Rottura nella sinistra spagnola
Il divorzio tra Sumar e Podemos all'indomani della nascita del governo Sanchez fotografa la fase politica: i primi puntano tutto sulla coalizione di centrosinistra, i secondi provano a recuperare autonomia
Era atteso da settimane l’annuncio di Podemos di voler abbandonare il gruppo parlamentare di Sumar, la coalizione in cui stava nelle ultime elezioni politiche spagnole del luglio scorso. Dopo essere stati esclusi dal nuovo esecutivo guidato di nuovamente dal socialista Pedro Sánchez, il partito di Ione Belarra ha deciso di rompere la breve coabitazione con il gruppo guidato da Yolanda Díaz, dal 2021 vicepresidente del Governo. Paradossalmente, dopo mesi di scontri, la scelta è stata adottata e accettata con più naturalità di quanto si temesse: da un lato Podemos è convinta di poter recuperare autonomia politica, dall’altro Díaz crede che a livello locale, dove Podemos ha scarso radicamento, saranno in tanti ad abbandonare una nave che ha deciso di imbarcarsi nelle acque burrascose del conflitto per salire a bordo in quella bianca ed elegante di Sumar, attraccata nei porti sicuri del Governo. Il futuro nessuno lo conosce ma il timore è che entrambe le imbarcazioni possano non andare lontano. Se a breve termine qualcuno dei due potrà cantare vittoria, nel lungo periodo è possibile che Podemos si riduca a una formazione piccola e radicale mentre Sumar possa diventare ancora più succube del Psoe. A oggi si può dire questo: a distanza di otto anni dalle elezioni in cui Podemos fu a un passo dal sorpasso del Psoe, oggi i socialisti sono saldamente la forza guida della sinistra, le formazioni della sinistra post-comunista sono spaccate come mai prima e il leader del Psoe ha una popolarità senza precedenti tra gli elettori di sinistra.
In altre occasioni abbiamo parlato degli episodi che hanno generato crescente distanza tra Podemos e Yolanda Díaz. Nonostante la candidatura comune alle ultime elezioni politiche (che non ha dato grandi risultati) i rapporti sono rimasti tesi. I cinque deputati di Podemos sono stati messi all’angolo, esclusi dall’Ufficio di Presidenza del Congresso, dalle funzioni di capogruppo, dai discorsi in sede parlamentare, dalla possibilità di presentare proposte di legge e, infine, dal Governo. Mentre Izquierda Unida, Catalunya en Comú e Más Madrid hanno trovato rappresentanza nell’esecutivo, Podemos ne è stata esclusa, rendendo quasi inevitabile la separazione. Le ragioni di questo scontro si possono certamente trovare nelle questioni di potere interno, ma c’è dell’altro. Vi è una differente visione di qual è il ruolo di una sinistra di governo, sul rapporto con il Psoe, e su quali debbano essere gli obiettivi strategici di una forza di sinistra.
L’«assalto al cielo» di Podemos
Il populismo è stata la chiave per descrivere il «primo» Podemos, quello del periodo 2014-16. L’idea di fondo era quella di abbandonare simboli e parole d’ordine novecentesche in favore di un «senso comune» che rendesse quasi automatica l’identificazione delle rivendicazioni popolari con l’operato del nuovo partito politico. Non erano necessarie bandiere rosse, non servivano i temi del passato, quello su cui si insisteva era il sentimento «anti-casta» – politica ed economica –, a favore dei servizi pubblici e contrario all’austerità imposta sia dal Psoe che dal Pp. Soprattutto, Podemos faceva sua l’idea che andasse superato il cosiddetto «Regime del ‘78» – ed è questo l’aspetto che maggiormente ha spaventato l’élite spagnola. Con tale termine si intende l’accordo costituzionale del 1978 e la cornice politica che ne è scaturita: sistema bipartitico con Psoe e Pp come perni, forze nazionaliste di centrodestra basca e catalana come garanzie di stabilità in cambio di un progressivo trasferimento di competenze, moderazione salariale e concertazione sindacale, e con la Monarchia garante di tutto lo «stato profondo» formatosi nel quarantennio franchista (magistratura, polizia e forze armate su tutte).
