Alla ricerca del mutualismo
Un incontro all'università di Bergamo ha posto il tema della solidarietà tra soggetti diversi come strategia di emancipazione della ricerca sociale e dei precari che subiscono la crisi dell'accademia
L’umano, il collettivo, il senso della giustizia oltre la produzione e pur sempre al suo interno. Ecco i punti di partenza su cui si è sviluppato lo scambio di riflessioni ed esperienze durante l’incontro Mutualismo, Cooperazione e Ricerca pubblica che si è tenuto lo scorso 10 ottobre all’Università di Bergamo. In quest’occasione abbiamo proposto che il mutualismo, inteso come forma di solidarietà tra soggettività diverse, diventasse strumento e strategia di emancipazione della ricerca ma anche dei precari e delle precarie dell’università per affrontare alcuni degli assi critici del mondo del sapere accademico. All’incontro hanno partecipato ricercatrici e ricercatori di centri di studio e/o intervento universitari e indipendenti che hanno dato luogo a uno scambio suddiviso in quattro tavoli di discussione: pratiche di mutualismo e di cooperazione lavorativa tra i membri dei gruppi di ricerca; risorse economiche, forma giuridica e remunerazione del lavoro; metodologie di ricerca e strutturazione del rapporto con società civile e movimenti sociali; carattere pubblico della ricerca e forme di socializzazione dei risultati della ricerca stessa.
Risocializzare le crisi della ricerca accademica
I ricercatori e le ricercatrici dentro e fuori dall’università si sono esposte ed esposti a partire dal proprio posizionamento soggettivo nei luoghi di lavoro e nelle lotte sociali, e dalle proprie condizioni materiali. Facendo emergere alcune domande sul rapporto tra la soggettività del ricercatore e delle ricercatrici e il lavoro di ricerca. Dove viene prodotto il sapere e perché? A quali condizioni? Come viviamo nell’Università della frammentazione del lavoro e della subordinazione del sapere a meccanismi di valutazione efficientisti e di mercato?
Ciò che è emerso è che il ruolo pubblico della ricerca e le modalità di relazione che può avere con i movimenti sociali è caratterizzato da una tensione che può condurre da una condizione di ascolto a una vera e propria complicità solo a partire da un posizionamento reciproco e da una condivisione delle rispettive «fragilità».
Non si può allora non partire dalla crisi della ricerca nell’università come crisi del lavoro, e dalle specifiche esperienze personali come lavoratori e lavoratrici, per avere una lente per costruire ricerca pubblica che «lavori sul lavoro».
Decolonizzare il sapere, reinventare il potere era il tema che De Sousa Santos proponeva traslando il concetto di colonialità all’articolazione dei poteri egemonici nel mondo del sapere. L’assunto forse più semplice di questo complesso asse di decostruzione teorica e politica era l’accusa allo sguardo riduzionistico e discriminante della scienza occidentale. Si guardava infatti a come il rapporto fra chi si considera custode delle «competenze» della metodologia di ricerca scientifica e i soggetti che fanno l’esperienza dei fenomeni sociali fosse inquadrato in una miope relazione tra soggetto e oggetto.
Nel nostro obiettivo e nella nostra pratica di costruzione del sapere la domanda sul proprio processo di riconoscimento come soggetto sociale e politico si collega a quella sulle prassi di ricerca pubblica. In poche parole, come fare ricerca sia in termini di pratiche di organizzazione e autorganizzazione, sia di condivisione dei problemi sociali tra soggetti diversi tra loro. Per capire in che modo l’etica e l’epistemologia del sapere si riflettono nell’approccio metodologico.
C’è poi il tema, anch’esso problematico, della crisi dell’università come centro di produzione del sapere. La condivisione delle esperienze individuali e collettive ci ha fatto osservare come l’accademia spesso non riesca a sostenere, e anzi ostacoli, l’approfondimento di temi di rilevanza sociale. Ciò avviene per diverse ragioni, tra cui la struttura del lavoro instabile e precaria che non permette continuità nei percorsi lavorativi; il legame tra la pratica di ricerca e la valutazione produttivistica dei suoi risultati, che non permette al processo di ricerca di seguire i reali tempi della stessa; la mancanza di riconoscimento di forme di dialogo tra gli attori sociali come attori del sapere; e anche le incrostazioni del modello di ricerca monodisciplinare che inevitabilmente non riesce a leggere la complessità della società contemporanea. La stessa organizzazione delle risorse economiche è funzionale a una struttura che rafforza gerarchie sia interne al mondo accademico che ai sistemi del sapere, di pari passo con l’esaltazione dello spazio di produzione individuale a discapito della costruzione collettiva e comune.
Di fronte alla socializzazione di questi aspetti nel corso del seminario prima è serpeggiato un sentimento di rassegnazione sull’impossibilità di una presa di parola forte come corpo unico. Poi, man mano che procedevano i lavori, è cresciuta la consapevolezza di un vivo reticolato di esperienze di ricerca e intervento come resistenze quotidiane posizionate in interstizi creati tra «dentro» e «fuori» l’università.
Metodologia della ricerca e rapporto con i movimenti sociali
Ognuna delle esperienze che hanno preso parola interpreta il processo di costruzione di conoscenza critica attraverso una prassi differente. C’è chi, attraverso il proprio lavoro di intervento come cliniche e sportelli legali, costruisce le domande di ricerca e produce analisi che affrontano le ingiustizie emergenti nel vissuto e nei bisogni dei soggetti con cui lavora. C’è chi, stando nei luoghi sociali, sperimenta la co-ricerca, dove l’identificazione collettiva del bisogno, già processo di intervento sociale, diventa la possibile base di trasformazione della forma di rivendicare i diritti. C’è chi fa «ricerca per l’azione» e chi «ricerca-azione», chi fa inchiesta sociale e produce sapere che vuole trasformare la realtà e chi guarda all’intervento sociale come una forma di produzione di sapere.
