Stesso lavoro, stessi diritti? Non se sei un ricercatore
Oggi i precari della ricerca manifestano in tutti gli atenei per chiedere dignità e difendere il futuro dell’università pubblica. Il 14 dicembre appuntamento a Roma
Sale un certo imbarazzo quando gli studenti si rivolgono a te dandoti con naturalezza del prof. In fin dei conti sono abituati a vederti dietro la cattedra, dove stai da anni, magari con qualche capello bianco. Non sanno e neanche possono immaginare che tecnicamente tu non sia ancora un vero e proprio prof, con la tua docenza a contratto pagata 25 euro lordi l’ora (8 netti in media) da rinnovare, quando va bene, di anno in anno.
È simile all’imbarazzo che si crea fuori dalle mura universitarie, quando un amico ricercatore all’estero o un responsabile delle risorse umane proprio non riesce a orientarsi nella giungla di assegni di ricerca, borse post-doc, collaborazioni occasionali, ricercatori a tempo determinato – a loro volta divisi in tipo A e tipo B –, e di tutte le altre alchimie contrattuali che hai dovuto sperimentare per anni e anni. E alla fine ti puoi anche ritrovare, magari dopo dodici anni di questa vita dentro l’accademia, a dover decidere di cambiare paese o provare a reinventarti da zero una carriera. Se non fosse che gran parte delle aziende cui hai inviato il curriculum non hanno mai sentito parlare di dottori di ricerca, e non sanno proprio che farsene di tante pubblicazioni. Se non fosse che i concorsi all’orizzonte, come quelli per l’insegnamento nelle scuole superiori o per altre posizioni nella pubblica amministrazione, danno un peso pari a zero o poco più al tuo lavoro di ricerca e di didattica in università. Restano poche opzioni, di fronte a questo bivio: abbandonare il proprio bagaglio di ricerca accumulato in tanti anni, oppure fare i bagagli per portare quell’esperienza e competenze lontano dall’Italia.
Non si tratta di casi limite, ma del copione che conoscono bene migliaia di ricercatori e docenti precari delle università italiane. Sono la forza lavoro su cui poggia ormai la maggior parte dell’attività di ricerca e di didattica negli atenei: parliamo di 63.244 persone con contratti a tempo e senza tenure track (cioè senza che siano state accantonate risorse per una loro eventuale assunzione in ruolo) a fronte di 50.020 unità di personale strutturato, come rivela una recente indagine della Flc Cgil. Oltre il 55% della popolazione accademica che tiene in piedi laboratori, gruppi di ricerca e corsi di laurea è composto da quei precari che, negli ultimi dieci anni, sono stati via via sostituiti a ricercatori e professori strutturati. Dall’approvazione della legge 133 del 2008 e della “riforma Gelmini”, nel 2010, sono mancati all’appello circa 15mila docenti di ruolo su 60mila, in particolare professori ordinari, con una riduzione percentuale che si aggira intorno al 25%. Una contrazione drastica che ha comportato la chiusura di più del 20% dei corsi di laurea, soprattutto al sud. Professori e ricercatori sono stati rimpiazzati da un esercito di precari. Agli attuali 45mila strutturati si affiancano infatti quasi 2.500 ricercatori di tipo B (gli unici in tenure track), 3.300 ricercatori di tipo A, circa 14mila assegnisti di ricerca, quasi 27mila docenti a contratto e 10mila altre figure post-doc, ordinate in una scala decrescente di tutele, diritti e prospettive di carriera. La platea di coloro che riescono a farcela, di contro, è sempre più ristretta e privilegiata. Con gli attuali numeri del reclutamento, anche considerando i “piani straordinari” degli ultimi anni, quasi il 91% degli attuali assegnisti di ricerca sarà espulso dal sistema, anche dopo aver lavorato in accademia per 12 anni, e solo la restante parte avrà la chance di diventare professore associato, come ha mostrato la VII Indagine ADI su Dottorato e Postdoc. Passano in pochi da questo imbuto strettissimo, e sono sempre più anziani. Secondo l’ultimo rapporto Eurydice, infatti, in Italia solo il 4.6% dei docenti universitari italiani ha meno di 35 anni, mentre quasi il 56% dei docenti ha più di 50 anni, e siamo secondi in Europa per numero di docenti over-65.
Sono i numeri di un’emergenza cronica e di sistema che mette a repentaglio il futuro dell’università italiana proprio nella misura in cui chiude le prospettive di intere generazioni di ricercatori e docenti. La riforma Gelmini ha affilato le unghie ai baroni, invece che tagliarle come sostengono i proclami ideologici a sua difesa, e ha istituzionalizzato un sistema basato su contratti precari e canali di assunzione sempre più ristretti e incerti. Il risultato immediato di tale processo è l’aumento delle asimmetrie di potere interne all’accademia, a vantaggio di una élite sempre più ristretta di professori ordinari in grado di controllare i cordoni di una borsa, fatta di finanziamenti e opportunità di carriera, che nel corso degli anni è diventata via via più magra. Da una parte si sono sottratte le risorse, dall’altra si è data mano libera agli atenei nel gonfiare una bolla di precari a basso costo, facilmente ricattabili, con diritti di rappresentanza scarsi o assenti. Come ultimo tassello, il sistema di valutazione introdotto dall’Anvur ha rafforzato le dinamiche competitive e la guerra fra poveri dei precari della ricerca e della didattica per accedere a risorse scarse, incentivando una produttività a tutti i costi sempre meno libera e plurale, perché deformata da criteri calati dall’alto.
