
La legge del mare e lo schiaffo del soldato
«Comandante» celebra la figura di Salvatore Todaro, l'uomo che dedicò la sua carriera militare all’incessante smania di dominio dell’Italia fascista
«Non sono stati gli inglesi che ci hanno affondato, sono stati i fascisti».
«Porci fascisti!».
«Tanto è uguale».
Questo dialogo, nel cuore del lungometraggio Comandante di Edoardo De Angelis, scritto con Sandro Veronesi e con Pierfrancesco Favino a interpretare il comandante della Marina militare italiana Salvatore Todaro, è particolarmente istruttivo perché restituisce nitidamente la sensazione che percorre tutto il film. Le prime due battute sono affidate agli unici personaggi negativi della pellicola, che poco oltre «meriteranno» una paterna e testosteronica tempesta di schiaffi rifilata dagli uomini dell’equipaggio italiano e da quelli, belgi, da loro salvati – ci tornerò su. Mentre il lapidario «Tanto è uguale» lo pronuncia il comandante del «Kabalo», il mercantile battente bandiera belga – dunque neutrale – che Todaro decide di attaccare senza sapere, come si scoprirà solo più avanti, che trasporta materiale bellico britannico.
Nella drammatizzazione dell’episodio storico del 16 ottobre 1940 il salvataggio avviene in tre atti: in seguito all’affondamento della nave belga, i reduci vengono lasciati andare con un po’ di provviste; dopo un tempo indeterminato, sufficiente però ai belgi per sentirsi spacciati – al punto di dirsi di farsi un’ultima sega (sic) –, il sommergibile «Cappellini» di Todaro torna a cercarli, per trainarli in una zona sicura, ma non sappiamo perché il comandante maturi questa decisione; infine, per un incidente sulla scialuppa le cui dinamiche non sono chiare, i belgi finiscono in mare e il comandante italiano decide, assumendosene la responsabilità, di prenderli a bordo nonostante gli spazi angusti del sommergibile. Costringendo i suoi a una convivenza forzata che finirà, manco a dirlo, con il cuoco napoletano che suona il mandolino e la ciurma binazionale a cantare O surdat ‘nnammurato / Oi vita, oi vita mia in un momento di cameratismo all’acqua di rose.
Mi scuso con lettrici e lettori per il sarcasmo e per la raffica di – innocui – spoiler, ma d’altra parte il machismo cameratista nel film è la chiave di lettura di tutto l’episodio storico, pare: dal «chi si mette a piangere lo butto in mare» di Todaro a «voglio vedere il nemico che affonda» come ultimo desiderio di un suo sottoposto colpito a morte nell’unico combattimento che Comandante mostra, appunto con il «Kabalo». E sebbene ci siano anche alcuni momenti genuinamente toccanti, la nobiltà del gesto di Todaro di salvare i 26 uomini e ragazzi belgi non diventa un’occasione per riflettere in profondità sulla legge del mare – come più volte auspicato dagli autori, e sarebbe nobilissimo se l’effetto fosse quello – e sulle guerre degli uomini, ma solo su una presunta «italianità» accogliente, pittoresca e decisamente manesca che si trova in mare come per caso – si intuisce a stento che stia combattendo la guerra dell’Asse – e che non ha neanche bisogno di motivazioni umane. Basta la battuta che va a chiudere la storia a spiegare tutto.
Siamo nella baia di Santa Maria delle Azzorre, e i 26 naufraghi ripescati dall’equipaggio di Todaro scendono a terra.
«Perché voi ci avete salvato?», chiede il comandante belga a Todaro, ammettendo che lui non l’avrebbe fatto.
«Perché siamo italiani», risponde Todaro. Ah.
Già, italiani che combattevano le guerre fasciste. È sufficiente la biografia che appare sul sito della Marina Militare per illustrare quanto la carriera di Todaro – classe 1908 – sia incastonata nella brama di guerra che mosse il fascismo per vent’anni:
Dopo un lungo periodo di imbarco su unità di superficie e subacquee, nel 1936 operò con la 146a Squadriglia Idrovolanti di Cagliari Elmas e nel 1937 imbarcò su sommergibile operante nelle acque spagnole durante la guerra di Spagna. Nel giugno 1940, nel grado di Capitano di Corvetta, ebbe prima il comando del sommergibile Manara e poi quello del Cappellini con il quale, operando alle dipendenze di Betasom dalla Base Atlantica di Bordeaux (Francia), condusse missioni di particolare rilevanza bellica tanto da meritarsi ben tre citazioni sui Bollettini di Guerra. Nel novembre 1941 passò nella X Flottiglia MAS di La Spezia e, al comando dei mezzi d’assalto, partecipò ad importanti operazioni in Mar Nero, distinguendosi particolarmente durante la delicata fase del blocco dal mare della città di Sebastopoli. Rientrato in Italia, ideò e pianificò le operazioni “BO.G.1” e “Beta”, dirette contro l’aeroporto ed il porto di Bona ed interrotte poi per difficoltà tecniche; al rientro da quest’ultima operazione trovò la morte a La Galite (Tunisi) nel mitragliamento aereo di cui la nave appoggio Cefalo, sulla quale si trovava imbarcato, fu oggetto.