Quello della costruzione di un rapporto dialettico con i movimenti sociali e della società civile sembra un processo che va per tentativi di evasione e invasione dell’accademia. Se è vero che c’è chi ha come obiettivo dare senso e basi materiali ai processi di ricerca fuori dai contesti accademici, c’è chi lotta quotidianamente per riportare ciò che viene esperito dai soggetti subalterni dentro la produzione di sapere universitario.
Forme di organizzazione della ricerca
La presenza e vivacità del seminario è la prova di una pluralità di pratiche già esistenti, ma ha prodotto anche la constatazione collettiva della mancanza o residualità di forme di organizzazione dei lavoratori e lavoratrici dell’Università che rispondano alla precarizzazione e alle gerarchie della struttura del lavoro – che le differenze tra chi è precario e precaria e chi non lo è spesso riproduce nella quotidianità.
La necessità di organizzarsi è vista non come assunto ideologico a priori ma come base produttiva e riproduttiva delle stesse lavoratrici e lavoratori. È da qui che emerge il nesso imprescindibile tra mutualismo e ricerca pubblica, perché nel contesto della crisi del lavoro e del sapere l’uno non può esistere senza l’altra.
Cosa intendiamo per mutualismo lo abbiamo scoperto insieme condividendo micro pratiche già in atto in molti dei gruppi presenti. Ricca è stata la riflessione sull’autogestione a partire dalla risignificazione stessa del lavoro e delle risorse non basate su un valore di mercato ma sull’espressione dei bisogni individuali. Bisogni che talvolta non possono trovare soddisfazione nelle forme contrattualistiche classiche, e che lo fanno attraverso meccanismi collettivi creati con il consolidamento della solidarietà, continuamente nominata nel corso della giornata e chiamata anche fiducia.
L’impulso a creare legami di solidarietà è una forma di resistenza per – secondo la definizione di Pino Ferraris – complementare alla resistenza contro o a rivendicazioni generalizzate per la classe delle lavoratrici e dei lavoratori dell’università. Il mutualismo non è solo una necessità, ma una priorità cronologica e ontologica in quanto forma più alta di solidarietà che permette di creare la coscienza condivisa di cui si sente la mancanza. Sul movimento dialettico tra solidarietà attiva e conflitto, basata su una sperimentazione permanente dell’autogestione, si fondano i processi costituenti e istituenti che necessariamente permeano il dentro e il fuori dell’istituzione – in questo caso accademica.
Pratiche di ricerca pubblica
Lo spazio di condivisione dell’analisi sul come fare ricerca pubblica ha provato ad andare oltre quella sulla relazione tra la struttura neoliberale del lavoro cognitivo e la scarsa, se non assente, accessibilità dei risultati di ricerca per gli attori sociali.
Sono emerse alcune delle forme più frequenti di condivisione del sapere. La pubblicazione scientifica; la pubblicazione non scientifica in quotidiani e riviste; il report di advising politico; i momenti di presentazione pubblica con attori associati della società civile o in spazi sociali coinvolti nelle questioni affrontate durante la ricerca; le forme di incorporazione tra i soggetti con cui si fa ricerca, delle conoscenze costruite durante il discorso e le strategie di vita quotidiane.
Nuovi percorsi di emancipazione
Le riflessioni a fine giornata erano piene dell’entusiasmo per essere state e stati a proprio agio in un confronto trasparente, e per la consapevolezza dell’importanza della solidarietà come elemento da ricollocare anche nel lavoro di ricerca – sia concettualmente che nelle pratiche quotidiane allo scopo di rispondere alla frammentazione e individualizzazione del lavoro. Questo ponte tra l’individuo e il collettivo è la base di una riflessione sulla necessità di meccanismi di valorizzazione del lavoro in comune, e/o dell’azione politica, come ricercatrici e ricercatori, spesso reso invisibile, delegittimato o criminalizzato.
In questo contatto che la ricerca-intervento crea con gli attori sociali si costruisce valore per l’università senza che la sua struttura si prenda carico dei costi di riproduzione sociale degli spazi dove ciò avviene e dei soggetti che li animano. La consapevolezza con cui abbiamo chiuso l’incontro è il valore degli sforzi di autorganizzazione di queste organizzazioni sociali, non solo perché mettono in pratica micro-strumenti di solidarietà che si contrappongono ai processi di precarizzazione del lavoro della conoscenza, ma anche perché rappresentano gesti simbolici di resistenza alle crisi affrontate, dando senso quotidiano e risorse al lavoro della conoscenza.
*Martina Lo Cascio assegnista di ricerca all’Università di Bergamo, si occupa di Supermarket Revolution, cibo e agriculture in Italia. È attivista di Contadinazioni-autoproduzioni contro ogni sfruttamento e della rete nazionale Fuori Mercato. Carlotta Ebbreo sta concludendo un dottorato all’Università della Calabria durante il quale ha lavorato sulla ricontadinizzazione in territori di montagna in Sicilia e in Andalusia. Da una piccolissima associazione, Porto di Terra, porta avanti da più anni pratiche di agroecologia e partecipa in diverse forme al movimento per la sovranità alimentare.
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