Una vita partigiana
Da disertore passato alla Resistenza e storico contro il rimosso coloniale, Angelo Del Boca non ha mai smesso di combattere
Eravamo dei ragazzi pieni di insicurezze e di paure, ma anche desiderosi di trovare una nostra strada. Entrammo nella Resistenza portando ognuno i propri dubbi, le proprie perplessità, le paure e le ingenue speranze. I comandanti, invece, avevano le idee chiare, possedevano un’ideologia e qualcuno aveva partecipato alla campagna di Spagna nelle file delle Brigate internazionali. Avevano una loro storia e appartenevano a un’altra generazione. Noi, al contrario, eravamo ragazzi senza un passato di cui andare fieri e, anzi, uscivamo a fatica dal fascismo. Non è che avessimo grandi ideali, ma qualche convinzione sì, e precisamente, in ordine d’importanza: 1) non morire; 2) tornare a casa, dalla nostra famiglia; 3) sparare a tedeschi e fascisti.
L’importante era vivere. Trovarci di colpo in un’altra dimensione procurava insicurezza; eravamo disorientati e i nostri comandanti ci hanno fatto, in un certo senso, da fratelli maggiori o da padri… Poi, giorno dopo giorno, gradualmente, è cresciuto dentro di noi un uomo nuovo. Ci siamo accorti di essere cambiati. E di voler cambiare profondamente questa nostra Italia. Ero un insofferente: non riuscivo a capire come si potesse continuare ad avere un’Italia così…
Per me, la Resistenza continua ancora oggi. In ciò che faccio, c’è sempre qualche legame con i valori di quel periodo.
Settant’anni dopo la Liberazione, pubblicando da Mondadori il suo diario partigiano Nella notte ci guidano le stelle con la cura di Mimmo Franzinelli, Angelo Del Boca traccia nelle ultime pagine del volume i contorni della sua vita partigiana, in senso stretto e in senso lato, con una spiazzante sincerità. La sua opera come scrittore, giornalista e storico si è nel frattempo incardinata come fondamento civile sul piano dell’indagine, della narrazione e della riflessione in particolare sul Novecento italiano e africano, in scia a quella «scelta» iniziale: «un’attività di ricerca, ricostruzione e demistificazione in linea con i valori civili e politici maturati nel periodo partigiano», come scrive Franzinelli.
Il partigiano
Da ragazzo che non ancora diciannovenne si arruola con la Repubblica sociale italiana per poi cambiare idea e disertare, a partigiano combattente, fino ad autore affermato, Del Boca non trascura mai una partecipazione profonda e, appunto, sincera, ai fatti umani. Così quando nel 1944 decide definitivamente di passare ai partigiani, guidando un gruppo di disertori intimoriti e in parte riluttanti, rileva: «Provo un non so che nell’abbandonare la mia pistola, ma ero preparato a tutto. A poco a poco perdo tutti i miei indumenti. Mi rammarico, ma trovo che la ragione è dalla loro». La ragione della Resistenza. È qui, dall’autoriflessione consapevole e da questa «svestizione» concreta e simbolica, che nasce Del Boca partigiano, scrittore, giornalista, storico, docente – umano indagatore dei fatti umani, delle ragioni e dei torti della storia.
Come scrive di lui Italo Calvino – di neanche due anni meno giovane – nel 1949 su Italia contemporanea in un saggio sulla letteratura italiana sulla Resistenza, riferendosi ai racconti di Dentro mi è nato l’uomo (Einaudi 1948), la guerra partigiana ritratta da Del Boca «è un sapore di giovinezza, d’avventura scalmanata ma trepida di pensieri e affetti», dopo un periodo di «solitudine e d’incertezza negli anni del ventennio» (così sempre Calvino su L’anno del giubileo, sempre Einaudi 1948).
