
Una sconfitta per la giustizia razziale
Dopo anni di processo (e 18 mesi di carcerazione preventiva) la Cassazione ha annullato la condanna a 4 eritrei accusati di favoreggiamento all'immigrazione clandestina: erano colpevoli di aver aiutato alcuni loro connazionali
Sette anni fa iniziava a Roma un processo con imputati sei giovani eritrei accusati di far parte di un’associazione transnazionale finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il 20 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha riconosciuto quello che la difesa e gli stessi imputati avevano sostenuto per sette anni e tre gradi di giudizio: i quattro rifugiati eritrei accusati, a Roma, di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare hanno agito per solidarietà verso i loro connazionali, amici e parenti.
I giudici della prima sezione penale hanno, infatti, annullato senza rinvio la sentenza di appello e assolto gli imputati perché «il fatto non sussiste». Non conosciamo ancora le motivazioni che hanno portato alla completa assoluzione degli imputati dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare – inizialmente configurata come un’associazione transnazionale dedita al traffico di migranti, con la richiesta di pene fino a 16 anni – ma sappiamo che si tratta solo di una tappa in una battaglia politica da combattere dentro e fuori le aule dei tribunali. Una battaglia contro norme odiose, che illegalizzano la fuga dei migranti e criminalizzano le infrastrutture di solidarietà che la sostengono. Ma anche una battaglia per affermare che la libertà di movimento, agita dalle e dai migranti, è un’azione politica radicale, nella misura in cui si oppone a un regime globale dei confini che è strumento di dominazione, oppressione e sfruttamento.
Tutela dei migranti o tutela delle frontiere
Proprio sotto il secondo profilo, non possiamo tacere le difficoltà che hanno accompagnato l’iter di questo processo e che si ripresentano ogni volta che a essere imputati del reato di solidarietà sono i migranti. È, infatti, innanzitutto verso i migranti che la retorica sui trafficanti produce un muro di diffidenza. Da un lato bisogna mettere in conto un discorso pubblico e mediatico che insiste ossessivamente sulla ricerca dei colpevoli delle stragi in mare individuandoli, a seconda del colore del governo di turno, nei trafficanti o in chi per funzione istituzionale ne dovrebbe impedire le attività criminose, assolvendo in questo modo da ogni responsabilità politica il regime dei confini che ha trasformato le rotte dei migranti in passaggi sempre più letali per chi li attraversa. Per altro verso questa stessa retorica è alimentata da una narrazione che depoliticizza la libertà di movimento, riconducendo le migrazioni a movimenti forzosi, facilitati da approfittatori e sfruttatori, e che rappresenta chi attraversa irregolarmente i confini come vittime inermi intrappolate in un sistema criminoso. Una retorica che rischia di trascinare con sé anche il variegato mondo dell’antirazzismo, non di rado impegnato in raffinati distinguo sulla lotta ai «veri trafficanti», quando non si fa paladino dell’aumento delle misure repressive, di volta in volta rivendicate in nome della lotta agli scafisti, al traffico di esseri umani, alle nuove schiavitù dove si insidia lo sfruttamento, e così via.
Ciò che viene perso di vista è che l’art. 12 del Testo Unico Immigrazione – che prevede la fattispecie di reato del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare – ha poco a che fare con la tutela dei migranti, mentre si erge a protezione del «bene giuridico» delle frontiere, ed è proprio su questa base che travolge sia gli attivisti sia il mutuo aiuto tra migranti, poiché le condotte di solidarietà sono incriminate a prescindere da ogni scopo di profitto o sfruttamento.
È in questo quadro che va letta e rivendicata l’importanza della decisione della Corte di Cassazione, che ha rovesciato ben due gradi di giudizio nei quali la Corte di Assise, prima, e la Corte di Assise di Appello, poi, avevano condannato con pene dai due ai quattro anni i rifugiati eritrei per l’aiuto prestato ai connazionali. Una decisione frutto dell’ostinazione e della collaborazione tra le avvocate della difesa, ma anche del coraggio degli imputati di affrontare, dopo quasi due anni di custodia cautelare in carcere, un dibattimento reso ancor più duro dall’isolamento in cui si svolgono i processi che vedono imputati i migranti per reati connessi all’immigrazione irregolare.
