Ho visto anche degli Zingaretti felici
Il nuovo segretario Pd archivia i tratti più tracotanti del renzismo senza alcuna inversione di fondo. L'idea di un ritorno allo spirito originario del centrosinistra regge in assenza di alternative, ma la realtà di oggi non è quella del 1996
Nicola Zingaretti è il nuovo segretario del Pd. Il presidente della Regione Lazio ha battuto con oltre il 66% dei voti gli sfidanti, renziani di diverso rito, Maurizio Martina (22%) e Roberto Giachetti (12%). Nel suo discorso celebrativo, il neosegretario ha delineato i tratti fondamentali della sua proposta politica: archiviazione del renzismo, pacificazione interna, opposizione etica e umana a Salvini, ricostruzione del centrosinistra, attenzione alla povertà e alla sofferenza. Una leadership mite al limite dell’umiltà, quasi prodiana negli accenti, ben lontana dai toni esaltati di Renzi.
La proposta di Zingaretti archivia il renzismo come tentativo di “populismo liberale” che scommetteva sulla capacità del Pd di sfondare nell’elettorato berlusconiano. Il Pd, invece, reagisce all’avanzata aggressiva della destra salviniana scommettendo sul ritorno a un bipolarismo più tradizionale, e quindi sulla costruzione di un centrosinistra sullo stile di quello degli anni Novanta e primi Duemila, sottintendendo la capacità di risucchiare il M5S in questo processo. Nel far questo, archivia i tratti più tracotanti del liberismo renziano, assumendo un atteggiamento più inclusivo, ma allo stesso tempo non fa alcuna inversione di rotta sui temi sociali ed economici di fondo, sui quali del resto Renzi era in totale continuità con i suoi predecessori.
Un ritorno all’Ulivo, insomma, ma in una situazione sociale ben diversa (con un paese in recessione schiantato da dieci anni di austerità) e con un panorama politico ben diverso (l’incognita del Movimento Cinque Stelle). E senza alcuna reale prospettiva di inversione di tendenza sul piano delle politiche. Saranno questi elementi di instabilità, e la capacità delle forze attive della società italiana di interagirvi, a determinare da che parte si risolveranno le contraddizioni di questa proposta politica.
Il ritorno della “ditta” e il mito del leader mite
Lo Zingaretti che emerge dal suo primo discorso da segretario del Pd sembra preoccupato, prima di tutto, di recuperare gli elementi simbolici più tradizionali del centrosinistra italiano, frettolosamente rottamati nell’epoca renziana, e ora riscoperti con urgenza. C’è tutto: l’antifascismo, la lotta contro la mafia, il femminismo, il corteo sindacale del 9 febbraio, il riferimento alla stagione mitica dell’Ulivo. Sembra che il primo messaggio che il presidente del Lazio vuole dare sia: «siamo tornati». Il centrosinistra degli anni Novanta e primi Duemila, che Renzi chiamava con disprezzo «quelli di prima» o «quelli del 25%» sembra essere diventato, dopo il tracollo del 4 marzo 2018, un riferimento rassicurante e confortevole.
Costruire un’immagine di sé quanto più possibile lontana da quella del suo predecessore fiorentino è evidentemente il principale obiettivo di Zingaretti in questa fase. Dove Renzi non perdeva occasione per attaccare il Pd e i suoi apparati, con molta più veemenza di quanto abbiano mai fatto il Movimento Cinque Stelle e la destra, Zingaretti inizia ringraziando «il Partito Democratico e il nostro straordinario popolo del centrosinistra, che il 4 marzo ha subito una sconfitta devastante, che ha avuto paura, si è diviso, è ferito; ma che quando ha visto l’opportunità e la possibilità di cambiare ha reagito, si è rimesso in piedi, è reattivo, è combattivo e oggi ha dato una lezione di democrazia alla nostra Repubblica». Non nomina neanche i suoi avversari, Zingaretti, né ha una parola di critica o di rivalsa verso il suo predecessore. L’unità prima di tutto. Un’attenzione al partito che stride col mito dell’uomo solo al comando, che il neosegretario rigetta nettamente: «io non sarò solo e non vorrò mai essere solo» ha detto domenica sera, ricordando lo slogan che ha inaugurato la sua campagna «da soli si va più veloci ma insieme si va più lontano».