Lo storico contro il rimosso coloniale
Molti anni dopo, introducendo il suo volume autobiografico Un testimone scomodo, d’altra parte, scritto a 75 anni («un’età che, secondo le statistiche, costituisce, per un italiano maschio, il limite massimo della speranza di vita»), Del Boca stesso scrive che se ha scelto le professioni di giornalista, storico e docente, è stato soprattutto per un «grande bisogno di testimoniare, di denunciare menzogne e mistificazioni»: «penso dunque che continuerò fino alla fine, fintantoché mi resterà un lettore e un contestatore, ad esercitare il mio diritto-dovere di informare». Avrebbe riproposto le medesime considerazioni ne Il mio Novecento, edito da Neri Pozza otto anni più tardi, a ottobre del 2008.
La sua vera battaglia di una vita sarebbe stata quella, combattuta da storico e con la penna in mano, sul rimosso coloniale – espressione ora assodata, che va di pari passo, come dimostrano le polemiche di questi giorni, con il rivendicato coloniale della generazione dei nipoti di squadristi e fascisti. Dagli «italiani, brava gente» ai «colonizzatori, brava gente», insomma, il passo è breve.
Forte della sua riconosciuta statura, Del Boca nella sua lunga avventura umana e intellettuale aveva perfettamente compreso come sia quanto mai decisivo il ruolo dei professionisti del passato nell’arena pubblica – penso, com’è ovvio, alla celeberrima querelle con il «negazionist[a]» Montanelli dove la storia «vinse» sulla memoria.
Il pensiero, naturalmente, va a Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, un libricino – che ha comunque quasi 600 note – dall’inesauribile fortuna editoriale che si incastona in decine di migliaia di pagine scritte in oltre settant’anni di produzione. Il titolo sarcastico e antifrastico è scelto dal Del Boca, anche in polemica con un articolo di Pierluigi Battista su La Stampa del 28 agosto 2004 (Italiani brava gente. Un mito cancellato). A tre anni dalla sua pubblicazione, ne Il mio Novecento, Del Boca stesso ne racconta i retroscena, affidandosi al suo diario alla ricerca della precisione millimetrica: iniziato il 28 dicembre 2004, viene terminato il 14 giugno 2005 («Trecento pagine in meno di sei mesi, un record anche per me»), dopo un momento di scoramento, il 12 gennaio:
Stamane mi sono svegliato affogato nel peggior pessimismo. Addirittura ho pensato che non avrei potuto condurre a termine il libro che sto scrivendo. Poi, però, dopo un paio di ore di lavoro, mi sono ripreso. Non è la prima volta che, all’inizio di un libro, sono preso dal panico. Questa volta, poi, c’è la consapevolezza che mi sto mangiando gli 80 anni. Non è piacevole giungere a questa età e accorgerti che quasi tutti i tuoi amici se ne sono già andati e non puoi più confidarti con nessuno.
Risultato: oltre centomila copie vendute, uno dei libri di storia più citati del Novecento italiano (anche se non sempre letto, ça va sans dire: è la fortuna/sfortuna dei titoli riusciti, in qualche modo autoevidenti, antifrastici, provocatori). Nell’ultima fase della sua vita Del Boca è rimasto a lungo, anche in virtù di questi numeri, in primissima linea. E aveva appunto passato gli ottant’anni, anche se era di una lucidità impressionante, disarmante. D’altra parte si era laureato – honoris causa – pochi anni prima (sic).
