
Chi sarà il candidato dell’establishment?
Come nel 2016, anche in occasione di queste primarie l’obiettivo principale dell’élite del Partito democratico e dei media mainstream sembra impedire a Bernie Sanders di diventare candidato presidente
Nonostante i venticinque e rotti candidati schierati al nastro di partenza o aggiuntisi successivamente, l’establishment non ha ancora trovato il suo candidato. E non pare che le cose si possano risolvere a breve, date le sorprese che queste primarie stanno riservando. Nel primo anno della campagna elettorale i più papabili candidati moderati sono caduti uno dopo l’altro. In più, i risultati dei primi due stati al voto – Iowa e New Hampshire – hanno dimostrato la totale imprevedibilità della corsa, mandando all’aria anche le poche certezze rimaste. La debacle di due candidati considerati inaffondabili come Joe Biden ed Elizabeth Warren, che nel New Hampshire si sono dovuti accontentare di risultati a una sola cifra, hanno lasciato come unico dato sicuro proprio lo scenario che terrorizza l’élite democratica, ossia l’ascesa di Sanders, che è ora front runner.
Le nuove stelle: Buttigieg e Klobuchar
Nel tentativo di dare un volto a chi sia in grado di contrastarlo, l’establishment si aggrappa a chi di volta in volta sembra poter soddisfare le proprie aspettative. Dopo la quasi definitiva «perdita» di Joe Biden, le cui ultimissime chance di resurrezione sono un buon piazzamento in Nevada e una vittoria nel South Carolina il 22 e il 29 febbraio, cosa che gli darebbe qualche speranza verso il Supertuesday del 3 marzo (giorno in cui si voterà in ben 14 stati), sono stati Pete Buttigieg e Amy Klobuchar a concentrare su di loro le attenzioni dei media nel tentativo di negare e sminuire le prime due vittorie di Sanders.
La vicenda dell’Iowa è nota. Celebrata su tutte le tivù per tre giorni nonostante la non correttezza della notizia, la vittoria di Buttigieg ha permesso all’establishment di raggiungere il proprio principale obiettivo, ossia evitare di dichiarare Sanders vincitore nei giorni in in cui la cassa di risonanza era alla massima potenza. Tuttavia, alla luce di quanto successo in quei giorni e delle successive ricadute di cui ha beneficiato Buttigieg, è difficile credere che quella famosa app non funzionante, messa a punto con il coinvolgimento di un sostenitore proprio di Buttigieg, non sia stata intenzionalmente progettata per dare il via a quei ritardi che hanno permesso al giovane ex-sindaco rottamatore di godere dello slancio che la vittoria nell’Iowa riserva. Non per niente in quei tre giorni di falsa vittoria la sua quotazione nel New Hampshire è cresciuta di otto punti, permettendogli dunque di ottenere un secondo posto di poco lontano dal primo di Bernie.
Pur apparendo quasi un progressista nei suoi discorsi, pur sempre pieni di luoghi comuni, con contenuti politici vaghi e superficiali, e soprattutto molto recitati, le proposte politiche di Pete Buttigieg sono neoliberiste. Finanziato da miliardari, lobbisti e ricchi organizzatori di eventi di bundling, nei quali si raccolgono decine o centinaia di migliaia di dollari alla volta, «Mayor Pete» si serve di anche di bugie e calunnie. Ne sono prova sia le diverse contestazioni che ha avuto da parte di eminenti personalità, soprattutto del mondo afroamericano, che si sono trovate, attraverso abili escamotage, iscritte a liste di suoi sostenitori e messe in rilievo come tali, sia più banalmente le email che la sua campagna sta mandando in giro prima del voto del Nevada. Secondo fonti ovviamente non citate, nelle email si parla di almeno nove, scritto a lettere maiuscole, «gruppi finanziati con denaro oscuro» coalizzati per sostenere Bernie Sanders, mentre la sua organizzazione «Pete for America non prende soldi da corporate pacs, da dirigenti delle industrie di combustibili fossili o da lobbisti. La nostra campagna è finanziata da una base popolare e noi intendiamo mantenerla tale».
