Black Lives Matter cinque anni dopo
Insidiato dal recupero istituzionale delle sue istanze e dal suprematismo bianco, cos’ha prodotto il movimento Black Lives Matter e cosa resta ancora da fare?
L’autopsia ha confermato la versione dei vicini sui fatti avvenuti nel condominio poco fuori Houston, Texas. Pamela Turner, quarantaquattro anni, già nonna di tre nipoti, era distesa a terra mentre cercava di appellarsi all’umanità dei poliziotti che la sovrastavano, urlando loro di essere incinta.
L’ufficiale Juan Delacruz ha ignorato le sue suppliche, ha sfoderato la pistola, e ha sparato cinque volte. Tre proiettili hanno trapassato il corpo di Turner, uccidendola. Uno ha colpito la guancia sinistra, distruggendole il viso. Un altro ha colpito il seno; l’ultimo, l’addome. L’ufficiale medico l’ha classificato come omicidio.
Quello che è successo dopo è un copione già visto molte volte. La polizia ha sanzionato Delacruz con un congedo amministrativo (pagato) di tre giorni, la famiglia si è rivolta all’avvocato civile Benjamin Crump, il reverendo Al Sharpton ha pronunciato l’elogio funebre ed è stata organizzata una manifestazione molto partecipata che ha costretto la polizia a dire qualcosa di più delle solite parole di circostanza.
Nei cinque anni trascorsi dall’assassinio di Mike Brown Jr per le strade di Ferguson e dall’esplosione delle rivolte nel Missouri, la polizia ha ucciso più di quattrocento persone in tutti gli Stati Uniti; un quarto di loro era afroamericano. Cinque anni dopo, le vite dei neri contano ancora? Di fronte a una sequela di ostacoli interni ed esterni, il «movimento» è a un punto morto, malgrado un suprematista bianco sia al comando della Casa Bianca.
L’omicidio di Mike Brown, e le rivolte che ha ispirato, hanno aperto un periodo di proteste che puntavano con coraggio a porre fine al regno di terrore poliziesco nelle comunità di poveri neri e della working class in tutto il paese. Chi pensa che «regno di terrore» sia un’espressione esagerata consideri le conclusioni raggiunte nel 2016 dalla commissione di polizia di Chicago, convocata dall’ex-sindaco Rahm Emanuel dopo l’omicidio efferato del teenager nero Laquan McDonald, ucciso dall’ufficiale di polizia di Chicago Jason Van Dyke:
L’indignazione [per l’omicidio di Laquan McDonald] ha portato alla luce divisioni profonde e di lunga data tra la comunità nera e latina da un lato e la polizia dall’altro, prodotte sicuramente dalle sparatorie della polizia, ma anche da abusi quotidiani e pervasivi che hanno impedito a persone di tutte le età, le razze, le etnie e i generi in tutta Chicago di esercitare la basilare libertà di movimento nei loro stessi quartieri. Fermati senza motivo, molestati fisicamente e verbalmente, e in alcuni casi arrestati e detenuti senza protezione legale… Gli stessi dati dei Dipartimenti di Polizia di Chicago ci confermano la convinzione largamente diffusa che la polizia non abbia nessun rispetto per la santità della vita quando si tratta di persone di colore.
Questo stesso documento è una prova dell’incredibile pressione generata dagli attivisti e dalle attiviste del movimento sotto una presidenza a guida democratica, alla vigilia di un’elezione storica. Gli elettori neri avevano reso Obama presidente, e il partito aveva bisogno di dare almeno l’apparenza di progresso.
La nascita di un movimento
Durante il secondo mandato di Obama, quello che era iniziato come movimento locale a Ferguson ha assunto una portata nazionale molto più vasta. La mancata incriminazione da parte di un grand giurì dell’ufficiale che aveva ucciso Mike Brown Jr a Ferguson fu seguita dalla mancata incriminazione di un poliziotto di New York, Daniel Pantaleo, malgrado l’esistenza di video che dimostravano chiaramente che aveva soffocato Eric Garner fino alla morte per le strade di Staten Island. Nella rabbia e nello stupore che hanno fatto seguito agli omicidi, con le speranze a pezzi come vetri infranti, le esperienze degli abusi e delle intimidazioni della polizia hanno unito la gioventù nera in tutto il paese.
Lo spartiacque di Ferguson, Cleveland, Los Angeles, Staten Island, e di innumerevoli altri luoghi ha nutrito l’ondata di proteste che tra l’autunno 2014 e l’inverno 2015 è diventata il movimento Black Lives Matter (Blm). Nel dicembre del 2014, decine di migliaia di persone in tutto il paese hanno partecipato ad atti di disobbedienza civile nonviolenta. Il 13 dicembre 2014, cinquemila persone hanno marciato per le strade di New York con slogan che legavano Ferguson e il Missouri a New York City e all’intera nazione: «Mani in alto, non sparare», «Non respiro», «Black Lives Matter». Ci sono state proteste in tutto il paese, nelle grandi e nelle piccole città. Queste manifestazioni sparpagliate erano legate da slogan, richieste, e dalla dichiarazione che black lives matter, «le vite dei neri contano», in modo simile al grido freedom now, «libertà adesso», intonato dal movimento per i diritti civili.