Del Boca è stato, per molti versi, una e molte nemesi. Storico non accademico fieramente autodidatta, ma guardato con ammirazione dall’ambiente universitario; giornalista, epiteto che in genere fa sorridere o imbufalire gli storici professionisti, e che nel suo caso non fu così percepito; polemista ma mai prono alle semplificazioni – si è sempre interrogato sul perché le «avventure» coloniali abbiano avuto così tanta partecipazione, abbiano riscosso e riscuotano così tanto consenso e così tanto favore. Storico dalla schiena diritta, e con le idee molto chiare sul senso profondo del suo lavoro: sotto certi aspetti Italiani, brava gente? si può considerare il punto d’arrivo di un lungo percorso. Permettetemi di riproporre le citatissime (anche da lui stesso) parole che campeggiano nell’introduzione, che delineano nitidamente il senso dell’operazione:
Nel ripercorrere, in questo libro, la storia d’Italia dalla guerra al brigantaggio al secondo conflitto mondiale, prenderemo in esame alcuni episodi, particolarmente efferati, accaduti in Italia, in alcuni paesi europei occupati dalle forze dell’Asse e nelle colonie italiane d’oltremare, e ne illustreremo la dinamica nel preciso contesto storico. Possiamo però già anticipare che non esistono attenuanti per i protagonisti di questi episodi, perché le colpe evidenziate sono troppo palesi, inconfutabili. Il mito degli «italiani brava gente», che ha coperto tante infamie, e anche queste che esporremo, appare in realtà, all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico. Esso è stato arbitrariamente e furbescamente usato per oltre un secolo e ancor oggi ha i suoi cultori, ma la verità è che gli italiani, in talune circostanze, si sono comportati nella maniera più brutale, esattamente come altri popoli in analoghe situazioni. Perciò non hanno diritto ad alcuna clemenza, tantomeno all’autoassoluzione.
Soprattutto sui temi cardine del libro e di tutta l’opera mastodontica di Del Boca – una storia politico-diplomatica, militare e sociale del colonialismo italiano, così come dei crimini del colonialismo italiano e dell’imperialismo fascista – il cambio di paradigma, anche nel comune sentire, è stato non trascurabile. Oggi in Italia esiste una fiorente produzione storiografica sul tema e a livello di senso comune, di impegno civile e finanche di «guerriglia toponomastica» (penso al lavoro dei Wu Ming), molto è mutato. È più che evidente che la produzione scientifica e pamphlettistica di Del Boca abbia avviato una rivoluzione della memoria pubblica italiana. Gli stereotipi restano al contempo «duri a morire» anche 18 anni dopo, non lo si può negare.
D’altronde Del Boca stesso scrive introducendo La storia negata, un’opera collettanea del 2009 che punta il dito contro «la nebulosa di contraffazioni che ci opprime, ci soffoca, ci avvilisce», nel circoscrivere il campo dei protagonisti, «illustri e oscuri, di questa falsificazione della storia»: questi vanno «dai massimi gerarchi del fascismo ai più alti esponenti delle Forze Armate; da giornalisti alla ricerca del successo e del facile guadagno a docenti universitari di ogni livello. Ma qualche volta è lo stesso Stato che organizza una colossale truffa per far dimenticare gli orrori della notte coloniale». La scelta delle parole, atto fondante per chi nella vita ha scritto decine di libri (oltre settanta, mi disse) e migliaia di articoli, non è casuale: Del Boca parla di «truffe», e di «orrori»; prima abbiamo sentito «non esistono attenuanti»; «colpe […] palesi, inconfutabili» e «infamie», e che gli italiani che si macchiarono di quei crimini «non hanno diritto ad alcuna clemenza». Questi sono giudizi, e anche piuttosto severi.
Fanno venire in mente il Primo Levi de I sommersi e i salvati, che scrive ne «La zona grigia», subito dopo aver «afferma[to] con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale»: «Se dipendesse da me [è il “se fossi Dio” di Se questo è un uomo, quarant’anni dopo], se fossi costretto a giudicare, assolverei a cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato minimo, e su cui la costrizione è stata massima».
E penso che sia legittimo e doveroso esplicitarli, i giudizi; al netto delle opportune premesse come queste leviane. E Del Boca lo sapeva benissimo. D’altra parte è stato – in senso lato e in senso stretto – uno storico partigiano. Per una vita intera, a partire dalla «scelta» resistenziale del 1944. Il suo bisogno di testimoniare, di denunciare, è stato insopprimibile. Scrive sul suo diario il 22 giugno 2003, a proposito di un suo discorso «ampiamente criticato dalla destra nostalgica»:
Ho pronunciato il mio discorso davanti a tremila persone nel parco della Memoria di Fondotoce in occasione del 59° anniversario della strage dei 42 partigiani ossolani. Trenta minuti di un discorso pronunciato con rabbia, interrotto sette volte dagli applausi. E poi quel finale, quel «basta», che ha scatenato la folla. Non ho risparmiato nessuno, al punto che Roberto Cota, leghista, dirigente regionale, ha abbandonato indignato la cerimonia. Mai come oggi ho avvertito che i valori della resistenza sono stati veramente traditi.