In questa cornice il ruolo della sinistra spagnola era sempre stato perlopiù di testimonianza (con alcune eccezioni, come vedremo) e immerso in alcune contraddizioni. Il Partito Comunista guidato dal vecchio Segretario generale Santiago Carrillo era stato protagonista del processo costituzionale e per questo ha sottolineato maggiormente gli aspetti di avanzamento democratico piuttosto che quelli critici (l’amnistia per i crimini del franchismo, la Monarchia, il perpetuarsi del potere delle vecchie élite). Questo ha fatto sì che Izquierda Unida (dal 1986 rappresentante della sinistra spagnola) sia sempre stata schiacciata tra la voglia di rivendicare il compromesso della «Transizione» (il periodo tra la morte del dittatore Francisco Franco e le elezioni del 1982) e quella di chiedere un nuovo processo di democratizzazione. La debolezza perdurante del partito dal 1977 in avanti (sostituito dal Psoe come partito progressista di riferimento) ha fatto il resto, facendo di Izquierda Unida una forza prevalentemente residuale.
Da questo punto di vista l’irruzione di Podemos è stata un vero terremoto. Da un lato il gruppo di giovani politologi alla guida della nuova formazione invocavano «l’assalto al cielo», una trasformazione profonda del sistema politico spagnolo, dall’altra affermavano di non accontentarsi di fare testimonianza repubblicana o, nel migliore dei casi, di fare da stampella del Psoe, ma di voler vincere le elezioni, essere la prima forza della sinistra, di voler entrare al Governo da una posizione di forza. Radicalmente critici del sistema politico, ma anche lontani da ogni eredità ideologica, in un contesto in cui Izquierda Unida appariva al tempo stesso troppo ideologicamente connotata e troppo compromessa con il Psoe. La critica profonda al Regime del ’78, l’esplicita volontà di entrare nell’esecutivo statale, il rapporto conflittuale con il Psoe e la freschezza comunicativa nel saper parlare all’elettorato socialista erano una chiara novità per la politica spagnola – e una minaccia per il sistema politico bipartitico: i cinque milioni di voti ottenuti nel 2015 e nel 2016 hanno fatto scattare l’allarme.
Dal punto di vista giudiziario è stata scatenata una campagna di lawfare che ha generato decine di procedimenti penali contro Podemos e i suoi dirigenti, con le accuse più disparate. Alcune di queste (e annesse prove falsificate) sono state prefabbricate direttamente da settori della polizia e del Ministero degli Interni ma nonostante ciò giornali e tv hanno dedicato migliaia di ore a raccontare inesistenti casi di finanziamento illecito, furto e riciclaggio di denaro. Se nella sua fase ascendente Podemos aveva attratto, come ogni oggetto nuovo e brillante, le attenzioni benevole dei media, quando è andato al governo è stato invece duramente colpito da violente campagne di stampa. A quel punto, la risposta è stata fare della critica ai mezzi di comunicazione (e ai giornalisti in persona) e della necessità di democratizzarli, un nuovo pilastro della propria linea politica. Anche quando nel 2020 giunse al governo, Podemos non ha mai rinunciato a denunciare la mancanza di «normalità democratica», sottolineando l’atteggiamento conservatore della giustizia e delle forze armate, l’uso della menzogna nei talk-show televisivi, la persecuzione di attivisti sociali. Ovviamente ne ha pagato un caro prezzo: nei giorni più duri della pandemia, per vari mesi la casa di Pablo Iglesias e della sua compagna di vita e di governo, Irene Montero, è stata assediata da decine di militanti neofascisti, con una certa acquiescenza del Ministero degli Interni. Podemos è dunque stato un partito di lotta, per quanto una lotta che si è manifestata prevalentemente da un punto di vista verbale e ideologico. Come è stato scritto sul giornale diretto dallo stesso Iglesias, Podemos è (o è stato) un sentimento, uno stato d’animo. Non è stato capace di costruire radicamento territoriale, di darsi stabilità e democrazia interna (infinita è la lista di chi ha abbandonato il partito) né di dar vita a iniziative politiche sociali di grande rilevanza. Tuttavia è arrivato al Governo, il primo governo di coalizione. E in questo sta una delle caratteristiche peculiari di Podemos, che spesso vengono nascoste dalla coltre della propaganda e del rancore. Il partito populista avverso al grande Psoe è stato quello che più di tutti ha lottato per la costruzione di un governo con i socialisti, anche davanti alla contrarietà dei propri compagni di viaggio che avrebbero preferito dare un sostegno esterno all’esecutivo. Il partito spagnolo più radicale nelle forme e nei contenuti è quello per il quale era maggiormente necessario entrare nell’esecutivo e governare. Il partito giudicato come massimalista e settario è quello che ha ottenuto i migliori risultati della sinistra spagnola dal 1977. Al contrario, chi affermava di voler «sumar» (cioè unire) ha finito per dividere.