Il precariato universitario concentra su di sé tutte o gran parte delle contraddizioni di un sistema in crisi che vede a rischio la sua stessa sopravvivenza, in termini di numeri necessari alla sostenibilità e qualità dell’attività di ricerca e di didattica. Per questo oggi più che mai il futuro di migliaia di ricercatori e docenti “a scadenza” coincide con le prospettive più ampie di un rilancio del diritto allo studio, della didattica e della ricerca universitarie in questo paese.
Questa consapevolezza e il senso dell’urgenza hanno costituito la premessa di Ricercatori Determinati, il network di precari che ha lanciato la campagna “Stesso lavoro. Stessi diritti. Perché noi no?”: una piattaforma programmatica promossa da Adi ed Flc Cgil per un piano reclutamento, stabilizzazioni e riforma dei contratti pre-ruolo. Guardando al problema del precariato in un’ottica di sistema, questa campagna si fa portavoce di un’idea alternativa di università, lontana da un progetto che vede nella creazione di una ristretta élite di “eccellenza” in una desertificazione crescente della formazione e della ricerca il suo obiettivo implicito. Per questo la campagna non chiede l’ennesima mancia o toppa, che ormai sarà insufficiente a riparare la falla. Bisogna uscire dalla logica degli interventi spot, come quella che ha informato i piani straordinari di reclutamento degli scorsi anni, inadeguati anche nel compensare in un anno il numero di pensionamenti del personale strutturato.
Al contrario, le centinaia di colleghe e colleghi riuniti a Roma lo scorso 17 novembre per l’assemblea nazionale che ha dato il via alla campagna hanno chiesto un piano di assunzioni pluriennale che serva come premessa per un reclutamento ordinario e ciclico, unitamente a una riforma strutturale del pre-ruolo. Tra le proposte, costruite in oltre 20 assemblee organizzate dallo scorso maggio in tutti i principali atenei italiani, l’abolizione dei punti organico, dell’assegno di ricerca quale pozzo nero di tutti i mali accademici, e l’introduzione di una figura unica post-doc in tenure, per ridurre drasticamente il periodo di precariato pre-ruolo e dare prospettive certe ai giovani ricercatori. Il tutto richiede un finanziamento di 1,5 miliardi di euro per i prossimi anni per il reclutamento di 20 mila nuove posizioni stabili da inserire nel bilancio dello stato: il contrario del piatto di lenticchie dell’attuale legge di stabilità 2019 in discussione in queste ore. Con tali risorse si potrebbe procedere sin da subito a stabilizzare i precari storici e ad attuare un piano di reclutamento per migliaia di giovani ricercatori. Inoltre, la proposta mira a riformare radicalmente la docenza a contratto, facendone a tutti gli effetti un contratto a tempo determinato con adeguata retribuzione e diritti.
Per anni ci siamo sentiti ripetere che non c’erano le risorse. Negli ultimi tre anni, invece, scopriamo che le risorse – e tante – sono servite a provvedimenti per un’università sempre più elitaria. Due esempi: i 75 milioni all’anno per le Cattedre Natta, o il miliardo di euro stanziato per lo Human Technopole nella ex area Expo. È evidente: le risorse si trovano, se c’è la volontà politica di trovarle. Se vi fosse la volontà, oggi si potrebbero dirottare per il piano di investimenti qui avanzato le risorse delle Cattedre Natta (giustamente abolite) e dello Human Technopole, vincolando allo stesso scopo le risorse liberate ogni anno dai pensionamenti all’interno degli atenei. Allo stesso tempo, si potrebbero destinare all’Università le risorse recuperate dall’Iva sommersa attraverso lo split payment. Infine, una seria battaglia sul versante europeo dovrebbe puntare a svincolare subito gli investimenti su formazione, università e ricerca dal patto di stabilità.
Questi i temi e gli obiettivi su cui dallo scorso 17 novembre è stato lanciato un percorso di mobilitazione nazionale e permanente che si snoderà attraverso assemblee in tutti gli atenei dal nord al sud del Paese, che avrà un momento centrale la giornata di agitazione nazionale fissata per oggi con gli studenti e tutti coloro che vorranno sostenere le nostre ragioni, per la dignità dell’intera comunità universitaria. Non ci fermeremo: il 14 dicembre ci vediamo a Roma per un presidio di fronte alle istituzioni che in quelle ore decideranno delle nostre sorti e di quelle del sistema universitario votando la finanziaria. La strada non sarà breve, né facile: ne siamo consapevoli. Ma finché non avremo risposte, resteremo determinati a proseguire e rafforzare la nostra lotta per l’università pubblica in questo paese.
*Giuseppe Montalbano è ricercatore precario in teoria e scienza politica, segretario nazionale di ADI associazione dottorandi e dottori di ricerca. Tito Russo, del centro nazionale Flc Cgil, si occupa di scuola, università e ricerca principalmente in merito alle tematiche del precariato diffuso.
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