Dov’è il buio, fare luce
400 sottoscrizioni con crowdfunding, 200 persone volontarie, 50 relatori da 7 paesi, 2.500 libri venduti, 5.000 partecipanti. Il Festival di letteratura working class rompe gli schemi su come si può fare lavoro culturale e conflitto sindacale
Sabato 6 aprile, durante il secondo giorno del Festival di letteratura working class 2024, un drone ha iniziato a volare sopra le nostre teste. L’apparecchio volante è sicuramente riuscito a documentare dall’alto l’intervento del più grande poeta operaio vivente, Ferruccio Brugnaro, e quelli dei due fondatori della storica rivista di poesia Abiti-lavoro, Sandro Sardella e Giovanni Garancini. Non sappiamo quanto le poesie declamate con passione dal palco siano piaciute ai vigilantes dell’agenzia privata ingaggiata dalla proprietà di Qf, la ex Gkn. Il drone era infatti della stessa agenzia che dieci giorni prima del Festival si era presentata con atteggiamento provocatorio al presidio di fabbrica insieme al liquidatore. L’obiettivo del drone, a quanto pare, era spiare i lavoratori in lotta contro i licenziamenti sin dal 9 luglio 2021, a cui da tre mesi non viene pagata né la Cassa integrazione né lo stipendio e che si permettono (addirittura!) di organizzare un Festival di letteratura davanti alla fabbrica con autori e autrici da tutto il mondo.
Vista la sgrammaticatura dei vari comunicati contro il Festival, è difficile pensare che Francesco Borgomeo, proprietario di Qf, e il liquidatore della società Gianluca Franchi abbiano letto Dynamite! di Louis Adamic. Eppure, come ha fatto notare nel suo intervento il curatore della nuova edizione del libro Andrea Olivieri, ingaggiare agenzie di investigatori armati, per proteggere i crumiri e provocare gli scioperanti, è una delle pratiche padronali raccontate da Adamic nel suo testo sulla storia della violenza di classe negli Stati Uniti tra fine Ottocento e primi anni del Novecento. Non sappiamo se questi individui abbiano letto il libro, ma il minimo che possiamo dire è che le loro pratiche di lotta di classe dall’alto sono decrepite rispetto a quelle messe in piedi dal basso dal Collettivo di fabbrica, che si è dimostrato capace di fare un picchetto con i libri e una manifestazione di lotta attraverso un Festival letterario.
La working class si fa letteratura
L’anno scorso avevamo sorpreso tutti per il successo di un festival letterario ideato contro ogni regola di marketing editoriale: senza sponsor, situato non in un quartiere gentrificato di una grande città ma in un territorio periferico e industriale, organizzato insieme a persone che nessun ufficio commerciale considererebbe un target di lettori su cui puntare per vendere libri: gli operai. Per di più un festival costruito intorno a un tipo di letteratura di cui critici ed editori mainstream, fino a un anno fa, mettevano in dubbio la stessa esistenza: la letteratura working class.
Era difficile fare di più dell’anno scorso, ma avendo smentito tutti la prima volta, ci abbiamo provato anche la seconda. I numeri parlano da soli: 400 sottoscrizioni con crowdfunding, 200 persone volontarie, 50 relatrici e relatori da 7 paesi diversi, 2.500 libri venduti, 5.000 partecipanti nel corso dei tre giorni.
Se negli ultimi dieci anni i movimenti femministi, antirazzisti e Lgbtq sono riusciti a stimolare la nascita di collane, e in alcuni casi addirittura di marchi editoriali, che ruotano intorno alla narrazione dell’oppressione di razza e di genere, l’oppressione di classe è invece rimasta ai margini del mercato editoriale, non a caso quella di Alegre è l’unica collana di narrativa working class esistente in Italia. Ciò non significa che nessun altro pubblichi opere di letteratura working class – cosa evidente guardando i titoli esposti nella libreria del Festival – ma molto spesso gli editori preferiscono non identificarle come tali, lasciando nell’ombra la questione di classe: valga per tutti l’esempio del libro di racconti di Lucia Berlin, A Manual for Cleaning Women, pubblicato in italiano da Bollati Boringhieri nel 2016 con il titolo La donna che scriveva racconti.
Questa marginalità del discorso di classe è senza dubbio l’esito della debolezza e delle sconfitte accumulate dal movimento dei lavoratori negli ultimi quarant’anni. Ma è anche frutto del problema che pone il concetto di classe non appena viene nominato. Si può parlare in termini pietistici di povertà, o raccontare la favola a lieto fine di chi per merito è riuscito con le sue sole forze a uscire da una condizione sociale svantaggiata, ma di fronte al concetto di classe – che noi usiamo in lingua inglese per sottolinearne la composizione plurale – non basta la sola retorica dell’«inclusione» perché nasce spontanea la domanda fatta da Brigitte Vasallo al Festival: «Da chi e dentro cosa dovremmo essere incluse?». Perché la lotta di classe, se approfondita fino in fondo, è la lotta per abolire lo sfruttamento su cui si fonda questa società.
