Un Green New Deal per l’Italia
La proposta presentata da Legambiente dimostra che le risorse per la transizione ecologica ci sarebbero subito. Ma un piano di trasformazione ecosostenibile deve avere una visione della società e un'idea organizzativa per affrontare la battaglia
L’espressione «Green New Deal» è ormai entrata nel dibattito pubblico italiano in maniera stabile, molto spesso contradditoria, a simboleggiare la necessità di un intervento a sostegno dell’ambiente e di misure in grado di contrastare il fenomeno dei cambiamenti climatici. All’origine l’abbiamo conosciuta come una proposta per l’Europa lanciata da Giorgio Airaudo e Luciano Gallino nel 2001, l’abbiamo poi ritrovata nel dibattito anglosassone attraverso il rinnovato interesse delle sinistre continentali per la nuova sinistra socialista americana e le proposte di Alexandra Ocasio Cortez e a cascata nel programma del Labour capitanato da Jeremy Corbyn che in un difficile tentativo di non farsi fagocitare dal dibattito della Brexit ha immaginato una trasformazione ecologista del Regno Unito.
In Italia l’abbiamo sentito evocare dal premier Conte come elemento dirimente del nuovo programma di governo in maniera speculare alla nuova commissione guidata da Ursula Von der Leyer. Da mesi lo sentiamo spesso pronunciare dal segretario del Partito democratico, e da moltissimi suoi esponenti, come uno dei princìpi politici che giustifica la permanenza all’interno del governo. Una sorta di green washing politico per il partito che per tantissimi attivisti e attiviste italiane resta quello dell’approvazione dello «sblocca Italia» e del «ciaone» ai milioni di cittadini che si erano espressi contro le trivellazioni in mare.
Nel frattempo il movimento ecologista di Fridays For Future – e in misura minore nel nostro paese di Extinction Rebellion – è esploso coinvolgendo milioni di persone in scioperi e manifestazioni in grado di influenzare un dibattito pubblico sempre molto tiepido sulle questioni ambientali. In Italia, in particolar modo, il movimento si è innestato immediatamente su una situazione sociale assolutamente non pacificata che ha visto nell’ultimo decennio capillari mobilitazioni di massa in difesa dei territori e contro le grandi opere, per la pubblicizzazione dell’acqua e contro il nucleare, per la salute e un nuovo modo di concepire l’economia in relazione all’ambiente.
Se è vero che in tantissimi – soprattutto tra i più giovani – attraverso Fff hanno scoperto la piazza e la politica collettiva è anche vero che le loro rivendicazioni e pratiche di mobilitazione si sono fin dall’inizio contaminate con realtà organizzate e singoli attivisti formatisi nelle lotte degli ultimi anni con un’avversione verso la politica istituzionalizzata, rafforzata ancor di più dal tradimento del Movimento 5 stelle delle importanti battaglie contro l’Ilva e la Tap oltre che della più generale visione ambientalista che esprimevano alla loro fondazione. Naturale che in questo contesto la locuzione «Green New Deal», vista la continua pratica di appropriazione da parte delle forze governative senza una reale conseguenza in termini di provvedimenti legislativi, desti qualche perplessità nelle realtà che animano i nuovi movimenti ambientali.
Se nel dibattito americano il significante «Green New Deal» si è esteso sdoganando misure radicali in termini economici e sociali in grado di spostare significativamente l’intero dibattito politico a sinistra, in Italia l’estendibilità della locuzione ha portato lentamente all’annacquamento della stessa in un generico impegno «a favore dell’ambiente». Emblematico l’annunciato, e poi immediatamente ritirato, intervento contro i 19 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi e il continuo depotenziarsi dei decreti e delle misure immaginate dal Ministro Costa e dal consiglio dei ministri. Elementi ridotti in sede di presentazione della legge di bilancio a una simbolica Plastic Tax e a qualche mini incentivo al trasporto pubblico, tra l’altro sempre più messi in discussione dai vari pezzi della maggioranza e che difficilmente reggeranno il dibattito in aula.