Anche se i professionisti della saccenteria avevano dichiarato morto il movimento dopo il prevedibile blacklash dei sindacati di polizia e dei politici conservatori, la primavera di Baltimora è sbocciata per le strade, nel protagonismo dei bambini neri esasperati dalla negligenza istituzionale e dal bruto razzismo che sta alla base dell’avvelenamento da piombo, della povertà, e delle scuole charter. Misurato con i numeri dalle organizzazioni formali che aveva fatto nascere, il movimento era a malapena vivo, ma prosperava nei cuori e nelle menti dei giovani e delle giovani nere che volevano essere visti e ascoltati.
Ma nessun movimento continua a esistere solo perché la sua causa è giusta. La sua ascesa o caduta è determinata, in ultima istanza, da un calcolo complicato fatto di strategia, tattica, politica, mosse e contromosse. Il movimento Black Lives Matter si è sempre confrontato con due sfide esterne, per non parlare delle lotte intestine con cui ogni movimento deve fare i conti. Esternamente, il movimento ha dovuto sopportare che la sua mera esistenza fosse diventata il perno attorno al quale vari pezzi della destra suprematista bianca si stavano radunando. Per gli attivisti più esposti, questo ha significato fare i conti con minacce di morte credibili insieme al più tipico profluvio di insulti.
Già all’inizio della sua candidatura, Trump aveva bollato Blm come nemico, definendo i suoi attivisti terroristi, e dichiarando di appoggiare senza esitazioni la polizia. L’Fbi, fedele alla propria storia, aveva iniziato a sorvegliare gli attivisti e le attiviste nere, e aveva inventato nuove categorie politiche per etichettare il pericolo che rappresentavano: «Estremisti dell’identità nera». Non era certo una sorpresa, ma di sicuro è stato estenuante, e può rivelarsi spaventoso. Quando Trump ha deciso di rendere Blm il principale antagonista della sua candidatura da suprematista bianco, invocando senza giri di parole «legge e ordine», e allineando la propria campagna all’isteria del blue lives matter [le vite dei poliziotti (blue lives) contano, NdT], ha messo nel mirino attivisti e organizzatori.
Ma è stato ancora più difficile destreggiarsi tra le manovre dell’establishment del Partito democratico che si stava impegnando a dividere il movimento tra i pragmatisti e quelli che invece si stavano rapidamente radicalizzando di fronte allo strapotere della polizia. L’amministrazione Obama ha virtualmente adottato una politica di «porte aperte» agli attivisti. La sua strategia era quella di spacciare un impegno e un interesse costanti per progressi reali. Questo ha portato l’amministrazione ad avere contatti continuativi con gli attivisti, nominare una commissione nazionale di polizia, e dare più potere al Dipartimento di Giustizia per fare indagini e condurre inchieste sui dipartimenti di polizia più violenti. E tuttavia, malgrado questa ridda di attività, è stato difficile capire cosa fosse cambiato. Che conseguenze ha prodotto?
Il Partito democratico ha provato, con una certa fretta, a risolvere i problemi sollevati da Blm così che i progressisti potessero rivolgere la loro completa attenzione alle elezioni del 2016. Ciò ha fatto sì che l’establishment liberale mettesse costantemente in discussione le motivazioni, la struttura e le richieste del movimento, nella speranza di chiudere velocemente la questione. «Chi sono i vostri leader?», «Quali sono le vostre richieste?», «Dateci una soluzione!» sono solo alcune delle domande – o meglio, delle accuse – mosse ai leader più visibili del movimento.
A cena col presidente
Questo stile riflette l’influenza delle organizzazioni non governative, che misurano l’efficacia dell’attivismo e delle mobilitazioni attraverso la lente dell’efficienza e dei risultati tangibili. C’era molta pressione per trovare soluzioni o intraprendere iniziative politiche, sentite come modalità più reali e misurabili per approcciare i problemi riguardanti la polizia. Quando alcuni attivisti si sono irritati per questo motivo, sono stati tacciati di purismo.
Ad esempio, quando un’attivista nera di Chicago di nome Aislinn Pulley si è rifiutata di andare a un incontro a porte chiuse alla Casa Bianca nel febbraio del 2016 perché dubitava della sincerità dell’amministrazione Obama, il Presidente Barack Obama l’ha chiamata personalmente.
Non puoi semplicemente continuare a urlare e rifiutare gli incontri perché temi che compromettano la purezza della tua posizione… Lo scopo dei movimenti sociali e dell’attivismo è di farti sedere al tavolo, farti entrare nella stanza, e da lì provare a capire come risolvere il problema. Hai la responsabilità di immaginare obiettivi raggiungibili, che possano istituzionalizzare il cambiamento che cerchi e attivare la controparte.
I commenti del presidente hanno avuto risonanza in alcune parti del movimento. Il movimento Black Lives Matter non aveva un pensiero, delle strategie o delle tattiche uniformi. C’erano idee diverse su quali fossero gli obiettivi politici e sul tipo di processo da adottare per prendere le decisioni; queste questioni erano fonte di grossi dibattiti all’interno del movimento. Alcuni attivisti vedevano di buon occhio l’andare alla Casa Bianca e credevano che significasse essere ascoltati al massimo livello. Brittany Packnett, una delle attiviste di St. Louis e Ferguson nel 2014, ha spiegato perché lei e diversi altri hanno partecipato agli incontri con Obama:
Per ottenere la libertà che cerchiamo, sono molti i momenti cruciali in cui intervenire e siamo saggi a non limitare quelli legittimi. Le nostre battaglie non saranno mai vinte soltanto ai tavoli della politica. Chi protesta si assume il rischio, costruisce una responsabilità democratica organica nelle strade e impone tattiche organizzate per ottenere un risultato. Gli organizzatori mobilitano le persone con un’azione strategica e diretta per spingere le istituzioni e i politici a un cambiamento sistemico. I politici di professione e i leader istituzionali vengono influenzati in molti modi da chi fa pressione in ogni spazio possibile per ottenere un cambiamento duraturo… Io credo che questo movimento sia collettivo, un lavoro diversificato può smuovere e ha smosso le montagne, ma per ottenere la libertà che cerchiamo serviremo tutti, e servirà utilizzare ogni tattica a nostra disposizione.
