
Tutti a casa. Tranne gli operai
L'appello a restare a casa non vale per tutti perché non tutto il mondo del lavoro può stare a casa con telefono e computer. Anche in questa situazione la salute di chi lavora sembra all'ultimo posto
I telefoni dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) in tutta Italia sono infuocati. Improvvisamente si scopre che c’è una figura che rappresenta tutti i lavoratori prevista per legge per tutti i luoghi di lavoro e che deve essere consultata su tutti i rischi aziendali. Il Covid19 è un nuovo rischio, uno shock. In un’assemblea provavo a definire lo shock della figura del Rls (prevista a partire dalla legge 626 del 1994, ma di cui si iniziava a far cenno nello Statuto dei lavoratori che a maggio compie 50 anni) nel mondo del lavoro:
«Bisogna riconoscere che il Rls è una figura shoccante. Lo è per i lavoratori, lo è per le aziende, lo è per le organizzazioni sindacali. È uno shock perché è una figura che per legge deve esserci e deve essere formato e ancora non se ne conoscono diffusamente le potenzialità. A questo, per tanti anni, non siamo stati abituati, perché, passatemela, il sindacalista classico non è questo, non c’è per obbligo, non è formato per forza».
L’emergenza generale per la diffusione del Covid19 fa conoscere massicciamente questa figura anche laddove non se ne era mai sentito parlare. Mette in luce anche le responsabilità per tutte le figure coinvolte a partire dal datore di lavoro, il Rspp (Responsabile del servizio prevenzione e protezione), il Medico Competente. Si capisce che il Documento di valutazione del rischio (Dvr) – il documento che valuta tutti i rischi anche questo obbligatorio per tutti – per alcuni settori ha sì il rischio biologico, ma non contiene il Covid19 e lo scenario che si sta creando soprattutto negli ultimi giorni, quindi bisogna correre ai ripari. Aggiornare il documento vuol dire valutare il rischio e predisporre le misure necessarie a contrastarlo. In fretta e con i cambiamenti di tutti i giorni dovuti ai decreti ministeriali e alle misure regionali, il mondo del lavoro si è trovato di fronte a una nuova minaccia sulla salute. Una minaccia diffusa, insidiosa e rapida su tutto il territorio, per il lavoro in aggiunta a polveri, gas, amianto, veleni e sostanze di ogni tipo, fatica, stress, turni, movimentazione di carichi, rischi di ogni forma vissuti quotidianamente.
A Prato le antenne si sono drizzate da quando l’epidemia del Covid19 è esplosa in Cina. Nelle istituzioni e nei servizi di prevenzione c’era già un’attenzione molto alta. La comunità cinese pratese, come raccontato sulla stampa e come riconosciuto dai medici dell’ospedale Spallanzani che per primi si sono interfacciati con i due contagiati turisti cinesi, ha applicato da subito e con successo le misure di auto quarantena e di tutela come erano in vigore nel proprio paese. Nei luoghi di lavoro però l’allerta è arrivata solo adesso come in tutto il paese. Con l’idea che le merci non fossero portatori del virus, ci siamo come dimenticati che i luoghi di lavoro sono fatti anche di individui che si muovono, che vengono dalle zone rosse, che vivono a stretto contatto. Questa la dice lunga su come ha scavato in tutti il sistema economico in cui viviamo. Si temevano i cinesi e le merci cinesi, non temevamo noi stessi. Nella percezione del rischio abbiamo fatto esattamente come con le morti sul lavoro: «tanto non tocca a me, tanto non mi riguarda, tanto non possiamo farci nulla».
Nella chat dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza della Cgil di Prato ci siamo scambiati dal 22 febbraio, all’indomani della notizia del caso di Codogno, indicazioni per la valutazione del rischio. Chi ha provato a muoversi subito nei luoghi di lavoro è stato denigrato. Anche all’indomani delle prime misure ministeriali o regionali, nei luoghi di lavoro si è minimizzato. «Gli Rls sono troppo previdenti, troppo rompiscatole, ci stiamo pensando a livello aziendale». «Sì, ora vediamo dove e come mettere i cartelli, come dare le comunicazioni, come ordinare saponi e soluzioni». «Non vi agitate, non fate entrare il panico fra i lavoratori». In barba agli articoli di legge che li vuole «coinvolti» sono stati isolati più del solito.
La nostra chat si riempiva di documenti e indicazioni, così come le mailing list di Rls di vari settori italiani in cui sono inserita, per primi i ferrovieri. Leggevo richieste di incontro, lettere, segnalazioni, proposte. Certo l’emergenza è per tutti, fuori e dentro il lavoro ed è stata una rapida escalation, ma molti Rls si sono mossi per tempo e non si sono ascoltati e non si stanno ascoltando. Minimizzare, eludere, ritardare, non fare finché non siamo nel problema fin dentro il collo, scegliere fra salute e profitto. A questo siamo abituati, basti pensare a Taranto, alle acciaierie di Terni e Piombino, a Monfalcone, alla Strage di Viareggio, ai numerosissimi processi sulle morti sul lavoro che finiscono con nessun colpevole e sono in carico al dolore dei familiari e a pochi altri. Inutile sgolarsi a non farle chiamare morti bianche, a spiegare che la dicitura con cui si equivoca il bianco è «omicidi bianchi» e non le morti, perché si voleva denunciare che bianchi, non compilati, sono i responsabili quando invece poi se si studiano morti e infortuni le colpe e le responsabilità ci sono tutte e sono in carico all’organizzazione del lavoro.
