Il fallimento di Sumar
La formazione guidata dalla ministra del lavoro Yolanda Díaz rischia di fare «la fine della sinistra italiana». Ecco cosa sta succedendo
«Rischiamo di fare la fine della sinistra italiana». Il nuovo coordinatore di Izquierda Unida Antonio Maillo ha riassunto così quali sono i pericoli davanti ai cui si trova la sinistra spagnola dopo le recenti, disastrose, elezioni europee. Sumar, la coalizione guidata dalla ministra del Lavoro, Yolanda Díaz, ha ottenuto il 4,65% dei voti e eletto 3 europarlamentari. Podemos, in solitaria, ne ha ottenuti due, con il 3,28%. Le due formazioni si erano presentate assieme nelle elezioni generali del luglio scorso, raccogliendo il 12,33%, pari a 3 milioni di voti, più del doppio di quanto ottenuto assieme dalle due formazioni ora antagoniste. Il dato è ancor più impressionante se confrontato con quello delle elezioni di un decennio fa. Alle europee del 2014, la somma in percentuale di Izquierda Unida e Podemos ottenne il 18% dei consensi e poi, nelle storiche elezioni del 2015, più di sei milioni di voti pari al 24,36%. In nove anni i voti persi sono cinque milioni.
In Italia la sinistra post-89 non ha mai raggiunto simili risultati, ma vi sono alcune assonanze tra quanto vissuto in Italia tra il 2006 e il 2008 e le tendenze in atto in Spagna da un decennio: la nascita di un grande movimento sociale che stimola la crescita elettorale della sinistra, la conquista di governi di amministrazioni locali che preannuncia l’entrata nel Governo, le divisioni fomentate dalla stampa, i rospi da ingoiare una volta giunti al potere, la burocratizzazione dei gruppi dirigenti e, infine, le divisioni laceranti, preludio di un flagrante tonfo elettorale. Ovviamente la situazione è un po’ più complessa, però il confronto tra l’ascesa e la discesa della «sinistra radicale» italiana tra il 2001 e il 2008 e quella spagnola post 11-M (2011) rende l’idea di quali siano i rischi incombenti: la scomparsa della sinistra.
Podemos vs Sumar: due strategie diverse
Pablo Iglesias si dimetteva da vice-Presidente del Governo nel marzo del 2021 e in quel momento indicava Yolanda Díaz, senza avere ricevuto il placet da parte dell’interessata, come sua successora. È vero che vi aggiunse la postilla «se così vorranno i militanti» ma a tutti apparve chiaro che si trattava di un’incoronazione a cui non valeva la pena opporsi, anche perché sembrava una buona decisione. Díaz aveva un ottimo rapporto con Iglesias ma non era di Podemos, era una eccellente ministra del Lavoro, in testa nel gradimento di tutti i sondaggi d’opinione e la persona giusta per ricucire i rapporti con chi era rimasto fuori dalla coalizione, i valenziani di Compromís e soprattutto Más País di Íñigo Errejón, co-fondatore di Podemos che aveva dato vita nel 2019 a una lacerante scissione. Tuttavia la mancanza di un mandato a Yolanda Díaz che provenisse da parte della base si è rivelato, nel lungo periodo, una delle principali ragioni che spiegano l’atteggiamento – distruttivo – nei confronti di Podemos intrapreso dalla Ministra sin da subito e, parzialmente, anche il fallimento di Sumar.
La distanza era innanzitutto strategica. Podemos e poi Unidas podemos (Up) non erano semplici formazioni che ambivano a redistribuire un po’ di ricchezza ma forze politiche con un progetto più ambizioso, forgiato nel calore degli Indignados del 2011: superare il sistema di potere post-franchista nato con la Costituzione del 1978, democratizzare lo Stato e i suoi apparati (giudiziario, militare, burocratico), rompere il rapporto tra partiti e grandi gruppi imprenditoriali, svelare gli interessi dietro l’apparente neutralità dei mezzi di informazione. Può essere criticata la via attraverso la quale Iglesias ha portato avanti questo disegno – un certo leaderismo che si è ritorto contro Podemos, una discussione frammentata, un rapporto non risolto o non strutturato con i movimenti sociali -, meno la coerenza del suo percorso. In questo senso si spiega la sua insistenza ad andare al Governo e a non accontentarsi di fare da stampella al Psoe (al contrario degli errejonisti, che avrebbero preferito l’appoggio esterno sin dal 2015), per conquistare quote di potere egenerare trasformazioni. E si spiega anche lo stile di Podemos dentro all’esecutivo: un costante scontro con i socialisti per spingerli verso posizioni più avanzate, e una costante denuncia della non normalità democratica dello Stato spagnolo. Iglesias poi ha costruito ponti con i leader indipendentisti catalani incarcerati, facendo loro visita e chiamandoli «prigionieri politici», e ha incorporato le sinistre catalana e basca nel blocco della maggioranza parlamentare.