Altri nutrivano dubbi. Aislinn Pulley, l’attivista di Chicago che Obama ha rimproverato per essersi rifiutata di incontrarlo, aveva una visione del cambiamento profondamente diversa da quella del presidente. Scrisse una lettera aperta in risposta alle critiche di Obama:
Non potrei partecipare – non rimanendo coerente – a una farsa del genere, che serve soltanto a legittimare la narrazione falsa per cui il governo starebbe effettivamente lavorando per porre fine alla brutalità poliziesca e al razzismo istituzionale che la alimenta. In nome delle famiglie che lottano per ottenere giustizia e dignità per i loro cari massacrati dalla polizia, io mi rifiuto di dare ai carnefici e ai loro complici una copertura politica comparendo a loro fianco… Sosteniamo che il vero cambiamento sistemico e rivoluzionario sarà possibile soltanto grazie ai lavoratori e alle lavoratrici, agli studenti e alle studentesse, e ai giovani che si organizzano, manifestano e tolgono il potere alle élite corrotte.
Questo genere di tensioni e di discussioni non sono, ovviamente, una novità all’interno dei movimenti politici, specialmente nel movimento nero. Nel 1964, lo stratega di movimento Bayard Rustin affermava che il movimento per i diritti civili e le nuove forme di militanza nera dovevano prepararsi a passare «dalla protesta alla politica». Sosteneva che «è chiaro che le necessità dei neri non potranno essere soddisfatte se non andiamo al di là di quello che finora è stato messo all’ordine del giorno. Come possiamo raggiungere obiettivi radicali? La risposta è semplice, quasi banale: attraverso il potere politico… Siamo oggi di fronte alla sfida di allargare la nostra visione sociale, e sviluppare un programma funzionale con obiettivi concreti».
Rustin suggeriva che il passaggio a una dimensione politica formale era un segnale di maturità politica e poteva portare a cambiamenti più sostanziali per la comunità nera della semplice protesta. Aveva in mente un programma socialdemocratico espansivo, da perseguire con una nuova ondata di politici neri (Nel 1964 i politici neri eletti erano meno di un centinaio). Oggi abbiamo i politici (dieci anni dopo l’appello di Rustin erano stati eletti centinaia di politici neri, un processo culminato nel 2008 con la presidenza di Barack Obama), ma non lo stato sociale.
Il rimprovero pubblico di Obama non riguardava precisamente la «politica elettorale», ma vi si trovano gli echi del messaggio di Rustin – una sua versione in piccolo, per così dire. Obama nel 2016 dichiarava che era tempo di smettere di «urlare«» e offrire soluzioni pragmatiche che potessero essere messe in atto. La sua risposta rivelava tutta l’irrequietezza verso la prosecuzione di Black Lives Matter, diventato un elemento di distrazione dalle elezioni generali del 2016. Ma, cosa più importante, il suo intervento personale era anche mirato a dividere il movimento tra «pragmatici» e «sognatori».
Per molti attivisti, districare il groviglio esasperante di violenza poliziesca e giustizia criminale – un sistema di multe e sanzioni, cauzioni esose, e sentenze arbitrarie – richiedeva molto più che tavole rotonde e inchieste. In diversi puntavano a cambiamenti strutturali, e non superficiali, del sistema di giustizia federale, statale e locale. Alcuni erano addirittura abolizionisti e ritenevano che la società sarebbe stata meglio senza il sistema carcerario tout court. Invece di spendere 80 miliardi di dollari l’anno per rinchiudere gli esseri umani nelle gabbie, quelle stesse risorse potrebbero essere redistribuite in modo da migliorare le vite delle persone, anziché essere usate per punirle.
In questo senso, il rimprovero di Obama e la risposta di Pulley rivelavano più di un acceso contrasto strategico sugli obiettivi del movimento sociale. Tra i tanti problemi della società statunitense che Black Lives Matter ha messo sotto i riflettori, emerge anche la profonda divisione interna alla politica nera. Il rancore politico rifletteva in parte una frattura generazionale, ma mostrava anche lo iato tra la rabbia di classe dei lavoratori e delle lavoratrici nere e l’ottimismo di classe di una piccola élite nera.
Alcuni attivisti si irritarono per il paternalismo di Obama, il quale d’altro canto si sbrigò a ricordare al pubblico statunitense (prevalentemente bianco) che non era il «presidente dell’America nera» – ma allo stesso tempo si esprimeva in ebanese [il linguaggio dei neri d’America, NdT] per strigliare gli afroamericani e spingerli a uscire di casa e andare a votare.
Il problema non era soltanto Obama. Le sue buffonate razziali erano un amaro promemoria del fatto che i politici neri spesso si ingrassano ingozzandosi alla mangiatoia dei voti neri, per poi presentare la loro nomina come esempio di supposto progresso razziale – l’unico, di solito. Ma la realtà era che in molte città i sindaci neri, i consiglieri comunali neri, i capi di polizia neri e gli ufficiali di polizia facevano finta di non vedere la discriminazione e l’oppressione che alimentava Black Lives Matter.