È quindi fondamentale per il movimento ecologista trovare gli strumenti per riappropriarsi dell’espressione «Green New Deal», occupandone il significato con nuovi contenuti emergenti dalle mobilitazioni, le associazioni ambientaliste e gli attivisti facendo chiarezza sui suoi orizzonti e i suoi punti di rottura con il modello esistente. È necessario costruire un nuovo patto sociale per l’ambiente e non può avvenire con queste regole del gioco e in modo indolore per chi negli ultimi decenni si è arricchito e ha guadagnato potere attraverso la distruzione del nostro ecosistema.
Ora è il tempo del Green New Deal?
Un primo importante – e inascoltato – tentativo in questo senso è stato presentato da Legambiente, la più radicata organizzazione ambientalista del paese, e dal Forum Diversità e Disuguaglianze attraverso un documento di proposte alla legge di bilancio 2019 intitolato «Ora il tempo del Green New Deal». In primo luogo è importante chiarire che per quanto evochi il Green New Deal non ha l’ambizione di esserlo: è piuttosto un documento di venti pagine di proposte su una specifica legge di Bilancio, con una funzione essenzialmente diversa e contingentata all’immediatezza del dibattito pubblico. Un’operazione che mira a dire che negli spazi esistenti – pochissimi – si può fare molto per definire e finanziare un deciso cambio di rotta smascherando la retorica «green» di chi mette in mostra la propria sensibilità ambientale e poi si nasconde dietro il dito delle «ristrettezze di bilancio».
Un documento che prova a fare il punto della situazione rispetto alle politiche governative enunciando degli elementi incontrovertibili che rompono con la retorica – più volte sbandierata dal governo – dell’Italia come Paese che più ha fatto contro i cambiamenti climatici. In Italia le emissioni di CO2 continuano a crescere – secondo i dati Ispra più del Pil – e gli investimenti sul trasporto pubblico collettivo o sulle energie rinnovabili sono fermi da anni. La collaborazione con il Forum delle disuguglianze si esprime quando si mette in evidenza come la transizione ecologica non possa far a meno di porsi il tema delle disuguaglianze, della giusta transizione per i lavoratori, di una nuova idea di indirizzo pubblico dell’economia e del ruolo strategico che dovrebbero avere nella riconversione le grandi aziende pubbliche italiane tramite l’affido di specifiche missioni di medio lungo termine e di un reindirizzamento della spesa pubblica (170 miliardi l’anno) secondo stringenti criteri di sostenibilità. La proposta messa sul piatto è – dopo decenni di egemonia liberista – un indirizzamento dell’economia e degli investimenti pubblici su cinque campi cruciali come le rinnovabili, l’efficienza energetica, l’economia circolare, la mobilità sostenibile e l’adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici.
Legambiente, nel rapporto, pone una questione generale di come vengono gestite e monitorate le politiche nel nostro Paese notando che lo stesso meccanismo decisionale, di attuazione e di amministrazione dello Stato, va profondamente rinnovato: interessante da questo punto di vista la richiesta di istituzione di un «ministero della transizione» e di un coordinamento delle politiche per l’ambiente all’interno della presidenza del Consiglio dei Ministri – data la profondità del tema è infatti impensabile che possa essere affrontato unicamente dal ministero dell’ambiente senza il coinvolgimento degli altri dicasteri.
Dal documento presentato si evince un’eccessiva fiducia nell’Unione europea, nella sua attuale struttura istituzionale e nei fondi che la nuova programmazione dovrebbe destinare alla riconversione ecologica e ambientale. Doveroso chiedersi, dati gli interpreti, come potranno approvare misure in grado di incidere nella modifica strutturale del sistema economico. A sostegno di questo scetticismo basterebbe osservare da vicino, soprattutto per quello che fanno nei rispettivi paesi, le forze che sostengono la nuova commissione verso cui, oltre alla sinistra europea, anche gli stessi Verdi europei sono all’opposizione e profondamente scettici sulla reale volontà di imprimere una svolta alle politiche comunitarie.