Parole che suonano rituali, e che più che per il loro significato letterale vanno colte per ciò a cui implicitamente rimandano nell’immaginario del centrosinistra italiano: il mito del leader mite, l’understatement come bandiera, la superiorità del collettivo sull’individuo. La retorica, insomma, che accompagnò Romano Prodi alle sue vittorie nel 1996 e nel 2006 e Pierluigi Bersani alla sua sconfitta del 2013. Un modello di anti-leader sapientemente costruito come tale per risaltare contro lo sfolgorante luccichio carnevalesco del berlusconismo, e ora rispolverato per provare a far dimenticare le velleità kennediane di Renzi e fronteggiare il piglio volitivo del “Capitano” Matteo Salvini.
Il ritorno della “ditta” post-comunista e dei leader umili e pazienti, insomma, questo promette Zingaretti. Ma a chi parla? Esiste davvero un “popolo del centrosinistra”, messo in fuga da Renzi più per lo stile che per le politiche, che attende con ansia di vedere un nuovo Prodi o un nuovo Bersani per tornare a casa? L’idea che ci fosse un popolo di “dispersi nel bosco” da andare a riprendere era alla base del tentativo di Bersani e D’Alema di costruire una nuova forza a sinistra del Pd, caratterizzata appunto dalla nostalgia della “ditta” e dai toni prodiani: non è che sia andata benissimo, questa ricerca, a giudicare dal 3,4% rimediato da Liberi e Uguali un anno fa. Sembra quasi, ma non ditelo a Zingaretti, che l’abbandono del Pd da parte degli elettori sia stato dovuto più alle politiche di austerità che all’estetica arrembante.
Eppure Zingaretti ci scommette: «Molti sono tornati, stanno tornando e torneranno in quello che dovremo costruire ora: un nuovo Pd e una nuova alleanza» ha proclamato domenica. Ridare centralità al Pd nella riscoperta delle sue radici uliviste, insomma, e ricostruire un’ampia alleanza. Un nuovo centrosinistra contro un nuovo, grande nemico.
Il ritorno del centrosinistra e l’anti-salvinismo
È infatti Matteo Salvini a rendere possibile il tentativo di resurrezione del cadavere di un’altra epoca politica: il centrosinistra. Il linguaggio usato da Zingaretti per definire questo governo (ormai simbolicamente schiacciato sulla figura del ministro dell’interno, con i grillini pressoché scomparsi dalla scena) richiama quello usato a cavallo del secolo contro Berlusconi: l’attuale esecutivo è «illiberale e pericoloso». E se a essere in pericolo sono i sacri valori liberali, più che le condizioni materiali delle classi popolari, non c’è alternativa: serve una grande alleanza di centrosinistra.
La piazza di sabato scorso a Milano, del resto, ci aveva già mostrato questo: c’è un’indignazione etica e umana contro gli atti più violenti di questo governo, in una parte probabilmente non maggioritaria ma di certo ampia del paese. Una risposta istintiva, sana e apprezzabile, di fronte alla marea nera che continua a montare. Ma la logica dell’emergenza democratica, civile e umana porta dritti verso la sua conseguenza naturale: la grande alleanza che raccolga tutti gli uomini di buona volontà per cacciare il mostro dal villaggio.
L’obiettivo di Zingaretti sembra essere approfittare della polarizzazione forte generata da Salvini nella società italiana per ricreare il bipolarismo della Seconda Repubblica. Per farlo, ovviamente, deve fingere che il Movimento Cinque Stelle non esista più. In questo, va detto, è aiutato non solo dai pessimi risultati del partito temporaneamente guidato da Luigi Di Maio alle recenti elezioni regionali in Abruzzo e Sardegna, ma anche dall’inconsistenza che ogni giorno lo stesso Di Maio e il premier-notaio Giuseppe Conte mostrano alla cittadinanza. In questo, la strategia di Zingaretti non si allontana da quella tratteggiata da Renzi un anno fa, di cui del resto è figlia: scommettere sul successo di Salvini, mettere in atto con lui una spregiudicata manovra a tenaglia con cui stritolare i grillini e, nel frattempo, fare il pieno di tutto ciò che di degno, civile e umano si muove alla sinistra e alla destra del Pd.