Il razzismo nudo e crudo della descrizione di Baltimora fatta da Trump – una tana «infestata dai roditori» dove «nessun essere umano vorrebbe vivere» – ha catturato l’attenzione del paese, ma una verità più diffusa ne ha ricevuta meno, e cioè che i rappresentanti neri eletti a livello nazionale e locale hanno tradito i loro costituenti lasciandoli soli nell’indifferenza istituzionale, e si sono poi affidati alla brutalità poliziesca per gestire la crisi che ne è scaturita.
È questo tradimento delle promesse di «speranza» e «cambiamento» che ha radunato i giovani ribelli di Ferguson e poi di Baltimora – giovani che Obama e il sindaco di Baltimora Stephanie Rawlings-Blake hanno descritto come delinquenti – e li ha spinti ad agire a nome di milioni di altri.
Era questo il contesto difficile che ha fatto da sfondo alla frustrazione di Aislinn Pulley e al suo rifiuto di farsi una chiacchierata con il Presidente degli Stati uniti. Il punto qui non è se sia stata più giusta la decisione di Packnett di incontrare Obama o il rifiuto di Pulley. La realtà è che tutti i movimenti sociali sono espressioni di un profondo desiderio di cambiamento e riforma dell’esistente.
Per Black Lives Matter, questo desiderio poteva riassumersi nella speranza che i poliziotti «smettessero di ucciderci», ma nel profondo si trattava di un movimento di riforma dello status quo politico. Come spesso accade, nel corso degli eventi i partecipanti al movimento sono arrivati a conclusioni radicalmente opposte su quale dovesse esserne l’obiettivo. Molti attivisti Blm arrivarono alla conclusione che la polizia non potesse essere davvero riformata. Questo li pose dunque in conflitto con la natura riformista del movimento stesso.
La tirannia dell’assenza di struttura nell’epoca dei social media
Ma il problema più grande era l’incapacità del movimento di creare uno spazio per discutere e risolvere le tensioni tra riforma e rivoluzione, o più banalmente tra body camera e abolizione del carcere. Tutti i movimenti si confrontano con questi dibattiti esistenziali che riguardano la loro vitalità e longevità. Ci sono sempre decisioni cruciali da prendere sulla strada da imboccare e il modo migliore per farlo. Ma senza l’opportunità di esaminare, discutere o valutare collettivamente cos’è il movimento o cosa dovrebbe essere, i dissapori politici possono evolversi in spietati attacchi personali.
Tra gli attivisti del movimento, le aspre dispute personali si esprimevano spesso nel contesto pubblico dei social media, mettendo a disposizione degli agenti statali un tesoro in termini di informazioni. Tutto ciò contribuiva anche ad alimentare l’animosità e il disaccordo tra persone che avrebbero avuto ogni interesse a collaborare e a solidarizzare tra loro. La cultura del public shame sottolineava ogni minima trasgressione, nella convinzione che l’atto fosse stato commesso con la peggiore delle intenzioni. La buona volontà che molti avevano immaginato e desideravano fosse al cuore del movimento non poteva che essere costruita sulla base di una fiducia e di relazioni genuine. Ma era difficile ottenerle senza strutture formali, responsabilità chiare, e meccanismi di comando e delega.
In realtà, la «responsabilità democratica organica» su cui Packnett aveva tanto insistito non esisteva. La mancanza di un chiaro punto d’accesso nell’organizzazione di movimento, e l’assenza di qualunque organizzazione o struttura democraticamente responsabile, lasciava davvero poco spazio per giudicare lo stato dell’arte, ritardando la capacità del movimento di centrarsi e ritardando la diffusione delle lezioni e delle tattiche strategiche da una località all’altra e da un’azione a quella successiva. Invece, l’enfasi sull’autonomia, anche al prezzo di una disconnessione dal movimento più vasto, lasciava ogni località da sola ad elaborare i propri strumenti di apprendimento e una propria strategia.
Il movimento Blm dichiarava di non avere leader, abbracciando l’orizzontalismo dei suoi predecessori di Occupy. Ma tutti i movimenti hanno dei leader: dei singoli o dei gruppi di individui che decidono se questa o quella cosa può o non può avvenire, se utilizzare questa o quella risorsa, se questo o quell’incontro avverrà oppure no. Il problema non è se ci sono dei leader; il problema è se questi leader sono responsabili nei confronti di coloro che rappresentano. Conta anche il modo in cui questi leader diventano tali. Nel caso dell’incontro con Obama, era chiaro che i partecipanti erano stati selezionati dall’amministrazione Obama in qualità di singoli e organizzazioni leader del movimento. Magari una cosa del genere non si poteva evitare, ma la mancanza di responsabilità verso la gente comune che aveva dato vita al movimento di massa ha generato confusione e risentimento.
L’insistenza sul fatto che non ci fossero leader anche se alcuni venivano esibiti come leader dall’establishment politico gettava delle ombre sul modo in cui le decisioni venivano prese e su chi ne era responsabile. Questi problemi sono diventati più profondi quando si è iniziato a percepire che il movimento stava andando in una direzione sbagliata o era a un punto morto, perché era difficile capire a chi rivolgersi per avere indicazioni.
Ciò non è per dire che «se solo» ci fosse stato quest’incontro o quella riunione, o persino che «se ci fosse stata più democrazia nel processo decisionale», allora il movimento Black Lives Matter avrebbe sconfitto la brutalità poliziesca. Tutto ciò serve a capire come gli attivisti possano riemergere da una battaglia o addirittura da una guerra persa dopo aver fatto chiarezza sulla propria esperienza, aver imparato una lezione, e magari aver salvato le relazioni che permettono loro di combattere un altro giorno, sapendo meglio cosa fare la volta successiva.