Cosa sta succedendo adesso? Dopo le ultime misure nazionali dilaga il tutti a casa, ma il tutti a casa non vale per tutti. Non tutto il mondo del lavoro può stare a casa con telefono e computer. Il decreto intima che ci si può spostare solo per necessità e per comprovate esigenze lavorative. Le comprovate esigenze lavorative chi le misura? Al momento non stiamo interrompendo tutto ciò che può fermarsi e non è misura essenziale per la sopravvivenza, anche se la Lombardia, sia come istituzioni che come sindacati confederali lo stanno richiedendo, così come a livello nazionale si sta chiedendo un rallentamento generale.
Le segnalazioni che ho ricevuto negli ultimi due giorni sono solo un piccolo spaccato:
- squadre di elettricisti che ritornano dalla Lombardia, qualcuno si mette in quarantena, qualcuno va in giro perché tutti fermi non si può;
- falegnami che sono senza mascherine e loro che le usano sempre per proteggersi dalle polveri di legno che sono cancerogene non ne trovano più;
- commesse a cui viene chiesto di non mettere mascherine o guanti o cartelli di allerta perché scoraggiano le vendite;
- negozi e bar o uffici e sportelli dove non si rispettano distanze e affluenza;
- farmacie dove non sta bene mettere cartelli con scritto «mascherine e soluzione igienizzante terminata» perché devono entrare comunque e compreranno altro;
- misure igieniche non rispettate in diversi contesti lavorativi (aponi? Soluzioni? Igiene? Li avete mai visti certi bagni o spogliatoi nei capannoni?);
- campi base con lavoratori che vivono in promiscuità e con la provenienza dei trasfertisti come si fa?
- fisioterapisti, assistenza agli anziani, produzione alimentare o tessile in catena come fanno a mantenere le distanze?
- Commerciali, manager, vetrinisti mandati in giro per i negozi anche se venivano dalle zone rosse o limitrofe ai focolai;
- Timore a segnalare casi sospetti o motivare chiusure (reparti/ negozi) per lavoratori messi in quarantena;
- Trasporti in tilt con ferrovieri, autisti, corrieri che chiedono perché e come dobbiamo muoverci/ proteggerci?
Senza poi contare il caos di chi è già fermo e non sa cosa succederà, fra autocertificazioni fatte compilare in modo improprio fra i datori di lavoro, decurtazioni di stipendio già comunicate, ferie o malattie forzate, riduzioni di organico e decisioni unilaterali senza passare da consultazione sindacale. Molte lavoratrici e lavoratori starebbero anche a casa, chiamano perché pretendono attenzione alle misure e alla salute, chiedono come fare, hanno paura sia dei contagi che del rimanere col culo a terra, hanno figli a casa per via della scuola e anziani o malati a cui portare la spesa. Tutta questa grande misura eccezionale di prevenzione che stiamo mettendo in campo non può essere solo sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori della sanità pubblica e di tutto il personale coinvolto massicciamente nell’emergenza (chiamiamoli lavoratori non eroi, perché eroi ci deresponsabilizza; chiamiamoli lavoratori perché stanno dentro un sistema pubblico che si è voluto smantellare negli anni e non sui miti o in cielo o da altri pianeti). Questa emergenza non la possono pagare i più deboli, non la possono pagare gli operai, i precari, i lavoratori in appalti, chi non ha nessuna garanzia o supporto in ogni settore, gli ultimi.
Il sostegno al reddito per chi non lavora e per chi è costretto a casa è il primo dispositivo di protezione individuale universale che sta mancando, proprio come le mascherine e altri Dpi che sono carenti un po’ ovunque.
L’ultimo film che ho visto al cinema prima della chiusura totale di tutte le sale è stato Snowpiercer dentro la rassegna dedicata al regista coreano premio Oscar, Bong Joon-Ho. Mentre tutto il mondo è ricoperto da una coltre di ghiaccio per una nuova era glaciale procurata dalle azioni degli umani, gli ultimi sopravvissuti viaggiano ormai da 17 anni su un treno. Il treno è autosufficiente e suddiviso in vagoni. Vagoni che descrivono bene la suddivisione in classi e come si svolge la vita in condizioni di limitazione suprema.
I morti nelle rivolte delle carceri avvenute in tutta Italia per le restrizioni ai colloqui in seguito al diffondersi dell’epidemia mi hanno ricordato terribilmente certe immagini del film. Sento spesso l’espressione, «sembra di essere in un film» o «surreale» per descrivere la sensazione di irrealtà in cui ci troviamo. La donna che cerca di reprimere la rivolta sul treno cerca di spiegare così la divisione in classi:
«Voi vi mettereste una scarpa in testa? Naturalmente non lo fareste mai. Le scarpe non sono fatte per la testa, le scarpe appartengono ai piedi e in testa si mette il cappello. Il cappello sono io, voi siete le scarpe, io appartengo alla testa, voi a piedi. Così è, questa è la realtà».
Ecco oggi ci affidiamo alle teste degli scienziati, ci impegniamo a rispettare le direttive dell’Organizzazione mondiale della salute, ci atteniamo ai decreti ministeriali e regionali, siamo ligi al dovere, al senso di responsabilità e al bene comune provando a sottrarre sempre più spazio al virus. Però lo lo riusciamo a fare davvero solo se ci ricordiamo che la locomotiva del paese la mandano avanti lavoratrici e lavoratori. Chi da sempre chiede salute e sicurezza nel lavoro e prima la salute, ora e nel futuro non può essere considerato solo una scarpa.
*Simona Baldanzi è nata a Firenze e vive nel Mugello. È autrice tra l’altro di Figlia di una vestaglia blu (Fazi 2006, Alegre 2019), che ha vinto il Premio Miglior Esordio di Fahrenheit Radio3 Rai, di Il Mugello è una trapunta di terra(Laterza, 2014) e di Maldifiume. Acqua, passi e gente d’Arno (Ediciclo, 2016).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.