La giustizia razziale
La vicenda era cominciata nel 2015 con un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Roma collegata a quella che a Palermo aveva portato all’arresto di un falegname eritreo accusato ingiustamente di essere il noto trafficante di esseri umani Mered Medhanie. I quattro rifugiati di Roma erano stati arrestati il 14 marzo 2016, assieme ad altri due imputati successivamente assolti, con l’accusa di far parte di una cellula romana dell’associazione transnazionale facente capo a Medhanie e dedita al favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di migranti dall’Eritrea fino ai paesi del nord Europa, passando per l’Italia. L’iniziale teorema dell’accusa è sintomatico dell’atteggiamento diffuso nelle procure che, a partire dagli anni immediatamente precedenti alla cosiddetta «crisi» dei rifugiati del 2015, fanno ampio uso degli strumenti dell’antimafia per il contrasto all’immigrazione irregolare. In altre parole, le imputazioni per il reato associativo non si reggono su elementi materiali, bensì su una calotta interpretativa che configura l’operatività del traffico transnazionale di migranti come una sorta di «tour operator» capace di far giungere i migranti dal Corno d’Africa al nord Europa. Ogni tratta del viaggio, anche quelle interne ai confini nazionali, diventa in virtù di questo schema interpretativo una tappa di un più ampio disegno criminoso, al quale viene ascritto anche ogni aiuto prestato ai migranti in transito.
Già in primo grado era caduta l’accusa di associazione, ma gli imputati sono stati comunque condannati per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, nonostante fosse stata riconosciuta l’assenza di ogni finalità di lucro. Gesti semplici, come l’acquisto di cibo, vestiti e di biglietti dell’autobus dalla Sicilia a Roma, o come l’offerta ad amici e parenti provenienti dall’Eritrea di un posto dove dormire, sono stati ricondotti a quegli «altri atti» diretti a favorire l’ingresso irregolare verso un altro Stato previsti dall’art. 12 del Testo Unico Immigrazione, con esclusione quindi della clausola umanitaria che scrimina il soccorso prestato a stranieri privi di permesso di soggiorno sul territorio italiano. In altri termini, le condotte solidaristiche degli imputati costituivano, secondo i giudici, favoreggiamento del transito verso altri Stati membri dell’Unione europea, proprio come nel caso delle accuse mosse inizialmente agli attivisti di Linea d’Ombra a Trieste e dell’associazione Baobab a Roma. Tuttavia, mentre negli ultimi due casi indicati la vicenda si è risolta rispettivamente con l’archiviazione e l’assoluzione chiesta dal pubblico ministero in primo grado, per i rifugiati eritrei ci sono voluti sette anni, di cui quasi due trascorsi in carcere, e tre gradi di giudizio.
In Italia, la cultura giuridica è poco avvezza a sottolineare gli aspetti di una giustizia «razziale», nonostante la facilità con la quale i migranti vengono prima incarcerati e poi giudicati dovrebbe far risuonare più di un campanello di allarme. Difficilmente i migranti coinvolti in inchieste per il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare vengono dipinti dalla stampa mainstream come paladini della solidarietà, né ricevono la stessa attenzione degli attivisti italiani o europei. Il punto non è, tuttavia, criticare il rilievo mediatico giustamente – lo sottolineiamo con convinzione! – riconosciuto ai processi che coinvolgono associazioni e Ong, ma piuttosto quello di aprire una riflessione sull’iter stesso di questi processi. Anche quando le inchieste si chiudono con un nulla di fatto, con assoluzioni o con sentenze largamente ridimensionate rispetto alle richieste delle procure, l’effetto è quello di colpire le reti di solidarietà che permettono ai migranti di fuggire dalle guerre e dalle dittature, dalla violenza patriarcale, neocoloniale e economica, o che, più semplicemente, ne sostengono la legittima aspettativa di poter decidere le sorti della propria vita.
Per una contemporanea «ferrovia sotterranea»
Da questo punto di vista, vi è un filo rosso tra l’inchiesta sugli eritrei, che ha coinvolto alcuni dei luoghi romani della solidarietà e dell’autorganizzazione dei migranti come la baraccopoli di Ponte Mammolo e l’occupazione di via Curatone sgomberate tra il 2015 e il 2017, e le indagini aperte contro gli attivisti delle Ong del soccorso in mare. In entrambi in casi, l’obbiettivo già raggiunto dalle inchieste è quello di compromettere le stesse infrastrutture della solidarietà attraverso cui si muovono i migranti: fermare le navi da soccorso, per mesi o a volte per anni; smantellare i luoghi che fungono da tappe intermedie del viaggio; costringere alla diffidenza e all’isolamento le reti comunitarie dei migranti. Ed è proprio in virtù di questo filo rosso che non è sufficiente accontentarsi delle assoluzioni, ma è necessario fare degli stessi processi contro la solidarietà dei luoghi di contestazione della retorica dominante. Il fine non può che essere quello di rovesciare l’immagine del «tour operator» che muove i migranti, per affermare, invece, la legittimità politica dell’azione di quelle reti, formali e informali, che danno corpo a quella infrastruttura della solidarietà che – come una contemporanea «ferrovia sotterranea» – è necessario costruire e difendere per la libertà di movimento delle e dei migranti.