La chiave della crisi della sinistra spagnola sta nella tensione tra questa ambizione e la realtà del governo di coalizione, come nell’esperienza italiana. Al governo, Podemos e Iglesias si sono trovati a pagare un prezzo molto alto sia per il loro stile arrembante sia per la loro posizione di junior partner della coalizione e i compromessi che ne sono conseguiti. Da una parte hanno subito la vendetta dello «Stato profondo», con decine di cause per le accuse più disparate (finanziamento illecito, furto e riciclaggio di denaro, ecc.), tutte archiviate ma tutte diffuse da un potere massmediatico perennemente ostile ai morados. Dall’altra, come spesso accade nei governi di coalizione, tutto ciò che nel governo non ha funzionato è stato ascritto a loro e tutti i risultati ottenuti ai socialisti, producendo un consistente travaso di consensi. Il cambio di leadership presupponeva la necessità non solo di una nuova faccia, ma anche di una nuova strategia.
La strategia scelta da Yolanda Díaz ha scartato nettamente da quella precedente. La sua lettura era che la crescita della destra e la sua radicalizzazione stessero portando la Spagna verso uno scenario, appunto, italiano, di bipolarismo tra destra e centrosinistra. Ha da subito rinunciato alle polemiche pubbliche sulla democratizzazione dello Stato e dei mezzi di comunicazione, ha anzi fatto del rapporto con la stampa e televisioni uno degli elementi fondamentali della sua strategia. Ha fatto di tutto per avere un rapporto non polemico con Pedro Sánchez e il Psoe dando vita, nell’immaginario collettivo, a una vera e propria coalizione elettorale coi socialisti. Ha poi cercato sponda non più con le forze della sinistra indipendentista ma con i liberali di Ciudadanos, che hanno votato a favore della sua riforma del lavoro. A livello internazionale ha aperto relazioni con i Verdi, organizzando a Madrid un evento con la presenza dei principali dirigenti del gruppo tedesco (notoriamente filo-sionista e guerrafondaio) e ha mostrato il suo sostegno all’invio di armi in Ucraina.
Inoltre Yolanda Díaz come vicepresidente si è presentata più come «numero 2» di Sánchez che come leader della seconda forza della coalizione: ha smesso di coordinare il gruppo di Up nel Governo, non ha dato battaglia in difesa della figura della ministra di Podemos Irene Montero quando i media la dipingevano come una femminista estremista e incapace rispetto alla figura più matura e tranquillizzante di Yolanda Díaz. Dal punto di vista comunicativo, Yolanda Díaz ha messo al margine della sua propaganda le questioni ideologiche, convinta che i dati dell’occupazione di per sé avrebbero portato alla sinistra il consenso necessario. Con una strategia politica mirata a uscire dalla crisi di consenso di Up, portata avanti in convergenza con settori interni al sindacato e a Izquierda Unida, i Comuns di Ada Colau, i valenziani di Compromís, e soprattutto a Íñigo Errejón, convinto da anni che la sinistra dovesse smussare quegli angoli di conflittualità che potevano generare vulnerabilità esterna e spingere sul cosiddetto «senso comune», capace di unire sinistra e maggioranze sociali intorno a temi di grande consenso.
Tutti gli errori di Díaz
Il 1º aprile di un anno fa Yolanda Díaz, Ministra del Lavoro, al termine di due anni di tour per il paese, presentava in una cornice spettacolare il suo nuovo movimento, Sumar. «Voglio essere la prima presidentessa del Governo», annunciava al palazzo di Magariños in un evento tutto concentrato su sé stessa e con un grande appoggio di quasi tutta la stampa affine al Psoe. Curiosamente, però, di quella grande alleanza non c’era traccia nelle elezioni municipali e regionali che si sarebbero tenute di lì a qualche settimana, anzi. Yolanda Díaz, “capa” appena incoronata della sinistra, non fece nulla per promuovere l’unione tra le forze di sinistra insediate in alcuni territori e convinti membri di Sumar (Más Madrid e la valenziana Compromís) con Podemos e Izquierda Unida, presenti in tutto il paese ma meno radicate in quei determinati territori. Con un’alleanza qualcuna di quelle elezioni locali si sarebbe potuta vincere, ma è evidente che in quelle elezioni municipali si sia giocato un regolamento di conti tra Díaz e Podemos, che aveva polemicamente disertato l’evento di Magariños contestando la mancata convocazione di primarie per la leadership e le liste.
Seguirono le elezioni di luglio, in cui Sumar riuscì, in effetti, a limitare i danni rispetto alla crisi di consenso che investiva la sinistra da anni, ma vide comunque mutare a vantaggio di Sánchez il baricentro della coalizione.