C’è bisogno di commentare? Forse sì, forse bisogna ripartire dalle basi.
Ne La Resistenza spiegata a mia figlia (2012; I edizione 2005), Alberto Cavaglion ricordava come Giorgio Bocca, travolto dalle polemiche relative al suo infatuamento antisemita in giovane età, avesse probabilmente tirato un sospiro di sollievo nel 1986, all’uscita de I sommersi e i salvati di Primo Levi, scrivendo un articolo intitolato La via del perdono passa per Vienna nel quale disse che le pagine sulla «zona grigia» di Levi – in cui leggiamo «Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato minimo e su cui la costrizione è stata massima» – autorizzavano a condannare «la pratica che consente di inchiodare un uomo al solo punto nero della sua vita». «Una pratica – insisteva Bocca – che fa pesare il punto nero sul piatto della bilancia quanto e più che tutto il resto della vita, quanto e più delle centinaia, delle migliaia di azioni corrette o benemerite che sono venute dopo». Intendiamoci, qui non si tratta di ergersi a giudici della vita di Salvatore Todaro (ognuno giudichi sulla base dei propri parametri), che si distinse in almeno un altro episodio del genere, né tanto meno di De Angelis e Veronesi. Quest’ultimo ha diffusamente raccontato nella novellizzazione del film la genesi del progetto di lungometraggio/libro, riassunta dal titolo di Avvenire che li ispirò: «prestare aiuto a chiunque rischi di perdere la vita in mare». Ed è sacrosanto, nobilissimo, commovente.
Qui però credo che sia il caso di interrogarci sull’opportunità di celebrare con un kolossal all’italiana la figura di Todaro come un eroe nazionale in una democrazia che, almeno in linea teorica, dovrebbe ripudiare il fascismo e le sue guerre. È una riflessione totalmente speculare a quella di Bocca, quella che si può abbozzare sul Todaro storico, prima ancora che cinematografico: in questo caso non si tratta di un percorso di ravvedimento à la Oskar Schindler – iscritto al Partito nazionalsocialista – o à la Giorgio Perlasca, fascista pentito (mai antifascista, però), uomini le cui vite ebbero uno scarto significativo e che salvarono migliaia di persone, per poi diventare due eroi sullo schermo. Qua si tratta di un uomo che tra i suoi ventotto anni e la sua morte a trentaquattro dedicò la sua carriera militare all’incessante smania di dominio dell’Italia fascista. Quanto conta, questo, «sul piatto della bilancia»?
«Quanti morti ha fatto Salvatore Todaro nelle sue campagne? E al servizio di quali ideali?», si chiedeva a ragione Tomaso Montanari a settembre, commentando l’apertura della Mostra del Cinema di Venezia proprio con la proiezione di Comandante. Per mutuare ancora le sofferte riflessioni di Bocca e le pagine di Levi, i «punti bianchi» della vita di Todaro ci consentono di assolverlo «a cuor leggero»? Come già denunciava Montanari per via del battage pubblicitario di allora, questa operazione culturale, a prescindere dalle intenzioni di chi l’ha scritto, realizzato e prodotto, è palesemente diventata l’occasione, ancora una volta, per una santificazione dell’«italiano» – anche se fascista – e delle sue guerre, in un film che inietta oltretutto un’inusitata dose di mascolinità tossica e culto della guerra (dei suoi riti, dei suoi miti, delle sue simbologie) in un’epoca in cui davvero non se ne sentiva il bisogno.
Nel film il gesto politicamente più maturo e consapevole che vediamo – il sabotaggio del sommergibile italiano da parte dei due belgi di cui sopra – è descritto come una sorta di raptus maligno (i due hanno sempre degli insopportabili ghigni, come se avessero una paresi) e incomprensibile, che scatena la furia dei due equipaggi, quello italiano e quello belga. Finalmente uniti nella punizione di quei due, che hanno osato tirare in mezzo la politica, con tanto di ralenti degli schiaffeggiatori che se ne vanno tronfi, gongolando nel loro essere fuori dalla storia nera come la pece nella quale sguazzano senza neanche saperlo.
*Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti di Editori Laterza. I suoi ultimi libri sono Il buon tedesco (Laterza, 2021) e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (Laterza, 2023). A ottobre è uscito il suo I Pirati delle Montagne (Rizzoli), romanzo per ragazzi su una banda di partigiani stranieri, e l’anno prossimo la Storia internazionale della Resistenza italiana (Laterza), a cura sua e di Chiara Colombini.
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