Quanto ad Amy Klobuchar, spesso in conflitto con Buttigieg soprattutto per la sua posa da rottamatore, ha conseguito una sorprendente terza posizione nel New Hampshire. Raccogliendo i risultati di una eccellente prestazione nel dibattito precedente e di una solidità acquisita mantenendo ferme le sue posizioni per tutta la campagna, Klobuchar ha ottenuto il 18,7% dei voti. Un risultato che corrisponde a più del doppio del 9,2% di Warren e dell’8,4% di Biden.
La sostanza è che dal caucus dell’Iowa in poi i media mainstream si sono scatenati in un ridimensionamento della vittoria di Sanders e la propaganda sul pericolo socialista/comunista rappresentato da Sanders è andata di pari passo con l’esaltazione di Buttigieg e Klobuchar. Tuttavia entrambi presentano un problema che può farsi serio una volta usciti dalla bolla bianca di due stati come l’Iowa e il New Hampshire: la mancanza di sostegno dell’elettorato non bianco.
Il primo dibattito di Bloomberg
Proprio in previsione di queste difficoltà, pur celebrando Pete ed Amy, l’establishment ha contestualmente preparato il terreno per il sostegno a Michael Bloomberg, che ha fatto il suo ingresso fisico nella campagna elettorale nel dibattito di mercoledì 19 febbraio in Nevada. Che la soluzione potesse essere un doppione di Trump, responsabile delle peggiori politiche di destra, razziste e sessiste durante la sua carica di sindaco di New York, è un pensiero che l’establishment democratico ha irragionevolmente coltivato, ma che dovrà probabilmente rivedere proprio in conseguenza del dibattito del Nevada.
Dopo aver intasato i media di annunci pubblicitari pagati milioni di dollari in attesa di completare l’acquisto sia di una posizione di primo piano nei sondaggi, sia della possibilità di partecipare ai dibattiti presidenziali, Bloomberg è infatti riuscito a far cambiare le regole del Comitato nazionale democratico. E così quelle porte proditoriamente chiuse fin dai primi dibattiti per Tulsi Gabbard, e che successivamente hanno sbarrato l’ingresso anche a candidati come Cory Booker o Julian Castro, si sono spalancate per Bloomberg. Ma l’ex sindaco è stato sottoposto a una figuraccia davanti al mondo intero.
Vuoi per la presenza di Bloomberg che ha fatto da pungiball per tutti, vuoi per il fatto che i concorrenti non hanno più il tempo di girare a vuoto intorno alle questioni, il dibattito si è rivelato il più coinvolgente di quelli tenuti finora. E soprattutto ha di nuovo rimescolato le carte rispetto a chi possa essere l’antagonista diretto di Sanders.
Tutti infatti, a cominciare da Bernie Sanders al quale è stata rivolta la prima domanda, hanno attaccato con successo Bloomberg, che sembrava un convitato di pietra catapultato da un’altro pianeta. Per la verità chi si è astenuto dal farlo, o quantomeno lo ha fatto in maniera blanda, è stato proprio «Mayor Pete», che probabilmente non voleva inimicarsi un possibile presidente che potrebbe sceglierlo come Vice.
L’unica cosa che Mayor Pete ha detto contro di lui ha coinvolto direttamente anche Sanders, ipotizzando la difficoltà di scelta di uno statunitense medio che, svegliatosi a due settimane esatte da quel momento, ossia dopo il supermartedì del 3 marzo, scopre che gli unici due candidati rimasti in lizza sono «le figure più divisive» della platea dei candidati: «Un socialista che pensa che il capitalismo sia l’origine di tutti i mali, e un miliardario convinto che il denaro dovrebbe essere alla base di ogni potere».
Anche Biden e Klobuchar hanno attaccato Bloomberg, ma chi ha letteralmente affondato il pedale è stata Elizabeth Warren. Diversi sono stati i momenti in cui Warren ha ha messo Bloomberg alle strette, incalzandolo di accuse e di domande.
