercati, il bene rifugio degli asset manager di tutto il mondo – o per lo meno di tutti quelli che contano.
Una recente inchiesta del Guardian sui tre più grandi fondi di investimento internazionali (quelli in cui sono si trovano le nostre pensioni, i nostri mutui, e i nostri conti di risparmio) ha mostrato che ogni anno vengono investiti nell’industria dei combustibili fossili centinaia di miliardi di dollari; investimenti che si infilano anche in portafogli che i fondi di investimento definiscono «eco-friendly» e «sustainable». Le compagnie petrolifere, nello scorso decennio, hanno tutte fatto un restyling in direzione del gas e verso l’essere «compagnie energetiche integrate» invece che semplici produttori di petrolio. Ma che non ci siano errori: il cuore del business è ancora il petrolio, mentre il gas è un finto disinvestimento, non è la tecnologia ponte pulita che risolverà i problemi; le rinnovabili non sono che una fettina della torta, una questione per i dipartimenti di comunicazione esterna delle compagnie, più che per quelli di Ricerca & Innovazione. Come sono relative al dipartimento di comunicazione iniziative come il fondo da 300 milioni di dollari per la riforestazione creato da Shell nel 2018, che sembra un’iniziativa concreta solo finché non lo si mette a confronto con i 25 miliardi di investimenti in produzione di gas e petrolio nello stesso anno. Gli investimenti in ricerca e innovazione nelle rinnovabili sono pochissimi rispetto agli investimenti complessivi di questi colossi dell’energia; del resto, fino a un decennio fa l’amministratore delegato di una compagnia come Eni poteva dichiarare in televisione che il core business della compagnia era esclusivamente il petrolio, e che, quando in un futuro lontanissimo la transizione energetica avrebbe avuto inizio, l’Eni avrebbe chiuso per fare spazio a nuovi operatori energetici. Ora che gli accordi di Parigi hanno messo una data limite di dieci anni per la transizione energetica, dichiarazioni come questa farebbero crollare i titoli di una compagnia; ma resta il fatto che finora la storia ha mostrato che le compagnie petrolifere sono state riluttanti a ripensare i sistemi energetici mondiali, nonostante ne detengano la chiave.
Uno degli aspetti più interessanti di questo processo è che ha in gran parte preso forma grazie alle recenti ricostruzioni storiche di Spencer Weart e John Cook (et al.) che dimostrano come la Exxon, e si suppone quindi anche le altre grandi compagnie petrolifere, avessero commissionato fin dagli anni Cinquanta ricerche sul riscaldamento globale, e che già dagli anni Settanta, grazie all’accresciuto potere computazionale, queste ricerche abbiano dimostrato un legame netto tra consumo di combustibili fossili e surriscaldamento globale; e che quindi fino almeno dagli anni Ottanta l’industria petrolifera conoscesse benissimo le conseguenze a lungo termine del proprio operato. Il risultato di queste ricerche non fu però allora, ormai quarant’anni fa, di iniziare a pianificare una transizione verso diversi prodotti energetici. Al contrario, le compagnie come la Exxon hanno tenuto segreti i risultati, finanziando invece, fino a quando è stato possibile, contro-ricerche che smentissero prima il fenomeno del surriscaldamento globale, e poi il legame tra questo e l’azione dell’uomo.
Ora che non si può più negare l’evidenza, e che intralciare la ricerca scientifica è inutile, la narrazione costruita dall’industria petrolifera è di fare gli interessi economici mondiali: si lavora alla transizione energetica ma, finché non ci saranno le tecnologie adatte a renderla finanziariamente praticabile, non si può far altro che continuare a bruciare CO2 come se nulla fosse – una narrazione in cui energie pulite e benessere economico dell’uomo della strada sono incompatibili, e in cui le compagnie energetiche metteranno sempre al primo posto quest’ultimo. La crisi finanziaria del 2008 (per inciso, l’unico momento negli ultimi 200 anni in cui il consumo energetico globale abbia visto una piccola decrescita invece che una continua salita) ha dato particolare peso a questa nuova narrazione. Non a caso, una recente inchiesta ha rivelato che le lobby dell’industria del carbone finanziano di nascosto molta stampa che si autodefinisce marxista ma che porta avanti battaglie della destra nazionalista; oppure, in modo anche più subdolo ma efficace, si parla tanto di sustainability come scelta nei consumi personali, mettendo la responsabilità del cambiamento energetico e produttivo nelle mani dell’individuo, attraverso la scelta dei consumi.
È questa la piccola grande bugia nella narrazione che circola sul clima, la piccola grande bugia che sottende in realtà a tutto il sistema capitalistico: quella dell’azione individuale. Si educa ad usare la bicicletta invece che la macchina, a imparare a non cavarsi gli occhi con la cannuccia di metallo per abbandonare la plastica, a comprare a chilometro zero e di stagione (Ben van Beurden, l’amministratore delegato della Shell, si è di recente scagliato contro chi mangia fragole in inverno) – il tutto sacrosanto per carità, come è importante cercare di rieducarci alla scarsità energetica, un problema con cui l’umanità ha convissuto per millenni fino all’introduzione degli idrocarburi 150 anni fa. Ma quando si guarda ai numeri, le emissioni causate dal consumo individuale non contano che per un 20% del totale; e ancora più impressionanti sono i numeri della finanza mondiale, del giro d’affari degli investimenti nel petrolio. Ci si rende conto quindi che cambiare i propri stili di vita senza agire sui gangli dell’economia mondiale è assolutamente inutile: per parafrasare lo slogan di una recente campagna pubblicitaria, Eni + Luca è meglio di Eni, dove però Eni è l’elefante, e Luca la piuma che gli si posa in testa.
Sapere cosa sarebbe successo se le compagnie energetiche avessero avuto gli incentivi (o l’obbligo…) di cambiare le proprie strategie allora, è ormai un lavoro di contro-storia; sapere, come spera Mark Carney ma come recenti ricerche mettono in dubbio, se un cambiamento energetico globale sia compatibile col sistema capitalistico, lo scopriremo in un futuro forse non troppo lontano. In ogni caso, dove sia la politica che i mercati stanno fallendo, questo processo potrebbe essere la prima mossa per smuovere un macigno pesante quarant’anni di inerzia.
*Marta Musso è ricercatrice a King’s College London, dove si occupa di storia dell’energia e digital humanities. Ha conseguito un dottorato di storia economica all’Università di Cambridge ed è stata Max Weber Fellow alla European University Institute. È attualmente president di Eogan, il network degli archivi dell’energia (www.eogan.org).
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