Il merito, ma forse anche il limite, del documento è la sua immediata attuabilità: analizzando a fondo come potrebbe essere usata la «leva fiscale» per la riconversione mette in evidenza come siano già disponibili decine di miliardi di euro nel bilancio dello Stato da mettere subito a disposizione di una trasformazione ecologista. A cominciare dai 19 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi – di cui si chiede una riduzione progressiva e selettiva per evitare di incidere da subito (senza un adeguato accompagnamento) sulle fasce di popolazione più deboli – per arrivare a una carbon tax, alla ridefinizione delle royalties delle concessioni autostradali, dei diritti di estrazione nelle cave, dell’utilizzo delle risorse idriche o dei litorali a fini privati.
I fondi così acquisiti dovrebbero, nell’ottica delle realtà proponenti, finanziare una «visione del cambiamento» in grado di incidere a fondo sull’elettrificazione – a cominciare da come si produce e distribuisce tra cittadini l’energia aggredendo il fenomeno delle povertà energetiche – la mobilità sostenibile, il trasporto merci, l’utilizzo delle risorse naturali, la forma e i servizi delle nostre città, le abitazioni in cui viviamo con particolare attenzione per i condomini in cui risiedono 20 milioni di italiani e che rappresentano un campo fondamentale di intervento per ridurre emissioni e migliorare il benessere collettivo.
Quale visione per una nuova società?
Seppur siamo coscienti che si tratta di un documento specifico di proposte al governo sulla legge di bilancio (fin troppo ottimista sulle possibilità di ascolto da parte del governo), quel che secondo noi manca è la capacità di trasmettere una visione generale della trasformazione ecologica. Sulla persistenza di questa mancanza – non solo in questo documento ma complessivamente nella parte del dibattito ecologista italiano che si propone di dare un contenuto alla «transizione» – evidentemente incide la specifica assenza in Italia di uno spazio politico ambientalista, in grado di costruire opinione e visione su cosa significhi costruire una società ecologista, di metterne in luce a pieno i nessi con le battaglie sociali ed economiche, con la costruzione di una visione del futuro che le persone possano contribuire a creare e in cui possano riconoscersi.
A differenza di quel che avviene nel dibattito americano, infatti, è evidente il timore di intervenire in maniera radicale su tematiche centrali per la costruzione di una società ecologica: il sistema economico nel suo complesso, il modello democratico, i piani industriali, il mondo del lavoro. Probabilmente si tratta di bon ton associativo per non invadere il campo di altre organizzazioni – come quelle sindacali – impegnate in un importantissimo dibattito interno. Un galateo che però indebolisce significativamente il valore politico del documento stesso lasciando indietro alcune questioni sistemiche imprescindibili.
Seppur sia importantissimo mettere in campo un discorso in grado di mostrare al governo quante risorse siano immediatamente disponibili per la riconversione ambientale – se solo ci fosse la volontà politica di andarle a prendere – rischia di essere un’operazione sterile se non aggredisce nel suo complesso un sistema economico che fonda la propria stessa natura nell’estrattivismo, nell’accumulazione e nello sfruttamento della natura e dell’uomo. Il rischio è proporre l’aumento delle entrate statali mettendo giustamente in evidenza come le royalties derivanti dalle estrazioni oil&gas siano ridicole a fronte dei profitti senza però dire con chiarezza che se vogliamo avere una chances di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto 1,5 C° tutto quel che è nel sottosuolo deve rimanerci e di conseguenza le estrazioni in terra e mare devono cessare il prima possibile e non oltre il 2025.