L’esperienza dei movimenti femministi è, in questa chiave, quella alla quale ci sentiamo più affini. È trasformando i processi civili e penali in luoghi di pratica politica che il femminismo è riuscito ad affermare la valenza pubblica della violenza contro le donne e di genere. Ed è anche attraverso i processi che continua oggi la battaglia contro la riduzione a vittime delle donne e le narrazioni tossiche che alimentano e perpetuano la violenza.
Qualcocosa di simile è necessario anche per i processi sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, a partire da quello che ha preso avvio a Trapani in questi giorni contro quattro attivisti della Ong tedesca Iuventa, e che vede sul banco degli imputati anche Save the Children e Medici senza frontiere. Non è un caso che quello alla Iuventa sia il primo processo a una Ong ad arrivare a dibattimento da quando il governo italiano ha dato il via alla campagna di criminalizzazione del soccorso in mare, visto che l’organizzazione tedesca è stata probabilmente la prima a rivendicare esplicitamente il significato politico dell’intervento umanitario, quale azione in solidarietà con le persone migranti, denunciando il regime dei confini europei come responsabile delle morti in mare.
Allo stesso tempo, non si deve perdere di vista la dimensione europea della criminalizzazione della solidarietà e delle migrazioni. A Malta, tre giovani richiedenti asilo rischiano il carcere a vita per aver protestato contro la decisione di riportarli in Libia da parte del capitano del mercantile El Hiblu, che aveva soccorso in mare il gommone su cui si trovavano insieme ad altre 108 persone. Arrestati allo sbarco, i tre – di cui all’epoca due minorenni – hanno speso sette mesi in carcere e sono ora in attesa di processo con l’accusa di terrorismo, mentre una campagna internazionale ne chiede l’assoluzione da tutte le accuse. In Grecia, invece, come ricostruisce tra gli altri il rapporto «Incarcerating the marginalized», l’uso sistematico del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ha assunto dimensioni di massa, in seguito alla cosiddetta «crisi dei rifugiati» e all’accordo Ue-Turchia del 2016. Solo tra il 2014 e il 2019, sono oltre ottomila i migranti arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che rappresenta la seconda ragione di detenzione nelle carceri elleniche. Un fenomeno analogo si riscontra in Italia dove, secondo una ricerca realizzata da Arci Porco Rosso e Alarm Phone, dal 2013 sono stati oltre 2.500 i procedimenti per favoreggiamento, quasi sempre contro persone appena arrivate in Italia. Arrestati di norma al momento dello sbarco, e condannanti al termine di procedimenti sommari con la sola assistenza della difesa d’ufficio, i migranti accusati di essere «scafisti» sono i capri espiatori perfetti. Condannare gli «scafisti» significa infatti assolvere il regime dei confini per le migliaia di morti in mare che si verificano a poche decine di miglia dalle coste italiane.
La sentenza della Corte di Cassazione nel caso degli Eritrei di Roma è dunque importante non solo perché rende giustizia ai quattro imputati, che possono finalmente tornare a ricostruire le loro vite dopo anni di processo e 18 mesi di carcerazione preventiva, ma per tutti coloro che prestano solidarietà a chi attraversa i confini, attivisti delle Ong e delle associazioni ma anche gli stessi migranti solidali verso i loro connazionali che esercitano il diritto costantemente negato alla libertà di movimento. In attesa delle motivazioni, che permetteranno di conoscere il ragionamento seguito dai giudici, la sentenza rappresenta infatti un passo in avanti nella messa in discussione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che è stato negli ultimi anni uno degli strumenti chiave nella criminalizzazione delle migrazioni. Una decisione che si aggiunge a un’altra recente sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità di un pezzo della fattispecie dell’art. 12 del Testo Unico Immigrazione, l’aggravante dell’uso di documenti d’identità falsi o contraffatti.
Si tratta delle prime crepe che da molti anni a questa parte si aprono in uno degli architravi normativi che sorreggono l’apparato di confine italiano. In queste crepe, aperte grazie al lavoro di avvocate e attivisti, si apre uno spazio per la contestazione radicale del reato di favoreggiamento e del regime dei confini europei che non può che essere politica, al fianco della lotta quotidiana delle e dei migranti per la libertà di movimento.
*Carlo Caprioglio è assegnista di ricerca e docente a contratto di Clinica legale all’Università Roma Tre. Tatiana Montella avvocata, femminista, si occupa di diritto penale, di diritto dell’immigrazione e di violenza di genere e ha fatto parte del team di avvocate del processo ai sei giovani eritrei. Enrica Rigo insegna Filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, dove ha fondato la Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza, ed è autrice di La straniera. Migrazioni, asilo e sfruttamento in una prospettiva di genere (Carocci, 2022)
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