Il divulgatore che non si arrende mai
Incontri pubblici, libri, giornali, radio e tv, Internet, social media. Questi «luoghi» Del Boca, persino presente su Facebook nell’ultimo scorcio della sua vita (il profilo, 196 amici, è ancora attivo), li frequentava con regolarità e lucidità: dalla sua celebre presenza nel documentario della Bbc Fascist Legacy (1989) fino alle molte interviste rilasciate ancora negli ultimi anni, Del Boca ha dimostrato che uno storico non può eludere la dimensione pubblica, assolutamente conscio del fatto che questo potrebbe suscitare polemiche. D’altra parte, lo sappiamo, la destra post-neo-cripto-para-filo-fascista gli ha ripetutamente appioppato l’etichetta di «anti-italiano»; è sufficiente una ricerca su Google per trovarne esempi a iosa. Era lui a essere anti-italiano, certo, non la realtà storica a mostrare tutte le nefandezze di cui gli italiani di allora, fascisti e non, si macchiarono. Come si dice: il mondo alla rovescia. A negare, ridimensionare o giustificare quei crimini ora ci pensa soprattutto la malafede, contro la quale, purtroppo, non c’è rimedio.
Chissà cosa avrebbe detto e scritto Del Boca, assistendo all’istituzione della «Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini» il 26 gennaio o al film Comandante scritto da Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi, due operazioni convergenti che nell’ultimo biennio hanno ancora una volta santificato, implicitamente o de facto, le forze dell’Asse o i suoi protagonisti. Quante pagine nere della nostra memoria pubblica si stanno scrivendo, in questi anni: mentre ancora aspettiamo una Giornata della memoria delle vittime del colonialismo italiano per il 19 febbraio, Yekatit 12, in ricordo del massacro di Addis Abeba, dobbiamo sorbirci ancora la paccottiglia revisionista del «colonialismo buono», del «mio nonno, gran brava persona» o – e chissà cos’è peggio – del «facevano tutti così». Anche oggi la nebulosa di contraffazioni ci opprime, ci soffoca, ci avvilisce.
Conservo però con amore Viaggio nella luna, un lungo racconto di ispirazione autobiografica del 1955 (uno dei suoi scritti migliori, un repêchage dal suo archivio privato del quale andava immensamente fiero) riedito da La Mandragora nel 2011, anche perché nella dedica che mi ha fatto il 4 aprile del 2013 – probabilmente rendendosi conto che era un momento decisivo per la mia vita ma che io voglio applicare a tutto questo discorso sulla memoria pubblica – mi lasciò «un consiglio»: «non arrendersi mai!».
Ed è forse questo uno dei lasciti più limpidi di un uomo che, allo scoccare degli ottant’anni, «mangiandoseli», aveva deciso che era ora di mettersi ancora a combattere, con le parole. Come sei decenni prima aveva fatto, con le armi. Per questo Angelo Del Boca fu e resta, oltre che un grande storico, un «divulgatore» eccezionale, e una gran brava persona, un partigiano. Allora, ora e sempre.
*Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti di Editori Laterza. I suoi ultimi libri sono Il buon tedesco (Laterza, 2021) e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (Laterza, 2023). A ottobre è uscito il suo I Pirati delle Montagne (Rizzoli), romanzo per ragazzi su una banda di partigiani stranieri, e l’anno prossimo la Storia internazionale della Resistenza italiana (Laterza), a cura sua e di Chiara Colombini. Questo è il testo dell’intervento all’Omaggio a Angelo Del Boca. Partigiano, giornalista, pioniere della storia del colonialismo italiano (Torino, Polo del Novecento, 15 novembre 2023).
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