Sumar e il ticket Sánchez-Díaz
Nel marzo 2021 l’esigenza di adottare cambiamenti nella coalizione della sinistra spagnola, Unidas Podemos, era avvertita da tutti. Pablo Iglesias si rendeva conto che la campagna di discredito contro di lui era ormai penetrata in buona parte della popolazione, e che se da un lato era ancora simbolo di una resistenza alle pressioni esterne, non era tuttavia più capace di conquistare nuovi consensi. Per questo motivo egli stesso pensò che a succedergli sarebbe dovuta essere una personalità fidata ma diversa da lui.
Yolanda Díaz rispondeva a queste caratteristiche. Di ascendenza comunista ma politicamente indipendente, eccellente ministra del Lavoro, aveva portato a casa diversi aumenti del salario minimo accordati con imprenditori e sindacati, nonché la prima legge sui rider. Unendo competenza tecnica e piglio da donna di Stato, Díaz era in testa ai sondaggi di gradimento e poteva essere la persona giusta per guidare una forza di sinistra in una fase di scarsa mobilitazione e di necessità di prendersi cura delle persone più deboli. L’impegno, nella testa di Iglesias, sarebbe dovuto essere quello di ampliare i margini di Up, ma il progetto nella testa della Ministra del lavoro era molto diverso. Innanzitutto, Yolanda Díaz ha da subito lavorato per ricucire il rapporto con quella grande stampa che aveva attaccato Iglesias e Podemos sulla politica ma anche in base ad accuse basate sul nulla. Se il suo predecessore aveva indicato nella corruzione del giornalismo un problema politico, Díaz ha giudicato imprescindibile spegnere le fiamme sul fronte del rapporto coi mass-media e godere di un buon rapporto con essi. In tal senso, la creazione di mezzi di comunicazione indipendenti come quelli creati dallo stesso Iglesias dopo il suo ritiro dalla politica istituzionale (La Base prima e Canal Red poi) sono stati visti con indifferenza e fastidio (e va riconosciuto che soprattutto nella fase iniziale hanno dato vita a un inusuale controcanto alle parole della vice-Presidente). In secondo luogo Díaz si è comportata come una ministra indipendente e non come la capa-delegazione di Up. Ha curato attentamente e con competenza le sue deleghe disinteressandosi nella sostanza delle attività delle ministre Belarra e Montero, messe sotto pressione dalla stampa con accuse spesso strumentali. In quanto alle alleanze parlamentari, per l’approvazione della sua riforma del lavoro ha preferito trovare un accordo con la destra liberale di Ciudadanos piuttosto che con le forze della sinistra indipendentista basca e catalana. Rispetto all’agenda politica, poi, ha preferito concentrarsi maggiormente sulle questioni materiali piuttosto che sui processi di democratizzazione dell’apparato statale (polizia, magistratura, ecc.). Non che Podemos ignorasse l’importanza dell’aumento del salario minimo o di leggi di bilancio progressiste, ma certamente è emersa una differenza tra l’approccio del partito interessato a mettere mano alle dinamiche perverse dello «stato profondo» e quello tecnico-sindacalista impegnato in discreti negoziati con le parti sociali. In quanto al rapporto con il Partito socialista, infine e soprattutto, Díaz a parole si è presentata come desiderosa di diventare forza maggioritaria ma nei fatti ha costruito un’ala sinistra della coalizione guidata dal Psoe, senza competere davvero per la leadership. Nelle elezioni politiche di luglio si è dunque assistito al primo scontro tra coalizioni, con il Pp e Vox da una parte e Psoe e Sumar dall’altra. L’unità tra le forze progressiste ha certamente facilitato la non vittoria della destra ma ha anche rafforzato la figura di Pedro Sánchez come leader di tutto lo spazio progressista.