Tra Hillary Clinton e le «fondazioni progressiste»
Queste tensioni interne al movimento Blm erano amplificate dalle molestie di alto profilo degli attivisti imboccati dai tirapiedi di Trump e dalla manipolazione continua operata dagli agenti del Partito democratico. Le pressioni per portare avanti il movimento mentre contemporaneamente si discuteva con i funzionari il cui coinvolgimento era pensato per creare l’apparenza di un progresso ha generato un’enorme tensione tra gli attivisti. Questa tensione si è esacerbata quando il Partito Democratico ha nominato Hillary Clinton come candidata alle presidenziali.
Lo slogan della campagna di Clinton, «America Is Already Great», era una replica allo slogan di Trump, «Make America Great Again». Ma tradiva anche una freddezza politica che ha sconvolto le giovani e i giovani neri che combattevano una battaglia di vita o di morte, e ha alimentato il dibattito su quale fosse il modo migliore di portare avanti la lotta. Allo stesso tempo, gli attivisti erano sicuri che se Clinton avesse vinto sarebbe stata in debito con gli elettori neri, cosa che dava credibilità a una strategia focalizzata sulle iniziative politiche da portare avanti durante l’amministrazione Clinton.
Il movimento ha iniziato a perdere slancio per varie ragioni, e a quel punto i giochi interni alla politica sono sembrati una via più praticabile. Mentre il comportamento della polizia che continuava a molestare e uccidere dava l’impressione che il problema fosse irrisolvibile, l’assenza di un dibattito democratico e di una strategia condivisa ha ridotto il numero di manifestazioni e azioni di massa. Al contrario, le azioni sono diventate sempre più modeste, più segrete, guidate da piccoli gruppi di persone più facilmente soggette agli arresti.
Questo ciclo di azioni più piccole punibili con l’arresto è diventato una profezia che si auto-avvera, con alcuni attivisti che deprecavano la mancanza di spirito di sacrificio di chi se ne chiamava fuori. L’esiguità e la marginalità delle proteste è diventata un randello morale con il quale colpire quelli che non volevano rischiare l’arresto. In questo contesto, rivolgersi all’establishment politico è sembrata una via più realistica da seguire per ottenere dei risultati – almeno alcuni risultati, di certo non tutti.
Tutto ciò è stato ancora più vero nel caso delle cosiddette fondazioni progressiste, che legano gran parte dei loro fondi alla capacità degli attivisti di «ottenere risultati». I soldi delle fondazioni hanno iniziato a inondare le organizzazioni di movimento subito dopo la rivolta di Ferguson. I soldi erano necessari e furono prontamente accettati dagli organizzatori, che nel frattempo tentavano di rendere sostenibile lo slancio generato dalla rivolta di Ferguson e le manifestazioni successive che si andavano moltiplicando in tutto il paese, mentre la polizia continuava a uccidere gli afroamericani. Ma le donazioni di soggetti che andavano da Google alla Fondazione Ford, con nel mezzo dozzine di altri, erano mosse da interessi che andavano oltre il semplice contributo monetario. Il tentativo era ovviamente quello di collegare il carattere progressista caratteristico del movimento sociale al loro brand.
E in alcuni casi, come in quello della Fondazione Ford, storicamente i soldi arrivano assieme all’intento di manipolare gli obiettivi e la direzione del movimento. Negli anni Sessanta Ford era famoso per usare le sue vaste risorse per spingere i radicali neri verso lo «sviluppo comunitario» e il capitalismo nero, allontanandoli dal loro potenziale ribelle. Karen Ferguson ha descritto in maniera incisiva i modi in cui Ford ha ricattato il movimento nero degli anni Sessanta con i suoi interventi finanziari per promuovere leader «responsabili», cioè coloro che potevano prendere una direzione politica a lui gradita.
Ma la Fondazione Ford non è l’unico caso. Megan Ming Francis ha descritto questo processo di «cattura del movimento» raccontando come i donatori delle fondazioni negli anni Venti e Trenta usarono il richiamo dei soldi per deviare l’attenzione politica del Naacp [National Association for the Advancement of Colored People, Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore, ndt] dal terrorismo bianco e i linciaggi e indirizzarla verso l’istruzione, sentita come tema meno minaccioso per lo status quo.
L’influenza delle fondazioni porta alla moderazione e al compromesso. La logica è radicata nella realtà di queste organizzazioni multimiliardarie che in ultima analisi si presentano come capaci di salvare il sistema dai suoi eccessi.
Prendiamo ad esempio un articolo recentemente pubblicato dal presidente della Fondazione Ford, Darren Walker. Nell’articolo, Walker consiglia la saggezza delle «sfumature» contro le posizioni politiche «estreme». Come suggerisce amabilmente
Le opposizioni estreme sembrano essere entrate nel manuale del leader in ogni categoria. In questa visione del mondo, è tutto o niente, buono o cattivo, il meglio o il peggio… Sfumature e complessità, nel frattempo, non si riesce a trovarle da nessuna parte. E le nostre sfide estreme rimangono estremamente irrisolte.
