Die Linke, serve un partito working class
Intervista a Ines Schwerdtner, co-presidente del partito della sinistra tedesca, in vista delle elezioni anticipate di febbraio: guerra, crisi sociale, il rapporto con il Bsw di Sahra Wagenknecht e l’obiettivo di costruire un partito che organizzi lavoratori e lavoratrici
La Germania va verso le elezioni anticipate del 23 febbraio, a seguito della spaccatura nel governo del Cancelliere Olaf Scholz. La coalizione di governo composta da Socialdemocratici, Liberaldemocratici e Verdi [coalizione «semaforo», ndt] è giunta al capolinea dopo una lunga disputa sulla legge di bilancio. Da quando questa coalizione «semaforo» è entrata in carica tre anni fa, gli effetti combinati della guerra in Ucraina, dell’impennata dei costi energetici e del mantra sull’austerità propri dell’amministrazione hanno alimentato una crisi del costo della vita che ha indebolito notevolmente il sostegno ai partiti di governo.
Ci si aspetta che Die Linke, per quasi due decenni il principale partito di sinistra del paese, approfitti dei fallimenti del governo e della perdita della sua immagine «progressista». Tuttavia, Die Linke è a sua volta in notevole difficoltà, a un anno dalla scissione con una delle sue figure più importanti, Sahra Wagenknecht. Il suo nuovo strumento politico Bündnis Sahra Wagenknecht (Bsw), che combina posizioni economiche socialdemocratiche con una linea anti-immigrazione, oggi supera Die Linke, che rischia di non rieleggere deputati in Parlamento.
Anche prima della scissione, il consenso per Die Linke era da tempo in declino, anche nei suoi ex territori orientali. È un problema di cui Ines Schwerdtner è ben consapevole. Già caporedattrice di Jacobin in lingua tedesca e attivista nella campagna per la nazionalizzazione delle proprietà dei principali proprietari terrieri di Berlino, il mese scorso è stata eletta co-presidente di Die Linke, insieme a Jan van Aken. Schwerdtner chiede che Die Linke si riavvicini alla working class che si è distaccata dal partito.
Stiamo parlando a una settimana dalla vittoria di Donald Trump e sei giorni dopo la spaccatura della coalizione tedesca. Cosa spiega questi eventi ed è giusto metterli in relazione tra loro?
In entrambi i casi, è chiaro che il centro politico ha perso perché ha perso contatto con la realtà e non ha visto cosa stava per accadere. I media liberali, sia negli Stati uniti che in Germania, non sono riusciti a capire perché gli elettori della working class hanno votato di nuovo per Trump e si sono ritrovati completamente spiazzati. Non si è imparato nulla dagli ultimi due anni. Credo che Bernie Sanders avesse ragione quando ha affermato che non ci si dovrebbe chiedere perché si perde quando non si lavora nell’interesse della working class.
Penso che lo stesso sia accaduto alla coalizione «semaforo» di Olaf Scholz. Ma c’è una differenza: dopo la spaccatura al suo interno, in vista di nuove elezioni, i Socialdemocratici e i Verdi cercano ora di addossare tutta la colpa a Christian Lindner [ex ministro delle Finanze, dei Liberi Democratici neoliberisti]. Viene presentato come il cattivo che ha fallito in un governo di responsabili. Lindner è un cattivo ragazzo – ma l’intera coalizione era neoliberista nella sua essenza, non solo lui. Il governo nella sua interezza non è riuscito a tutelare gli interessi di lavoratori e lavoratrici.
Alcuni centristi europei vedono un’opportunità nell’elezione di Trump: una possibilità per l’Unione europea di ricostruire sé stessa. A settembre Mario Draghi ha pubblicato il suo rapporto sul rilancio dell’economia dell’Ue e alcuni sostengono che sia giunto il momento di metterlo in pratica. Come pensi che un’amministrazione Trump – e magari una Unione europea che investe di più nella difesa – possa cambiare la politica in Germania?
L’elezione di Trump ha inasprito dinamiche che erano già in corso. Quando i Socialdemocratici e i Verdi parlano di «Europa sovrana», intendono maggiori spese militari. Questo è già ciò che il cancelliere Scholz e Robert Habeck [vice cancelliere, dei Verdi] hanno detto negli ultimi giorni. Avviandosi verso le elezioni anticipate, hanno sostenuto che dobbiamo liberarci dal limite al debito [c’è un vincolo costituzionale al deficit di bilancio del governo tedesco] per poter spendere di più nel settore militare. I Verdi stanno discutendo di 500 miliardi di euro in più per la difesa – una somma straordinaria. Non per le infrastrutture, non per le scuole, gli edifici e i ponti: solo per le spese militari.