Il bipolarismo della Seconda Repubblica, con le sue vaste coalizioni, eterogenee al proprio interno quanto omogenee tra loro nella condivisione dei tratti di fondo delle politiche economiche neoliberiste, crollò all’apice della crisi economica, sotto la duplice pressione dei dogmi dell’austerità, pedissequamente applicati dal governo Monti col sostegno compatto di Pd e Pdl, e dello scontento popolare nei loro confronti, emerso nelle piazze e interpretato dal Movimento Cinque Stelle. Se di fronte alla crisi le risposte sono le stesse, il giochino non può che saltare, e non può che emergere un nuovo attore che ne promette altre. Ma se non avviene, come sta accadendo in questi mesi, e se emerge una nuova spaccatura all’interno dello stesso consenso neoliberista – quella sulla politica razzista e securitaria di Salvini – allora ci si può riprovare.
Questo sapore vintage riaffiora anche nel testo della sua mozione: un condensato di moderate proposte di buon senso progressista dalla formulazione ambigua, con cui è ben difficile essere in disaccordo ma in cui non si intravede alcun reale cambiamento di rotta sulle grandi scelte degli ultimi anni: taglio alla spesa pubblica, privatizzazione, precarizzazione. Del resto, il presidente del Lazio non smette di rivendicare la sua adesione alle scelte di fondo dell’epoca renziana, dal Jobs Act alla riforma costituzionale. Il centrosinistra a cavallo del secolo ambiva a tenere insieme democrazia e mercato, progresso sociale e liberismo economico: la crisi è intervenuta a mettere quelle forze apertamente l’una contro l’altra. Oggi è davvero possibile rimettere insieme i cocci non della politica, ma delle forze reali della società?
Elementi di instabilità
Questa nuova stabilizzazione bipolare, va detto, è tutt’altro che compiuta. Il centrosinistra in Abruzzo e Sardegna sembra aver arrestato il crollo, ma è ben lontano dall’essere risalito. Tuttora, il Pd è il terzo partito nei sondaggi, dopo Lega e Movimento Cinque Stelle. Da qui al considerare di nuovo il Pd come un serio contendente al governo del paese, la strada è lunga.
Su questa strada c’è il Movimento Cinque Stelle. Non è un caso che Di Maio si sia affrettato a sfidare Zingaretti sul salario minimo, come del resto all’indomani del voto in Abruzzo aveva sfidato Calenda provando a competere sullo stesso piano civico-liberal-centrista. La competizione per lo scettro di anti-Salvini è tuttora aperta, e per quanto sembri sterile quanto quella per individuare l’anti-Juve nel campionato di Serie A, sembra destinata a durare. Ed è probabile che porti entrambe le forze a ragionare su un’opzione a oggi impronunciabile: quella di un’alleanza. Di cosa fare con il Movimento Cinque Stelle nessuno parla, anche perché dentro il Pd ci sono letture profondamente diverse dell’identità reale del partito grillino: si tratta di una versione esasperata del girotondismo anti-berlusconiano, espressione dei ceti medi riflessivi, come sembrano pensare alcuni, o di una pericolosa minaccia autoritaria alla democrazia liberale, come pensano altri? In ogni caso, il Movimento Cinque Stelle è il figlio della Seconda Repubblica e del suo fallimento, e resisterà in ogni modo al tentativo di restaurarla.
L’altro ostacolo su questa strada è la realtà sociale ed economica dell’Italia di oggi, che non è quella del 1996 né quella del 2006. Un paese impoverito, arrabbiato e incattivito, che sinceramente non sembra molto incline a farsi incantare dalla retorica della bonomia e della conciliazione. Tra il popolo delle primarie e quello delle elezioni, sia in termini di numeri sia di composizione anagrafica e sociale, sembra esserci parecchia differenza. E se sul piano dello stile e dell’immagine Zingaretti si è costruito perfettamente come l’anti-Renzi, sul piano delle politiche non c’è, ad oggi, traccia di un’inversione di rotta. L’entusiasmo generato in queste ore va ascritto più alla disperazione di un popolo che acclamerebbe chiunque pur di trovare un’opposizione a Salvini, che al reale apprezzamento per le proposte di Zingaretti. Del resto, se il modello è quello del centrosinistra pre-Renzi, non va dimenticato che fu proprio quel centrosinistra a finire tra le braccia di Monti nel 2011 e a determinare in questo modo l’esplosione grillina. Paradossalmente l’unico a competere davvero con il Movimento Cinque Stelle sul piano del populismo, almeno per una prima fase, fu proprio Renzi. Davvero ora l’anti-renzismo è diventata la ricetta miracolosa?