Vale la pena aggiungere un aspetto sulla politica internazionale di Yolanda Díaz. Mentre Podemos ha avversato la politica di invio di armi e di rifiuto della diplomazia per risolvere il conflitto russo-ucraino (pagando un duro prezzo in quanto a trattamento massmediatico), Díaz ha sostanzialmente evitato di affrontare l’argomento sostenendo che la politica estera è di competenza presidenziale. In continuità con questo approccio, ci sono stati alcuni abboccamenti con la famiglia dei Verdi europei, a cui già alcune componenti di Sumar fanno riferimento, mentre altre, come Iu, partecipano alla Sinistra Europea.
Un film già visto
Non è la prima volta che la sinistra spagnola si spacca sugli stessi temi che oggi dividono le strade di Podemos e Sumar. Al contrario, si potrebbe affermare che questa divisione risponde ad alcuni dilemmi storici che non trovano soluzione: il rapporto con il Psoe, la partecipazione nei governi, il giudizio sulla Costituzione e sulla Monarchia, la visione dell’Europa. E osservando le diverse spaccature del passato si assiste ad alcuni modelli comuni: il sostegno della grande stampa progressista verso i «riformatori», una scissione interna, un rafforzamento del Psoe.
Il caso più noto è quello che vide fronteggiare negli anni Novanta il Coordinatore di Izquierda Unidas Julio Anguita con un’opposizione interna «riformatrice» rappresentata da Nicolás Sartorius e Cristina Almeida. Anguita fu capace di condurre Izquierda Unidas ai migliori risultati della storia del partito attraverso una piattaforma giudicata eretica: recupero del repubblicanesimo, contrarietà al Trattato di Maastricht, rapporto conflittuale con il Psoe. Il principale quotidiano progressista, El País, reagì con attacchi diretti alla sua persona e appoggiando, invece, la sua opposizione interna, filo-monarchica e sostenitrice di un atteggiamento più morbido verso i socialisti. Se Anguita denunciava le politiche neoliberiste attuate da Felipe González e immaginava un incontro con il Psoe solo come risultato di un negoziato politico (in coerenza con il sistema elettorale proporzionale che vige in Spagna), la «destra» interna ragionava come parte di una coalizione dove alla testa vi era sempre il Psoe. Sconfitti dentro il partito, Sartorius e Almeida lasciarono Izquierda Unidas per poi, dopo poco tempo, entrare nel Psoe guadagnando incarichi di vario tipo.
La scissione realizzata nel 2019 da Íñigo Errejón dentro Podemos ha avuto caratteristiche simili a quelle di due decenni prima. Errejón era teorico di un populismo di sinistra che fosse capace di smussare quegli angoli di conflittualità che potevano generare vulnerabilità esterna. Nella sua visione bisognava spingere sul cosiddetto «senso comune», capace di unire sinistra e maggioranze sociali intorno a temi di grande consenso. Contrario a un avvicinamento a Izquierda Unidas, favorevole a un sostegno esterno del suo partito a un esecutivo del Psoe con il partito liberale Ciudadanos, e ampiamente sostenuto dai giornali e televisioni progressisti, Errejón abbandonò il partito insieme a decina di dirigenti dopo aver perso la seconda Assemblea generale di Podemos.
In questa nuova crisi che vede lo scontro tra Sumar e Podemos si ripropongono gli stessi meccanismi e tematiche. Ora che dopo vari tentativi la sinistra post-comunista è riuscita a convincere il Psoe a fargli spazio nell’esecutivo, la contesa non è tanto se far parte o no di un Governo ma sull’atteggiamento da adottare. Yolanda Díaz concepisce Sumar come il pezzo di una coalizione progressista davanti alla destra radicalizzata di Pp e Vox e preferisce concepire il suo lavoro sul miglioramento economico delle persone e non su cambiamenti di «regime». Podemos intende l’alleanza come un rapporto dialettico tra due forze diverse e crede che solo il tirare la corda possa portare i socialisti a cedere sulle misure più ambiziose.
Il tempo dirà chi ha ragione. Certo è che per il momento a essersi rafforzato è il Psoe. Nella logica di coalizione è Pedro Sánchez l’uomo che tutto l’elettorato di centro-sinistra, anche quello di Sumar, vede come simbolo della resistenza all’avanzata della destra. Se la crisi del 2008 e il susseguente movimento degli Indignados aveva messo alle corde il Psoe – visto come un pezzo di establishment –, poco più di un decennio dopo il Partito socialista è tornato saldamente al comando, elettoralmente e ideologicamente, del blocco progressista.
*Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato Tutta colpa di Robben (Ensemble, 2012). Vive e lavora da anni a Barcellona.
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