Quindi, penso che questa campagna elettorale, che sarà breve e combattuta, sarà tutta incentrata sulla difesa dell’Europa, sulla difesa della Germania e sulla politica di sicurezza, discussa in termini militari. Ed è spaventoso. Quando il centro politico invoca un’«Europa sovrana», la intende solo nel senso della costruzione dell’esercito europeo che ha chiesto Emmanuel Macron. Quest’estate, durante la campagna elettorale per il Parlamento europeo, abbiamo detto che certamente abbiamo bisogno di un’Europa e di un’Unione europea sovrane, ma nel senso di politiche sociali ed economiche, nel senso di non dipendere né dagli Stati uniti né dalla Cina.
Nelle recenti elezioni, i partiti che rifiutano gli aiuti militari all’Ucraina – Alternative für Deutschland (AfD) e Bsw – hanno ottenuto buoni risultati, mentre Die Linke ha perso voti. Potremmo dire che questi partiti fanno leva sulle difficoltà economiche, come i prezzi del gas e l’inflazione. È anche chiaro che li fondono con una narrativa sulla guerra: dicono che le élite hanno mentito sul gasdotto Nord Stream e non mettono al primo posto gli interessi dei tedeschi. Die Linke dice di volere la spesa sociale e non la costruzione militare. Ma qual è la vostra alternativa alla narrazione che stanno facendo?
Gli Stati della Nato in Europa, senza gli Stati uniti, spendono per le loro forze armate circa il doppio della Russia, anche tenendo conto del potere d’acquisto. Quindi, ritenendo che il governo russo sia composto da attori razionali, la storia che Vladimir Putin stia per attaccare non è credibile. Dobbiamo prendere sul serio le ansie della gente, ma non cadere nel discorso liberale che dice che abbiamo sempre bisogno di più spese militari.
Il problema della «coalizione di pace» con il Bsw e l’AfD è che stanno facendo finta che se solo avessimo il Nord Stream di nuovo in funzione, allora tutto andrebbe bene. Questo non è vero. Inoltre, non si può attribuire il declino industriale della Germania solo all’aumento dei prezzi dell’energia; non è così semplice. Abbiamo un problema generale di sottoinvestimento e siamo in ritardo su numerose tecnologie. Siamo quindi stretti tra due tipi fake news che pretendono di risolvere l’intero problema in un solo colpo: sconfiggendo definitivamente Putin o scendendo a patti con lui. Non credo che la geopolitica o la politica industriale funzionino così. I problemi attuali hanno molto a che fare con una più ampia interdipendenza economica. Ma è molto, molto più difficile tradurre questo concetto in comunicazione politica mentre il discorso mediatico si divide tra quelle due opzioni secche.
Il nostro convincimento, in quanto partito socialista, è che potremmo ottenere la nostra energia da fonti diverse dal gas e dal petrolio. Ma finché non riusciamo a tradurre questa alternativa alle persone – e questo è il nostro lavoro – è molto più facile pensare che il problema sia la mancanza del Nord Stream. In fondo è più facile da sostenere che invece dovremmo investire 500 miliardi di euro in infrastrutture per avere energia pulita sotto il controllo popolare. Penso quindi che dobbiamo misurarci con un populismo di sinistra che fornisca un’alternativa positiva, ma che sia basata su una politica solida e non sulla vuota retorica per sognatori a occhi aperti.
Quanto alle alternative, di recente la Volkswagen, che impiega 120.000 persone in tutta la Germania (e 300.000 nel Gruppo) ha intenzione di tagliare almeno tre siti. È facile immaginare che Die Linke si schieri con i lavoratori. Ma quale alternativa offrite? Il mercato tedesco dell’auto è tenuto in vita dai sussidi statali e, anche se la Germania riuscisse a tenere il passo con la Cina nel passaggio alla produzione di veicoli elettrici, questa transizione comporterebbe sicuramente una forte perdita di posti di lavoro. Cosa sta dicendo Die Linke ai lavoratori della Volkswagen?
Stiamo lavorando a una strategia insieme agli attivisti del sindacato IG Metall e del Consiglio di fabbrica. I lavoratori stanno pagando per i fallimenti della dirigenza Volkswagen negli ultimi cinque-dieci anni, ma anche lo Stato ha fallito. L’ultima volta che abbiamo avuto questo tipo di crisi, lo Stato ha speso 5.000 euro a testa per far acquistare a tutti un’auto nuova. Nella profonda fase di deindustrializzazione che stiamo affrontando ora – con l’industria automobilistica che è ovviamente una delle colonne portanti dell’industria tedesca – questo tipo di politica non è sufficiente.