Walker descrive gli attivisti che a New York hanno lottato per chiudere un carcere orribile, Rikers Island, come estremisti politici. Walker ha fatto parte di una commissione che era d’accordo a chiudere Rikers, a patto di costruire diverse prigioni più piccole per rimpiazzarlo. Lo descrive come compromesso – un esempio del genere di sfumature alle quali gli abolizionisti di carceri e prigioni sembrano essere insensibili. Walker sostiene che rigettare il compromesso significa «lasciare che la perfezione sia nemica del progresso. Se saltiamo dei passaggi, rischiamo di creare un nuovo tipo di divario – un divario di opportunità mancate e alleanze perdute». Ma tutto questo non è che un sotterfugio per coprire il suo intento reale:
Possiamo prendere atto che il nostro sistema capitalistico si è inceppato, e allo stesso tempo notare che il mercato ha aiutato migliaia di persone povere in tutto il mondo… Possiamo essere critici per i patrimoni accaparrati in modo illecito, e allo stesso tempo constatare l’attuale necessità di capitale privato per finanziarie pezzi importanti del settore pubblico, e incoraggiare gli individui benestanti a fare i conti con i loro privilegi e supportare le riforme istituzionali.
A questo mondo raramente si ottiene qualcosa gratis. I dieci milioni di dollari della Fondazione Ford disseminati alle organizzazioni e agli attivisti di tutti i tipi arrivano con l’intento di reindirizzare o modellare le rivolte e le insurrezioni verso pratiche più ragionevoli. Non è mai totalmente ovvio, perché se lo fosse non funzionerebbe. Walker qui non parla soltanto della Ford, anzi, descrive l’obiettivo della gran parte delle aziende che hanno avuto la lungimiranza di sviluppare una propria ala filantropica come strumento per influenzare il dibattito sulle questioni sociali. Una delle modalità che oggi funziona di più è porre l’accento sulle iniziative e le soluzioni politiche come occasioni per portare avanti un movimento o un programma sociale.
La piattaforma politica del movimento Black Lives Matter è stata annunciata con modalità che la mettevano sullo stesso piano delle manifestazioni e delle mobilitazioni. Sicuramente, molte delle riforme contenute nella piattaforma politica erano ambiziose e, se implementate, avrebbero avuto un potere rivoluzionario. Ma senza un movimento sociale alla base che dia lo slancio necessario a forzare la mano all’establishment politico e spingerlo ad abbandonare la propria intransigenza, sarebbe possibile ottenere qualcosa?
Il successo della piattaforma politica e del discorso che la presentava come apice del movimento ha rivelato molto sullo stato dell’arte. In modo simile alla lista dei desideri pensata per la campagna presidenziale, è facile chiedere la luna – e ogni tanto è necessario immaginare che aspetto abbia la libertà – ma dopo aver fatto le proprie richieste e aver ricevuto in cambio alcune promesse, per renderle realtà bisogna comunque continuare a lottare. Una piattaforma rivendicativa non risponde alla domanda cruciale su come imbrigliare il potere fisico di un movimento sociale per ottenere il cambiamento.
La calca per accaparrarsi i soldi delle fondazioni potrebbe aver avuto altre conseguenze indesiderate. L’abilità di ottenere finanziamenti ha minato lo sviluppo di pratiche più democratiche all’interno del movimento, dando enorme importanza a chi aveva accesso ai fondi. Avere più risorse voleva dire avere più autorità, dato che i soldi accrescevano il profilo pubblico, la presenza e l’importanza di chi li garantiva. Questa dinamica ha infine frantumato l’unità d’intenti necessaria ad affrontare la sfida di fermare gli abusi e le violenze della polizia. Al contrario, gli attivisti erano invogliati a competere l’uno con l’altro per finanziamenti basati sul loro contributo speciale al movimento.
Queste osservazioni non vogliono essere un sermone su come i soldi delle fondazioni rovinino i nostri movimenti – anche se indubbiamente lo fanno. Dovremmo fermarci e chiederci perché le aziende che fatturano miliardi grazie al capitalismo statunitense sono così desiderose di donare soldi agli attivisti, molti dei quali sono anticapitalisti di qualche tipo. Come ho scritto prima, l’influenza economica delle fondazioni è sempre stata, almeno per tutto il ventesimo secolo e ancora oggi, un fattore rilevante. Tutti noi riusciamo a immaginare modi casalinghi e pittoreschi per fare un po’ di soldi, ma è difficile immaginare che l’attivismo su larga scala necessario ad affrontare i problemi della nostra società si possa basare sulla vendita di torte ed eventi sociali.
Ma per gestire la disponibilità di questi soldi c’è bisogno di più democrazia interna. Il processo decisionale dev’essere esteso e andare oltre i membri dello staff e il comitato esecutivo o chiunque sia a firmare gli assegni a coloro che scalano i ranghi del movimento. In questo modo la gran parte del nostro lavoro di attivisti sarà confusionario, lento, e a volte sbagliato, ma sarà più facile per tutte e tutti rivendicare l’appartenenza al movimento.
Una partecipazione più vasta, un sistema in cui tutte e tutti potevano investire qualcosa nel movimento Black Lives Matter, avrebbe avuto come risultato una migliore comunicazione tra i diversi strati del movimento. Con la creazione di spazi politici in cui questi diversi strati potevano entrare più strettamente in contatto e influenzarsi a vicenda, si sarebbe sentita di più la necessità di un carattere di massa del movimento e delle mobilitazioni. Per alcuni le mobilitazioni di massa non erano più necessarie; sembrava che le persone, così com’erano arrivate, semplicemente se ne andassero. Ovviamente, può anche darsi che sia così, ma non dovremmo sottostimare la potenza trasformativa necessaria alle azioni e alle assemblee collettive per manifestare insieme. È un processo che non riguarda soltanto l’influenza sul mondo politico o sulle istituzioni governative, ma anche il modo in cui il potere si manifesta tra i ranghi di coloro che partecipano alle manifestazioni.