Dopo trent’anni in cui ci hanno ripetuto che le classi non esistono più, il Festival dello scorso anno è riuscito a rinominare la working class, mostrando quanto diventa dirompente se prende la parola, e la penna, e scrive la propria storia. Quest’anno siamo andati oltre indagandone i diversi linguaggi che può assumere: dal memoir, il genere sicuramente più sperimentato, alle diverse forme del romanzo e della poesia, fino al graphic novel. E ne abbiamo approfondito le geografie, le diverse esperienze e tradizioni in giro per il mondo: abbiamo così scoperto dalle parole di Nicklas Freisleben Lund che anche in Danimarca faticano a identificare Tove Ditlevsen come un’autrice working class; al contrario il fornaio-scrittore Henrik Johansson ha descritto la ben più consolidata tradizione svedese che arriva fin dentro ai programmi scolastici e ha visto nascere un’Associazione di scrittori working class; Anthony Cartwright ha mostrato come si può raccontare in modo innocente il desiderio di vendetta di classe; mentre Giusi Tamburello ha spiegato che la poesia è il genere che meglio rappresenta la classe lavoratrice cinese che attraverso «la musicalità della propria lingua esprime in forma poetica il possibile progresso sociale».
Qualcosa sta cambiando anche in Italia, grazie proprio allo spazio di immaginario collettivo che ha riaperto la lotta del Collettivo di fabbrica della ex Gkn. Grazie alla loro capacità di raccontare quotidianamente la propria lotta; di scrivere un libro in forma di diario; di interpretare il meraviglioso spettacolo teatrale della compagnia Kepler 452 (vincitore del Premio Ubu 2023, ed emozionante Prequel del Festival il 4 aprile al Teatro di Campi Bisenzio); e infine di organizzare in prima persona insieme a noi per due anni consecutivi un Festival letterario.
Oggi la letteratura working class inizia a essere definita come tale anche negli inserti culturali dei quotidiani italiani, nascono alcuni premi letterari a lei dedicati e l’attenzione per il Festival di questi giorni certifica che se la classe racconta la propria storia può uscire dall’invisibilità e dalla vergogna in cui è costretta, e riprendere forza nell’immaginario collettivo.
Non siamo qui per intrattenervi
Come ha scritto il direttore del Festival Alberto Prunetti, ciò che rende davvero senza precedenti il Festival è la volontà «di intervenire con la letteratura nella società costruendo e mobilitando un pubblico non a partire dal successo di marketing di un genere o di un’opera ma dalla solidarietà popolare attorno a una mobilitazione sindacale». Non a caso il titolo scelto per il festival di quest’anno, in omaggio allo studioso di origini working class Mark Fisher, era «Non siamo qui per intrattenervi». Questo Festival produce energia ed entusiasmo perché è il contrario di un atto passivo di consumo culturale: è un atto politico di partecipazione, uno strumento in mano a una vertenza di fabbrica, un presidio sindacale di tre giorni che si aggiungono ai precedenti mille giorni della lotta più lunga della storia del movimento operaio italiano. Sabato sera è diventato anche un corteo: migliaia di persone che fino a quel momento ascoltavano, prendevano appunti e compravano libri, si sono alzate insieme per invadere la strada verso il centro di Campi Bisenzio, dove si è svolta, in piazza, la parte finale del programma previsto per il sabato sera.
Si tratta di una modalità, concreta e non retorica, di tenere insieme letteratura e conflitto sociale che crediamo lascerà un segno nella storia dell’editoria e del lavoro culturale di questo paese. Una forma radicale di uso pubblico della letteratura che si contrappone a una tendenza culturale ormai consolidata. Del resto dalla nascita della Seconda Repubblica l’industria culturale è diventata sempre più un settore commerciale simile agli altri, sono fioriti gli «intellettuali ad personam», non legati a un progetto politico-culturale di lunga durata ma a singoli leader politici, mentre a sinistra a lungo si è invocato il desiderio di un «paese normale», con la priorità di rimuovere i conflitti più aspri. Una tendenza che, come ha sostenuto al Festival Massimo Carlotto, finisce per anestetizzare la gran parte dello stesso mondo culturale, fino a rimuovere i conflitti sul lavoro persino di fronte allo scandalo del caporalato dentro alla tipografia Grafica Veneta, dove vengono stampati gran parte dei libri del mercato editoriale del nostro paese.