L’impressione, insomma, è che il Pd di Zingaretti sia programmato per tenere, come del resto sta accadendo in queste settimane, per fermare l’emorragia, per iniziare a ricostruire un’opposizione, ma che reali possibilità di inversione della tendenza, sul piano delle politiche come su quello del consenso, siano ben lontane.
Spettatrice non pagante di questa partita sembra essere la sinistra, o ciò che ne resta. Il tramonto della proposta di Luigi De Magistris di una lista per le elezioni europee di maggio sembra aver assestato un colpo letale al frastagliato campo delle piccole forze a sinistra del Partito Democratico. L’attrazione fatale del centrosinistra sta già tornando forte in molti, come si è visto in queste primarie, e del resto va riconosciuto che, dal 2008 a oggi, tutti i tentativi di costruzione di un’alternativa politica fuori dal centrosinistra, in maniera diversa, sono falliti. L’egemonia del Pd nel campo progressista è uscita traballante dal decennio della crisi, ma, contrariamente ai pronostici di chi scrive, esiste ancora. La sinistra è condannata a esistere solo come corrente radicale e critica del centrosinistra, o esiste ancora la possibilità di dare corpo a una proposta politica indipendente e autonoma? Difficile dirlo, ma è un fatto che la finestra di opportunità per l’alternativa, se non è ancora chiusa, sembra essere sempre più stretta.
Sarebbe poco saggio, d’altra parte, fare previsioni in un contesto tanto volatile. L’elezione di Zingaretti apre una fase di transizione nel centrosinistra italiano, non più prigioniero della “terza via” renziana, ma tuttora ben lontano da una decisa inversione di tendenza in senso socialista come quella imboccata da Corbyn nel Regno Unito e Sanders negli Usa. La sua è una proposta timida e intermedia, priva di una direzione netta, come quelle tentate da Ed Miliband nel Regno Unito e da François Hollande in Francia, con i tragici risultati che conosciamo. La scommessa di Zingaretti è simile a quella di Pedro Sánchez in Spagna: quella della fine del “momento populista” e di una nuova stabilizzazione bipolare. Una via di mezzo piuttosto ardita tra il centrosinistra liberale che abbiamo visto in questi anni e le nuove proposte socialiste. Difficile che l’ambiguità regga nel tempo: a dare a questi tentativi la credibilità che altrimenti non avrebbero è soprattutto la mancanza di alternative. Il parziale successo dell’illusione di Zingaretti sembra essere legato soprattutto a questo: in assenza di un’alternativa politica reale, per la cui costruzione evidentemente serve qualcosa di diverso da ciò che si è visto negli ultimi dieci anni, ci si attacca a ciò che c’è, in nome dell’opposizione al mostro Salvini.
Il 2019 non è il 1996, ed essere allo stesso tempo, nell’Italia e nell’Europa di oggi, la forza responsabile della tenuta dei conti e dei vincoli di bilancio, e la speranza di cambiamento per chi ha pagato più di tutti crisi e austerità, è davvero difficile. La scommessa dell’ambiguità è rischiosa. Gli elementi di instabilità di cui sopra e le contraddizioni tuttora aperte nella società italiana saranno i banchi di prova che ne determineranno l’esito. Sta alle forze attive della società italiana agire su queste contraddizioni, per tenere aperto lo spazio dell’alternativa ed evitare l’allineamento dell’Italia al modello Visegrad, quello di un bipolarismo tra destra populista e centrosinistra liberista. In fondo, nel Regno Unito, è stato proprio il fallimento della proposta ambigua di Ed Miliband ad aprire le porte a Jeremy Corbyn.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.
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