L’artista e critico radicale John Berger ha scritto delle manifestazioni di massa:
Teoricamente le manifestazioni sono fatte per rivelare la potenza dell’opinione o dei sentimenti pubblici: teoricamente sono un appello alla coscienza democratica dello stato.
In questo senso, ha scritto Berger, il numero di persone presenti a una protesta è significativo non per l’impatto che ha sullo stato, ma per quello che ha su chi vi partecipa:
L’importanza del numero di persone coinvolte risiede nell’esperienza diretta di coloro che prendono parte o assistono come simpatizzanti a una manifestazione. Per loro i numeri smettono di essere numeri e diventano l’evidenza dei loro sensi, le conclusioni della loro immaginazione. Più è grande la manifestazione, più potente e immediata (visibile, udibile, tangibile) diventa la metafora della loro forza collettiva.
Il punto è che i movimenti e le mobilitazioni non solo creano la possibilità di cambiare le nostre condizioni materiali contrapponendo la forza di molti all’intransigenza di pochi. I movimenti sociali aprono spazi dove noi, noi stessi, possiamo trasformarci. Le azioni di massa rompono l’isolamento delle nostre vite quotidiane e ci rendono attori politici.
In una società che attribuisce scorrettamente i nostri successi all’acume personale e addossa i fallimenti alle nostre debolezze, il movimento di massa, la lotta, ci unisce nella condivisione delle nostre difficoltà e ci mostra come la soluzione a tanti dei nostri problemi sia collettiva. Distrugge i luoghi comuni più diffusi sulla nostra società.
La femminista nera radicale e organizzatrice Ella Baker ha capito la necessità di bucare questa bolla di «senso comune»:
Affinché noi, persone povere e oppresse, possiamo diventare parte della società in modo significativo, il sistema in cui attualmente viviamo deve cambiare radicalmente. Dobbiamo imparare a pensare in termini radicali. Uso il termine radicale nel suo significato originario – andare fino in fondo e comprendere le radici dei problemi. Vuol dire confrontarsi con un sistema che non si presta alle tue necessità e stabilisce gli strumenti con i quali puoi cambiarlo.
L’esaltazione collettiva che nasce dal confronto e il potenziale trasformativo rendono possibile porre questo genere di domande. Senza, è difficile liberarsi dalla ragionevolezza e dal pragmatismo consigliati da Obama nel rimbrotto all’attivista di Chicago su quali debbano essere gli obiettivi dei movimenti sociali – obiettivi ristretti, come cambiare una legge o adottare una determinata politica.
Nel 2015 e 2016, nessuno credeva che Trump avrebbe vinto; al contrario, gli attivisti iniziarono a concentrare la propria attenzione su come portare la nuova amministrazione Clinton a una riforma della polizia. Com’è noto, però, alla fine vinse Trump, e tutti i piani per trasferirsi a Washington Dc e iniziare la fase “interna” del movimento non si sono mai realizzati. Oggi, sono pochi i segnali di vitalità della base del movimento Black Lives Matter che nel primo anno ha catturato l’immaginazione e le speranze dei giovani neri – e non solo.
Ciò non significa ovviamente che il movimento abbia fallito. Molti attivisti Blm continuano a fare cose e a lottare in molte forme. È impossibile immaginare che avremmo avuto un dibattito pubblico sulla riforma del sistema della giustizia criminale, inclusa la riforma della cauzione e la lenta ma costante depenalizzazione della marijuana, senza l’influenza del movimento Black Lives Matter. Siamo tutti in debito col movimento per aver messo in luce il fatto che le donne nere, incluse le donne nere trans, sono ulteriori vittime della violenza statale e degli abusi razzisti. Molti degli organizzatori che sono stati centrali per il movimento vedono queste battaglie come nuove frontiere della lotta in continuità con il movimento Black Lives Matter.
Ma il movimento di massa che ha catturato l’attenzione del mondo e stravolto lo status quo non esiste più. Per certi versi, c’era da aspettarselo. Nulla resta identico in eterno, figuriamoci qualcosa di così vivo e dinamico come un movimento. I problemi riguardo alle strategie, le tattiche e la democrazia interna, emersi con l’insorgere del movimento Black Lives Matter, non sono spariti; anzi, restano cruciali per determinare come cambiare l’attuale stato delle cose.
Combattere ancora per un futuro in cui le vite dei neri contano
Cosa ci dice il volto distrutto di Pamela Turner, stravolto da un proiettile sparato da un poliziotto, sugli sforzi del movimento Black Lives Matter? Ci dice che per mantenere lo status quo razzista, sessista e classista il controllo poliziesco è fondamentale.
I sindacati di polizia e gli ufficiali eletti amano ritrarre la polizia come pericolosa, una sorta di bizzarra ultima linea di difesa tra noi e una serie di torbidi elementi criminali là fuori. Nella realtà, la maggior parte del lavoro di polizia consiste nel sorvegliare e tormentare i poveri e la working class. Quando le persone nere e non bianche sono in sovrannumero tra i ranghi dei poveri e della working class, si trovano a portare il peso dello scontro con la polizia. Essere uccisi dalla polizia è ancora la principale causa di morte fra i giovani neri. Il sociologo Frank Edwards ha detto che un giovane nero ha «più possibilità di essere ucciso dalla polizia… che di vincere dei soldi alla lotteria». Pamela Turner, che soffriva di schizofrenia, è finita nel fuoco incrociato della polizia locale per via di una serie di infrazioni minori che l’hanno messa in contatto con le forze dell’ordine. Lo scorso aprile, le era stato recapitato un avviso di sfratto che si è poi trasformato nell’accusa di «comportamento criminale» e nell’incontro con quello stesso poliziotto che alla fine l’ha uccisa qualche settimana dopo.