«Voglio parlare di colui contro il quale corro, un miliardario che chiama le donne ‘ciccione enormi’ e ‘lesbiche con la faccia da cavallo’ e no, non sto parlando di Donald Trump, sto parlando del sindaco Bloomberg. Noi non vinceremo se nomineremo una persona nella cui storia ci sono cose come evadere le tasse, molestare le donne, sostenere politiche razziste». Ed ancora più provocatorio è stato lo scambio in cui Warren ha chiesto a Bloomberg di sciogliere il vincolo della riservatezza su quelle donne che «hanno firmato un accordo di non divulgazione per molestie sessuali e discriminazioni razziali sul posto di lavoro». In un vago arrampicarsi sugli specchi Bloomberg si è difeso dicendo che solo «alcune» donne hanno firmato quegli accordi. L’incalzare di Liz è stato una raffica: «Allora quante sono queste ‘alcune’? E quando lei dice che hanno firmato gli accordi perché lo volevano, se adesso volessero parlare e raccontare la loro versione della storia e per quale motivo l’hanno citata, andrebbe bene per lei? Sarebbe disposto a lasciarle parlare questa sera alla televisione?».
Sebbene siano in tanti a scommettere che con i progressisti che sostengono Sanders Liz abbia chiuso e che i progressisti abbiano chiuso con lei dopo il voltafaccia sul Medicare for All, gli aperti corteggiamenti ai moderati, il supporto di 200 staffer di Obama, e soprattutto la guerra personale ingaggiata contro il senatore del Vermont, forse il dibattito di mercoledì ha riaperto una porta. D’altra parte in base agli ultimi comportamenti è anche verosimile un’alleanza tutta femminile con Amy Klobuchar. È da tempo infatti che le due candidate si sostengono a vicenda nelle rispettive dichiarazioni, puntando sul loro essere donne e trascurando le loro differenti posizioni politiche.
L’ipotesi del furto del voto popolare
Tra i tanti argomenti in campo ce n’è uno di sostanziale importanza perché riguarda l’idea stessa di democrazia. Stando le cose come sono adesso, con otto candidati ancora in corsa (i sei del dibattito più Tom Steyer e Tulsi Gabbard), è plausibile che chi dovesse andare alla convention nazionale di luglio con la maggioranza dei delegati non raggiunga comunque il 50% alla prima votazione.
Tra le regole che i progressisti hanno lottato per cambiare dopo il 2016, in nome di una maggiore democraticità nella scelta della nomination presidenziale, c’è anche quella dell’abolizione dei 500 superdelegati che fino a quattro anni fa avevano il potere di stravolgere il voto popolare del loro stato. La cosa è cosa successa nel 2016 in molti Stati dove il vantaggio di Bernie su Hillary rasentava anche il doppio dei voti, come ad esempio nel Minnesota di Amy Klobuchar che, in quanto superdelegata, aveva contribuito a trasformare l’ampia vittoria di Bernie in un plebiscito per Hillary. Data la resistenza del Comitato nazionale a cambiare regole che mantengono il potere e il controllo sulle elezioni, il massimo che i progressisti sono riusciti a ottenere è stata l’abolizione del voto dei superdelegati nella prima votazione. Se però si dovesse procedere a una seconda, i superdelegati potrebbero far valere i propri poteri e modificare le scelte popolari.
Alla precisa domanda ai vari candidati su come si comporteranno nel caso un candidato, pur ottenendo la maggioranza dei delegati e del voto popolare, non arrivasse al 50%, cinque su sei hanno optato per una seconda votazione, dando una chiara dimostrazione di quale sia il loro concetto di democrazia. Solo Bernie ha dichiarato che chiunque avesse la maggioranza relativa e il maggior numero di voti dovrebbe avere la nomination, per evitare di togliere dalle mani del popolo il potere decisionale.
Ma gli altri cinque, persino Elizabeth Warren, che quattro anni fa urlavano la vergogna e l’ingiustizia dell’elezione di Trump quando Hillary aveva vinto il voto popolare, sembrano essersi improvvisamente dimenticati di quelle proteste in nome di un principio che darebbe il colpo di grazia a quel che ancora resta della democrazia statunitense.
* Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.