Una cosa su cui insistiamo è che gli aiuti di Stato devono essere erogati solo in cambio di azioni dell’azienda. Quando si hanno investimenti pubblici, è necessario anche il controllo pubblico. Non significa socializzare la Volkswagen. Ma lo Stato e i lavoratori devono avere un maggiore controllo sulle decisioni. Questa è sempre stata la nostra linea. Ma ora dobbiamo essere più concreti e lavorare insieme all’IG Metall e al Consiglio di fabbrica. È necessaria una politica industriale con un piano – come dice Isabella Weber – che guardi avanti per cinque, dieci anni, affinché l’industria abbia una qualche prospettiva.
La mia esperienza rispetto alle discussioni sul Green New Deal con elettori e sindacalisti è che spesso sono d’accordo nel legare la transizione verde alla creazione di nuovi posti di lavoro, ma non vedono esempi concreti che garantiscano la salvaguardia del loro posto di lavoro.
Esattamente. In Germania, tuttavia, si percepisce che lo Stato debba far parte dell’industria siderurgica o automobilistica. C’è l’idea di uno stato sociale con un certo controllo pubblico, e lo statuto dell’IG Metall parla di socializzare le grandi industrie, se necessario. Nessuno crede che accadrà domani, ma tra i lavoratori questo sentimento politico è ancora forte. Penso che potremmo mobilitarci su questo punto, molto più di quanto abbiamo fatto nel recente passato. Ma la nostra base elettorale tra i lavoratori dell’industria è dell’1 o 2%: molto bassa. Nessun partito socialista dovrebbe accontentarsi di questo.
Di recente ho parlato con Peter Mertens del Partito Operaio Belga (Ptb) e abbiamo discusso di come si possano raggiungere le persone nelle fabbriche. Ha detto che per ricostruire questo tipo di legame con i lavoratori e le lavoratrici dell’industria ci vuole un impegno dieci volte maggiore rispetto ad altri tipi di comunità organizzate. Penso che valga comunque la pena di investire in questo senso e avere un piano per raggiungere chi lavora nell’industria. Senza di loro, sulla carta possiamo avere le migliori proposte, ma non interesseranno a nessuno. E credo che dovremmo approfittare della crisi della Volkswagen e dell’industria automobilistica per affermare con più convinzione che anche i lavoratori dell’industria rientrano nel quadro generale della working class che immaginiamo e di conseguenza che il nostro partito working class è un partito per i lavoratori e le lavoratrici.
Il «populismo di sinistra» sembra un modo per parlare a una working class più frammentata, piuttosto che ai grandi reparti del lavoro organizzato. In Germania, le analisi sull’ascesa dell’AfD indicano che stia conquistando la classe operaia «rimasta indietro», soprattutto nell’ex Est. Potremmo obiettare che questo è semplicistico e che non sono realmente sostenuti dagli strati più abbandonati. Ma sembra che stiano guadagnando consenso nelle aree rurali più povere, dove negli anni Novanta la sinistra aveva fatto bene. Dati gli strumenti e il tempo che avete a disposizione prima delle elezioni federali, come immaginate una strategia di sinistra populista?
Il sociologo Steffen Mau dice giustamente che, soprattutto nella Germania orientale, c’è una profonda depressione e un allontanamento, non solo da Die Linke ma dai partiti e dalla politica in generale. Questo processo va avanti da due o tre decenni. Quindi, per ricostruire la forza nelle aree rurali ci vorranno dai cinque ai dieci anni, anche se stiamo facendo bene.
Nei prossimi tre mesi, dobbiamo parlare dei lavoratori in quanto lavoratori. Siamo stati a lungo molto attenti a parlare di tutti e di ciascuno e dei loro problemi, senza dimenticare i sentimenti di nessuno, facendo la «sinistra con tutti gli aggettivi», contro questo e contro quello. Ma dobbiamo cambiare il modo di comunicare fin dal primo giorno di questa campagna, e chiarire che siamo un partito diverso.
Dovremmo parlare di ciò che la gente vuole e di ciò che teme. Quando parliamo di riduzione degli affitti, dei prezzi, della deindustrializzazione, dobbiamo mettere la working class e i suoi interessi in primo piano e cambiare completamente il modo di parlare di politica.
Quando ti sei candidata alla co-presidenza, hai proposto di riorganizzare il partito, ad esempio con una campagna porta a porta per essere presenti sul territorio. Hai citato alcuni esempi internazionali: i comunisti austriaci o il Ptb belga. Cosa significa?