La polizia è l’ultimo settore del servizio pubblico che il nostro governo finanzia abbondantemente, mentre taglia le spese e ignora tutti gli altri aspetti dell’infrastruttura civile. In tutto il paese i servizi pubblici vengono smantellati, ma per finanziare la brutalità poliziesca e le cause legali sugli omicidi della polizia sono stanziati centinaia di migliaia di dollari. Dal 2004 a oggi, la sola Chicago ha speso più di 800 milioni di dollari per risolvere le cause legali dovute alla brutalità della polizia e alle morti ingiuste.
Se qualsiasi altra istituzione incorresse in questo tipo di spese, il suo budget e i suoi servizi verrebbero ridotti o sarebbe addirittura chiusa. Per esempio, quando nel 2012 la Chicago Board of Education ha dichiarato di avere un miliardo di dollari di debito, la soluzione proposta fu quella di chiudere cinquantadue scuole pubbliche. Ma nel mezzo delle rivelazioni sul tentativo di Rahm Emanuel di coprire il ruolo della polizia nell’omicidio di Lauqan McDonald, il sindaco ha ricevuto la benedizione del Consiglio Municipale di Chicago per stanziare 95 milioni di dollari per l’accademia di polizia.
Non importa quanto la polizia sia corrotta, violenta o razzista, il suo budget non viene mai toccato. Gli ufficiali eletti, e i ricchi e i potenti i cui interessi spesso rappresentano, sanno che mentre la spesa pubblica viene tagliata, e mentre i lavori decenti con buoni benefit si diradano sempre di più, gli abusi della polizia garantiscono ordine a una situazione potenzialmente esplosiva. Il dolore e la sofferenza dei nipoti di Pamela Turner, o della madre di Laquan McDonald, o dei genitori di Mike Brown Jr sono effetti collaterali della guerra per mantenere lo status quo. È letteralmente il prezzo da pagare per fare affari.
E così, negli ultimi cinque anni, gran parte della discussione istituzionale sulla riforma della polizia si è concentrata sulle mele marce, sui torti impliciti, e su un addestramento migliore. Come risultato, il principale cambiamento politico è stato l’uso sempre più diffuso delle body camera. Dal 2014, le forze di polizia di tutto il paese hanno speso fino a 192 milioni di dollari in body camera. A Ferguson, dove il movimento ha avuto il suo fulcro, oggi ci sono più poliziotti neri che bianchi. Ferguson ha infine raggiunto il resto degli Stati Uniti. Nel frattempo, i neri vengono fermati il 5 percento più spesso, mentre i bianchi vengono fermati l’11 percento in meno rispetto al 2013.
Riconoscere l’ostinata permanenza degli abusi e delle violenze della polizia non è una questione di pessimismo ma di sobrietà. Non esiste nessuna scorciatoia per risolvere il problema della brutalità poliziesca. La polizia è così difficile da riformare perché l’establishment ha bisogno di lei, in entrambi i rami dello spettro politico, soprattutto quando decide che non ha più nulla da darci. Gli ufficiali che gestiscono il Dipartimento di Polizia di New York hanno impiegato cinque lunghi e sanguinosi anni per licenziare il poliziotto che ha soffocato un uomo che stava semplicemente dicendo «non riesco a respirare». Il Dipartimento di Giustizia ha impiegato cinque anni per decidere che non avrebbe mosso accuse civili a livello federale contro Pantaleo, come se il soffocamento illegale che ha posto fine alla vita di Garner non fosse una definizione da manuale di violazione dei diritti civili.
Qual è il senso di proteggere «lo stato di diritto», quando il diritto stesso rende prioritario ciò che ha valore per le élite, mentre ignora ciò che ha valore per la maggioranza di noi? In altre parole, né la legge né le forze dell’ordine sono dalla nostra parte, ed è questo che in fin dei conti rende una loro riforma estremamente difficile. È il caso, allora, di ottenere il cambiamento che desideriamo facendo pressione e obbligando la classe politica, il suo establishment e le sue leggi, ad ascoltare le nostre voci. E per farlo, è importante capire come ci organizziamo, cosa pensiamo, cosa chiediamo, e cosa immaginiamo e vogliamo.
Sono aspetti fondamentali per ogni movimento sociale. Democrazia, il termine che tiene insieme tutte le nostre aspirazioni, i nostri fallimenti e i nostri sforzi, significa provare a coinvolgere più persone possibile e tentare di capire come far funzionare il tutto. Le vite degli uomini e delle donne nere possono contare. Ma sarà necessario lottare non solo per cambiare la polizia, ma per cambiare il mondo che si appoggia alla polizia per gestire una distribuzione iniqua di ciò che è necessario alla vita.
* Keeanga-Yamahtta Taylor è un’editorialista di Jacobin e professoressa associata all’università di Princeton nel Dipartimento di Studi Afro-Americani. È autrice del libro From #BlackLivesMatter to Black Liberation.
Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Gaia Benzi.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.