Dopo le elezioni, il clima nella sinistra non è migliorato. L’atteggiamento di isolamento verso la formazione di Ione Belarra, segretaria di Podemos, è continuato. Convinti di avere a che fare con una forza ormai sul punto di scomparire, Sumar ha impedito a Podemos di entrare nel Governo, nell’Ufficio di presidenza del Congresso, nei ruoli di rappresentanza del gruppo, di presentare proposte di legge e addirittura di intervenire nel Parlamento. Podemos ha così avuto un buon pretesto per uscire dal gruppo parlamentare, recuperando autonomia e costruendo una lunga campagna elettorale verso le europee con Irene Montero come candidata.
Nel frattempo le tensioni dentro Sumar non sono diminuite affatto e sono state affrontate da Díaz utilizzando il proprio potere personale a danno di quello dei partiti.
Dopo tre tonfi in altrettante tornate elettorali in Galizia, Paesi Baschi e Catalogna, la campagna elettorale di Sumar è stata poi confusa. Sentendo il fiato sul collo di Podemos e soffrendo il protagonismo di Pedro Sánchez, Díaz ha virato verso uno stile improvvisamente aggressivo, mandando «a la mierda» i propri avversari sia in Parlamento che sui manifesti elettorali.
L’accumulazione di potere di Yolanda Díazcomunque, non sarebbero stati possibili senza il sostegno attivo di tutto quel vasto ecosistema mediatico progressista presente nel paese iberico. Giornali online come Público, Infolibre, elDiario nonché quotidiani e televisioni di grandi gruppi e diretti a un pubblico di sinistra, come El País e La Sexta, hanno sostenuto al cento per cento il suo progetto di una sinistra diversa, più amichevole con il Psoe, meno aggressiva con la stampa, meno ostile al sistema economico. Non si tratta neanche di vicende nuove. Izquierda Unida a fasi alterne ha avuto coordinatori che hanno sofferto campagne di diffamazione e scissioni di destra per aver scelto la fase dell’autonomia, come accadde a Gerardo Iglesias e a Julio Anguita, e al loro posto sono poi sopraggiunti dirigenti con un profilo meno aggressivo. Ciò che sorprende oggi sono le critiche che di colpo Díaz riceve dai propri ex-sostenitori dai quali, in nessun caso, si scorge la minima traccia di autocritica.
Subito dopo le elezioni Yolanda Díaz ha annunciato le dimissioni dal soggetto politico Sumar, restando però al Governo e alla guida del gruppo parlamentare. Ambisce a guidare ancora la sua coalizione ma non sarà facile. Il nuovo coordinatore di Izquierda unida, Antonio Maillo, non sembra intenzionato a lasciare le cose come adesso e chiede un maggiore ruolo nel partito. Intanto qualcuno, timidamente, cerca un canale di comunicazione con Podemos
La sopravvivenza di Podemos
Il risultato della formazione di Ione Belarra non è stato positivo, al di sotto delle speranze che si erano maturate negli ultimi giorni di una campagna elettorale da tutti riconosciuta come buona. Eppure il partito che era dato per morto da diversi anni è riuscito a riorganizzarsi attorno alla figura carismatica di Irene Montero, a trovare un certo spazio nei dibattiti parlamentari e la leadership di Belarra ha guadagnato credibilità, specie nelle tematiche internazionali. Come riconosciuto dallo stesso Pablo Iglesias, l’esistenza di un mezzo di comunicazione affine, Canal Red (di cui è direttore) ha in parte bilanciato i veti in alcune televisioni e il trattamento ostile che da sempre ricevono i morados.
Tuttavia i problemi di Podemos sono sempre lì: a fianco di un gruppo di militanti certamente maggiore di quello degli altri partiti della sinistra, il partito continua a mancare di radicamento territoriale e soffre in tutte le elezioni locali. Molti sono stati i quadri che hanno abbandonato il partito denunciando l’impossibilità di discutere la linea ufficiale. I ponti con il resto della coalizione – soprattutto con gli yolandisti e gli errejoniani – sono distrutti da tempo. Ricostruirli sarà un’impresa al limite dell’impossibile, anche perché il voto delle europee dà a Podemos la legittimità per seguire un proprio percorso autonomo. Il rischio è che, come avvenuto in Italia del 2008, dalla crisi della sinistra derivi una polarizzazione tra una componente più moderata, organica al centrosinistra, e una più identitaria, sostanzialmente marginalizzata dal quadro politico.
Uno dei fondatori di Podemos (e ancora militante) Juan Carlos Monedero, invita il suo partito alla generosità, alla maggiore democrazia interna, alla creazione di un vero fronte popolare di cui il «motore» sia proprio Podemos. Il tempo dirà se è possibile costruire questo fronte, rilanciare la mobilitazione popolare e riportare la sinistra ai fasti di un decennio fa o se il destino sarà quello di ripetere gli errori e i destini della sinistra radicale italiana.
*Nicola Tanno è laureato in scienze politiche e in analisi economica delle istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato Tutta colpa di Robben (Ensemble, 2012). Vive e lavora da anni a Barcellona.
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