Avevamo pianificato una «campagna pre-elettorale», in cui volevamo bussare a 100.000 porte. Ovviamente [con le elezioni anticipate] abbiamo tagliato la parte «pre-elettorale» e siamo già in campagna elettorale. Ma credo che paradossalmente siamo uno dei partiti più preparati, perché abbiamo già 150 gruppi Die Linke che hanno iniziato la campagna prima ancora che iniziasse ufficialmente la stagione elettorale. Volevamo bussare a 100.000 porte per poter ascoltare le persone e ricevere direttamente da loro le nostre principali proposte per le elezioni. Quello che abbiamo sentito – e non è una sorpresa – dopo i primi duemila colloqui, è che la maggior parte delle persone nelle città parla di affitti. Credo che questo ci dia maggiore legittimità nel dire: «Bene, quello che vogliamo in questa campagna elettorale è un tetto federale agli affitti, perché è ciò di cui la gente ha più bisogno». I Socialdemocratici hanno fallito completamente sul costo della vita, sul riscaldamento e sulla costruzione di nuove case. Gli affitti sono in aumento da anni, non solo nelle città principali.
Dalla caduta del governo più di duemila persone si sono iscritte al nostro partito. Tutti questi nuovi membri si chiedono: cosa possiamo fare? Penso che la cosa migliore sia metterli in contatto con le persone che vogliamo convincere, ma anche che le questioni di cui parliamo provengano direttamente dalle persone che cerchiamo di rappresentare. Dovremo sperimentare questo tipo di dialogo. Ora dobbiamo far partire la campagna ancora più velocemente. Quindi, dopo diecimila colloqui, dovremo analizzarli. E spero che in due settimane avremo un programma che tenga conto di ciò che la gente ci ha detto sulla porta delle loro case.
Come pensate di cambiare il volto del partito in modo che i lavoratori siano più in primo piano?
Questo è uno dei compiti più importanti per i prossimi anni. Al nostro recente congresso abbiamo discusso a lungo sul tetto massimo di reddito per i rappresentanti del partito: Jan van Aken e io, come co-presidenti, prendiamo entrambi il salario medio di un lavoratore, pari a 2.800 euro al mese. Credo che questo sia un modello da seguire. Non possiamo creare una legge all’interno del partito da un giorno all’altro. Ma possiamo fare questo passo verso un partito più socialista che non permetta una divisione tra i suoi membri e i suoi funzionari.
Abbiamo discusso della rappresentanza e, ad esempio, per le prossime elezioni statali ad Amburgo, presenteremo un candidato che è uno scaricatore di porto, recentemente in sciopero. Abbiamo bisogno di più persone di questo tipo, infermieri e lavoratori, nelle nostre liste. Preferirei una quota per questo, per inserire la questione nell’agenda politica. Die Linke è una «nave» di 55.000 membri che ha bisogno di essere guidata. Ma si sente una forte pressione per il cambiamento, e non solo da parte nostra. Quando abbiamo pubblicato il tetto massimo dei nostri salari, è stata la cosa più popolare che abbiamo fatto nelle ultime settimane. Per la prima volta dopo tanto tempo siamo stati sulla Bild con una notizia positiva e la gente ha detto: «Di solito voto AfD, ma rispetto davvero quello che state facendo».
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Che impatto ha avuto la scissione del Bsw in termini di iscritti? Il cambio di leadership in Die Linke rappresenta un modo per riconquistare adesioni?
Con la scissione del Bsw se ne sono andati circa 10.000 membri. Molti di loro erano frustrati da molto tempo, e non possiamo farli tornare immediatamente. Ma un primo passo è riconquistare gli elettori, soprattutto nell’Est. La gente è frustrata anche nei confronti del Bsw per la questione dei [suoi negoziati per] il governo in Sassonia e Turingia: sono arrabbiati per questo [nel frattempo in Turingia il partito di Sahra Wagenkneckt ha siglato l’accordo con Cdu e Spd, ndt]. È come se la gente riconoscesse che «il Bsw fa le stesse cose degli altri partiti, fa accordi, non fa davvero la differenza per me».
Quindi il primo passo è riconquistare gli elettori del Bsw nelle aree in cui ne abbiamo persi molti. Ma non possiamo riconquistarli tutti, e con le iscrizioni è ancora più difficile. Ma sto ricevendo molti messaggi che confidano nella mia leadership che «dà una sorta di speranza». Penso che anche questo richieda tempo.
Il mese scorso, un gruppo più ristretto di leader a Berlino ha lasciato Die Linke perché non sta affrontando l’antisemitismo in modo serio, e muovendo critiche anche per non aver fatto di più per costruire alleanze con i Verdi e i Socialdemocratici. Come rispondi?