Il sindacalismo dei sogni
Il Festival ha rotto gli schemi di come si fa lavoro culturale e di come si fa conflitto sindacale, e abbiamo scoperto che la cosa può dare molto fastidio. Per due settimane la Qf ci ha accusato ogni giorno di illegalità, ha minacciato denunce e invocato l’intervento di questura e Ministero dell’interno, attaccando perfino l’attore Elio Germano reo di avere espresso, come molte e molti altri personaggi pubblici, solidarietà al Festival.
Del resto questa lotta va avanti da più di mille giorni perché l’unica strategia della proprietà, che ha visto i licenziamenti annullati più volte per condotta antisindacale, è stata quella della «rana bollita», ossia di provare a prendere per stanchezza e per fame questa incredibile resistenza operaia. Ma se entri nell’immaginario collettivo puoi provare ad andare oltre gli stessi limiti della resistenza dei corpi, aggiungendo quella dei libri, dei teatri, dei film, dei cori che si cantano ormai nelle più svariate lotte ambientaliste e studentesche. Come ha detto al Festival Annalisa Romani – traduttrice di Didier Eribon, Édouard Louis e Françoise Ega – la letteratura working class permette di prendere coscienza di far parte di una classe anche quando politicamente ancora non c’è «una classe per sé».
La lotta della Gkn è già passata alla storia per la capacità non solo di far convergere una lotta operaia con altre lotte sociali – cosa tanto rara quanto necessaria – ma anche con le competenze universitarie, artistiche e letterarie, conquistando la possibilità di immaginare un futuro diverso, di sognare – come nella Fabbrica dei sogni raccontata nel libro di Valentina Baronti.
Dalla convergenza con le competenze universitarie è nato il progetto di reindustrializzazione ecologica e la proposta di legge regionale per un innovativo intervento pubblico; dalla convergenza con le competenze artistiche e letterarie è nata la forza di rientrare nell’immaginario collettivo. «Il sindacato italiano dovrebbe crederci molto di più in questa lotta – ha detto Salvatore Cannavò nel panel finale – perché è evidente che vincere o perdere qui ha ormai un valore generale». La luce di questa lotta punta i fari anche sulla Regione di Centrosinistra che di fronte alla proposta di legge per l’intervento pubblico presentata dagli operai ha ora la responsabilità di intervenire.
Fare luce
«Ci hanno messo il capitalismo sottopelle – ha detto Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica chiudendo il Festival – hanno strutturato le nostre vite come se ognuno di noi fosse una micro azienda. Per questo odiano il Festival di letteratura working class: perché ci aiuta a toglierci un po’ di capitalismo sotto pelle e a farci pensare a cosa è successo alla nostra classe in questi anni».
Una decina di giorni prima del Festival, la fabbrica è rimasta al buio per un inquietante atto vandalico alla cabina elettrica a opera di ignoti che hanno lasciato lo stabilimento senza luce. Il Festival si è svolto, con l’ausilio dei generatori, nel piazzale di fronte alla fabbrica spenta, dando vita e luce a questi spazi con un montaggio collettivo, avvenuto in poche ore, di operai e solidali. L’ultimo giorno del Festival a sorpresa sono però arrivati al presidio 20 pannelli solari.
L’attacco criminale alla cabina elettrica – ha scritto il Collettivo di fabbrica – era arrivato a pochi giorni dall’inizio del Festival, la luce torna quando il Festival finisce. E non è una metafora, né una casualità. Altri «ignoti» sono partiti sin dalla Germania, percorrendo migliaia di chilometri. Hanno pagato interamente di tasca propria 20 pannelli fotovoltaici. Hanno trovato in loco operai in lotta in grado di «customizzare» l’intelaiatura. E il presidio sindacale ha iniziato a funzionare alimentato da energia solare. Noi naturalmente non possiamo sapere chi sono questi ignoti. Abbiamo dei fortissimi sospetti indiziari. È pesantemente indiziato il movimento climatico internazionale che da tempo ha deciso di convergere con la lotta della ex Gkn. È altrettanto indiziato il Collettivo di Fabbrica che fa della convergenza con il movimento climatico il tema di reindustrializzazione della fabbrica.
Le forze in campo sono impari, come dimostrano le dichiarazioni del sottosegretario al Lavoro del governo Meloni, Claudio Durigon, totalmente schiacciate sulle posizioni della proprietà. Gli operai «sorridono però tengono la guardia alta – ha scritto Valeria Parrella dopo il suo intervento al Festival – e hanno ragione: che è un minuto che ti volti e ti truffano. È un attimo che da narratore della tua storia diventi narrato, da protagonista gregario, da soggetto oggetto».
Per provare a scrivere un’altra forma, inaspettata, di lotta deve allora resistere la capacità di sognare. Fino a che ce ne sarà.
*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia.
Tutte le foto sono di Andrea Sawyerr.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.