Parlare di Green New Deal, significa immaginarsi un nuovo modello sociale nel suo complesso a cominciare dalle forme economiche che assume, dall’orizzonte valoriale di cui si dota e dagli strumenti di decisione e co-decisione che vuole applicare. È impensabile affrontare il tema del Green New Deal senza affrontare la questione delle grandi opere inutili e del modello estrattivista e di dominio sulla natura e sulle popolazioni che queste rappresentano. Come ha già scritto Wu Ming 1 esiste, infatti, un nesso fondamentale tra cambiamenti climatici e modello delle grandi opere. Oppure – come ci ricordano nell’ultimo documento approvato nella loro assemblea nazionale gli attivisti e attiviste di Fridays for future – non si può al contempo promuovere la transizione a un sistema economico a zero emissioni entro il 2030 senza ricordare che opere come la Tap, la Snam o la metanizzazione della Sardegna – oltre a essere investimenti su energie fossili di cui dovremmo assolutamente fare a meno (ed esistono già ora le tecnologie per farlo) – in quella data non saranno neanche completate.
La dolorosissima contraddizione tra salute e lavoro va affrontata con decisione senza più balbettii, immaginandosi quale futuro industriale sia necessario al nostro Paese con il conseguente massiccio impiego di risorse nella ricerca pubblica in grado di sostenerlo, trovando al contempo sia soluzioni immediate di sostegno dei lavoratori coinvolti in attività inquinanti e dannose sia la chiusura ad horas delle stesse fino ad avvenuta riconversione ecologica ed economica attraverso meccanismi di coinvolgimento dei lavoratori stessi nel capitale societario. Solo attraverso un coinvolgimento diretto della forza lavoro e della cittadinanza nei meccanismi di decisione aziendale – anche nelle formule proposte dal Forum Delle Disuguaglianze – sarà possibile davvero reindirizzare l’economia verso il benessere collettivo e non il profitto di pochi. Ma soprattutto va detto con forza che la riconversione industriale e produttiva, gli interventi per la messa in sicurezza del territorio, per le rinnovabili e l’efficientamento energetico, per un nuovo modo di produrre cibo in maniera sostenibile, creano più posti di lavoro di quanti se ne perderebbero chiudendo tutte le attività inquinanti. Per intervenire in maniera strutturale ed efficace sul modello produttivo non basta una carbon tax e qualche meccanismo di certificazione aziendale.
Aprire una breccia, occupare il dibattito pubblico
La sfida al governo sul Green New Deal, quindi, non può passare unicamente da un lungo elenco di proposte. La stessa azione quotidiana degli ultimi anni delle organizzazioni e dei movimenti ambientali ci insegnano che prima di tutto è la connessione, la visione, l’idea di società che va articolata per costruire una reale prospettiva politica e culturale. La sfida del Green New deal va concepita per quello che è: una vera e propria battaglia egemonica di lungo periodo dove le forze della trasformazione e quelle della conservazione si scontreranno fino in fondo, saggiando quotidianamente i rispettivi rapporti di forza. In questi termini è fondamentale per il movimento ecologista definire una strategia con cui invadere questa breccia nell’egemonia dominante espressa da un tentativo di recupero della dimensione ambientale attraverso la messa a punto di un nuovo spirito eco-friendly dei centri di comando politico ed economico. Un tentativo di risposta alle enormi pressioni popolari da un governo e un establishment in profonda crisi di credibilità, con una ristretta base sociale e una vitale necessità di inventarsi qualcosa di «nuovo».
Alla luce di un autunno molto movimentato, di un consenso crescente nel paese in grado di condizionare anche le forze sociali più tradizionali e della classica montagna governativa che partorisce il topolino, perchè non sfidare apertamente questo governo sul Green New Deal e sul tema della democrazia partecipativa? Perché non costruire – come propone anche Legambiente – un grande dibattito pubblico in grado di coinvolgere la popolazione nella definizione di cosa vuol dire creare un sistema paese realmente sostenibile attraverso un percorso aperto, partecipato e decidente? Se nessun cambiamento potrà avvenire se non sarà «socialmente desiderabile», il miglior modo per renderlo tale è aprire alla cittadinanza lo spazio di definizione di quella che sarà una società ecosostenibile.