Se ne sono andati dopo il congresso del partito, che è stato straordinariamente positivo, soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente e la guerra a Gaza. Abbiamo trovato un nuovo modo di parlarne, invitando al coinvolgimento di ciascuno dei gruppi di Die Linke che sapevamo avevano punti di vista diversi. Abbiamo avuto un lungo processo per arrivare a una risoluzione su cui possiamo essere tutti d’accordo: la stragrande maggioranza ha concordato su una posizione sui diritti umani secondo la quale Israele sta commettendo gravi crimini di guerra a Gaza, senza essere ovviamente dei sostenitori di Hamas. Penso che dovremmo poterlo dire chiaramente come partito di sinistra. Non capisco davvero che si abbandoni dopo il congresso, non ha molto senso.
In Die Linke c’è stato un lungo processo di dialettica tra il campo conservatore, che è passato al Bsw, e una sorta di ala super «progressista». In un certo senso, abbiamo perso entrambi gli estremi. Ma la stragrande maggioranza di Die Linke ha raggiunto una posizione migliore rispetto a quella degli ultimi due anni. Sappiamo che la sinistra tedesca è molto sensibile nei confronti del Medio Oriente e di Israele. Ma penso che abbiamo trovato un ottimo modo per parlarne, e non voglio perderlo perché alcune persone dicono che non è abbastanza per loro; non è così che funziona questo partito.
Sulla Palestina e l’antisemitismo, l’opinione internazionale di sinistra, in realtà non solo quella di sinistra, spesso trova strano e talvolta ridicolo l’inquadramento politico-mediatico tedesco della questione, con interventi come l’articolo di Der Spiegel che attacca Greta Thunberg. La settimana scorsa, quando il Bundestag ha discusso una risoluzione per imporre la definizione di antisemitismo dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (Ihra) – che colpisce anche i finanziamenti pubblici agli artisti – ciò è stato criticato da Amnesty International perché sopprime le critiche giuste nei confronti di Israele. Non è solo una questione tedesca: faceva parte della lotta nel Partito laburista britannico sotto Jeremy Corbyn. Ma viste le critiche, il fatto che Die Linke avesse una controproposta, e visto che Bsw ha votato contro, perché Die Linke si è astenuto invece di opporsi?
Avevamo la nostra risoluzione sulla lotta all’antisemitismo, sostenuta da molti gruppi, artisti e scienziati. Abbiamo detto che non siamo a favore di questo tipo di risoluzione [che impone la definizione Ihra] perché ovviamente viola i diritti fondamentali alla libertà di espressione e ha tutti i tipi di implicazioni preoccupanti.
Purtroppo non ha avuto alcuna possibilità di passare al Bundestag. Quindi il partito ha deciso – o più precisamente i deputati Die Linke hanno deciso – di astenersi. Penso che potremmo essere più forti nel presentare il nostro punto di vista e non sostenere ciò che sta facendo il governo. Ma per noi come partito, assumere una posizione unita come abbiamo fatto è già un passo importante nella giusta direzione.
Se non entrerete in Parlamento, cosa succederà a Die Linke?
Abbiamo il congresso del partito a Chemnitz a maggio. Se dovessimo entrare in Parlamento, bisognera discutere di come ricostruiamo il partito con le risorse che abbiamo. Se non entriamo, dovremo comunque farlo, con meno risorse, ma sarà ancora più chiaro e urgente che abbiamo bisogno di alcuni cambiamenti drastici. Avremo ancora bisogno di un partito socialista in Germania, orientato verso la classe operaia. Ecco perché volevo diventare co-presidente: non c’è nessun altro posto da cui possa venire un partito del genere.
Sarebbe meglio, come nuovi leader, se potessimo arrivare alla convention con un certo successo elettorale per dimostrare che si può fare e per resistere alla narrazione del declino. Ma anche in quel caso, avremmo ancora molto lavoro da fare. Abbiamo avuto anche importanti successi recenti; è un peccato che non tutti ne siano a conoscenza. Prendiamo Eva-Maria Kröger, sindaco di Rostock, eletta alla fine del 2022. Dobbiamo imparare dalle nostre vittorie e anche da altri partiti. Naturalmente, forse ciò che funziona a Rostock potrebbe non funzionare nel centro di Berlino. Ma la nostra campagna deve includere queste diverse parti della working class.
*Ines Schwerdtner è co-presidente di Die Linke. In precedenza è stata caporedattrice dell’edizione tedesca Jacobin. David Broder è l’editor di JacobinMag per l’Europa e uno storico del comunismo francese e italiano. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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