Si proponga un dibattito pubblico alla francese dalla durata di nove mesi fino alla prossima finanziaria, senza trasformarlo nella scusa per non approvare tutte le misure necessarie per l’ambiente di cui abbiamo più urgente bisogno a partire proprio da quelle delineate dal rapporto. Si costruisca un enorme processo di partecipazione e pedagogia pubblica attraverso pubblicazioni e interventi degli scienziati in grado di dire la verità sui cambiamenti climatici alla popolazione, di coinvolgere i territori nelle loro composizioni popolari e istituzionali, le organizzazioni, i movimenti sociali. Un percorso pubblico organizzato e guidato da una cabina di regia non governativa in cui coinvolgere associazioni, movimenti e sindacati e che si proponga di definire gli obiettivi strategici della svolta ecologista, i piani di investimento, la direzione da imporre all’economia pubblica, le scadenze e i meccanismi di controllo dei risultati.
Si colga questa occasione storica per costruire alleanze, per imporre temi e strategie di trasformazione, per imprimere un’accelerazione nella svolta ecologica e smascherare i tentativi di green washing. Il movimento ecologista non è un classico movimento contro l’approvazione di una singola legge simbolo di un paradigma neoliberale ma un processo reale di trasformazione della società. Le piazze di questi mesi e di quelli che verranno avranno necessariamente bisogno di ossigeno per crescere, per strutturarsi organizzativamente e costruire intersezionalità con altre battaglie sociali, avranno bisogno di spazio in cui sperimentarsi e sulla base del quale definire i propri obiettivi. Il rischio è che dopo l’esaltazione del riscoprirsi massa in movimento ci si rinchiuda nella normalizzazione, nella depressione di un possibile fallimento oppure nella coptazione da parte del sistema politico ed economico dominante.
Green New Deal come un nuovo spazio organizzativo
Il Green New Deal, per essere davvero sottratto a quanti oggi ne vogliono fare un piede di porco per infiltrare i movimenti, non può ridursi a una piattaforma di idee, a una serie di punti programmatici che si contrappongono ad altri punti a volte più moderati a volte più radicali con l’unico risultato di creare una bolla dialettica che difficilmente incide nella realtà. Certamente è fondamentale individuare le risorse che possono essere investite nella trasformazione ecologica e sociale – come quelle individuate da Legambiente e Forum delle disuguaglianze – o aprire una breccia in grado di dimostrare che i fondi ci sono e che oggi vengono dati a chi inquina, così come è importante il lavoro di immaginazione e proposta che viene dal mondo ambientalista e di movimento nel loro articolarsi intorno a punti programmatici precisi.
Pensiamo però che bisogna andare oltre nella definizione della trasformazione che questi fondi dovrebbero finanziare, del modello di società che dovrebbero creare e soprattutto degli strumenti organizzativi per ottenerli.
Se l’obiettivo dell’establishment è quello di normalizzare le piazze, ricondurle alla classica partecipazione politica della delega elettorale, magari abbassandone l’età nell’illusione che serva a recuperare qualche centinaia di migliaia di voti, è chiaro che la risposta debba essere una soltanto: costruire un’organizzazione in grado di affrontare appieno la sfida che abbiamo davanti utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Non attraverso la dimensione del partito – o di una nuova associazione ambientalista. Il Green New Deal deve invece produrre una struttura reticolare in grado di unire singoli, associazioni, movimenti, sindacati, scienziati, rappresentanti istituzionali a tutti i livelli ed equipaggiarli per affrontare la grande battaglia egemonica su come si esce dalla crisi climatica, su come incalzare il governo e il potere economico per incidere sulle decisioni, su come salvare la specie umana e organizzarla secondo nuovi modelli orientati alla sostenibilità e alla giustizia sociale.
*Stefano Kenji Iannillo è attivista Arci Avellino, già membro della delegazione italiana alla Cop22, del comitato referendario contro le trivellazioni e parte di movimenti ecologisti come Stop Biocidio.
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