La Spagna resta (un po’ meno) a sinistra
Sánchez si presenta come il conciliatore tra sindacati e imprese, socialdemocratici e radicali, governo centrale e nazionalismi periferici. Recupera anche certi toni anti-establishment, mentre le sinistre si dividono
La Spagna resta a sinistra, ma un po’ meno di prima. Nella settimana della vittoria del fascio-liberista Javier Milei in Argentina, e mentre Donald Trump balza in testa ai sondaggi per le presidenziali americane, la formazione di un nuovo governo guidato da Pedro Sánchez in Spagna non può che provocare un sospiro di sollievo. Il leader socialista ha formato un nuovo governo, il secondo esecutivo di coalizione del post-franchismo, confermando l’alleanza con la sinistra di Sumar e raccogliendo in Parlamento il sostegno di tutti i partiti tranne i conservatori del Pp (Partito Popolare) e l’ultradestra di Vox. Decisivo il sostegno degli indipendentisti catalani, che hanno ottenuto l’amnistia per tutti i fatti connessi al referendum secessionista del 2017, generando la reazione rabbiosa della destra, che assedia la sede socialista da ormai due settimane, e di parti significative dell’establishment monarchico, giudiziario e mediatico. Una reazione nemica di sé stessa, dato che è stata proprio la radicalizzazione nazionalista della destra spagnola ad aver costruito la maggioranza di Sánchez, creando una spaccatura netta tra chi crede nel regresso reazionario e centralista di Pp e Vox e, sostanzialmente, tutti gli altri, sia nelle urne sia in Parlamento.
Pedro Sánchez, politico dalle sette vite, si presenta come il conciliatore, tra sindacati e imprese, tra socialdemocrazia e sinistra, tra governo centrale e nazionalismi periferici. Per farlo, rompe definitivamente un consenso già logoro, quello tra i due maggiori partiti sulle cosiddette questioni «di Stato», e assume nel suo discorso temi e stili tipici del movimento 15-M. Il suo governo resta, se non l’avanguardia, la trincea più avanzata della sinistra europea, mostrando che, anche con tutti i limiti di una politica riformista bloccata dalle compatibilità del capitalismo, della globalizzazione, delle regole europee e dei legami tra socialdemocrazia ed élite economiche, una politica progressista può, con la forza dei risultati, resistere all’avanzata della destra. Ma è proprio la sinistra a rischiare di più in questo contesto: da una parte, la nuova maggioranza parlamentare, con il voto decisivo dei nazionalisti di centrodestra baschi e catalani, sarà meno disposta ad avallare grandi avanzamenti sociali, in particolare su temi come il fisco o la casa; dall’altra, l’ala sinistra della coalizione è in piena guerra civile, in seguito alla scelta della vicepresidente del governo e leader di Sumar, Yolanda Díaz, di tenere Podemos fuori dal governo. Il partito fondato da Pablo Iglesias, finora parte di Sumar, si trova di fatto a dare l’appoggio esterno alla formula di coalizione, quella tra Psoe e sinistra, che per primo aveva voluto e reso possibile. Una rottura in cui a questioni di profilo politico, con Díaz più collaborativa e meno conflittuale nei confronti del Psoe , si uniscono ripicche e vendette, nonché l’incapacità della sinistra spagnola post-2011 di trovare nell’organizzazione democratica un principio regolatore alternativo alla leadership carismatica.
Piazze e palazzi
Sono tornati in mente a molti, in queste settimane, i giorni del voto di fiducia a Mariano Rajoy, nel 2016, quando l’allora leader popolare fu confermato alla presidenza del governo grazie al voto dei centristi di Ciudadanos e all’astensione socialista, mentre migliaia di persone circondavano il parlamento gridando al colpo di stato. Quel voto, infatti, fu reso possibile dalla defenestrazione del segretario socialista Pedro Sánchez, contrario ad appoggiare Rajoy, da parte dell’establishment del partito. Pochi mesi dopo, Sánchez tornò alla guida del Psoe vincendo le primarie, nel 2018 sostituì Rajoy al governo grazie a una mozione di sfiducia, nel 2019 costituì, al secondo tentativo, il primo governo di coalizione dai tempi della Seconda Repubblica, portando per la prima volta nell’esecutivo comunisti e populisti di sinistra. E nel 2023 è toccato a lui ottenere la fiducia sotto la protezione di 1.600 agenti di polizia.
È la destra, stavolta, a scendere in piazza e gridare al colpo di stato. Da oltre due settimane, gruppi di estrema destra assediano ogni sera la sede nazionale del Partito socialista, in calle Ferraz, con tutto l’armamentario simbolico che ci si può immaginare, tra saluti romani e bandiere franchiste, e i frequenti tentativi di assaltare gli uffici del Psoe. Il partito di ultradestra Vox, terza forza parlamentare, sostiene esplicitamente le manifestazioni, mentre il Pp oscilla tra la condanna della violenza, l’organizzazione di piazze distinte ma contigue, e la partecipazione indiretta, attraverso l’ex presidente della Regione di Madrid, Esperanza Aguirre.
Il «golpe» denunciato dalla destra consisterebbe negli accordi stipulati tra il Psoe di Sánchez e i due partiti nazionalisti catalani (Erc, di centrosinistra, e Junts per Catalunya, di centrodestra) che, oltre a una serie di vantaggi amministrativi e fiscali per la Catalogna, prevedono l’amnistia per le persone coinvolte nel referendum secessionista del 2017 e, in generale, nel processo costituente della (proclamata ma mai realizzata) Repubblica catalana. Una scelta conseguente con l’indulto già approvato dalla maggioranza Psoe-Unidas Podemos nello scorso mandato, come ulteriore passo per la distensione e normalizzazione dei rapporti tra governo centrale e Catalogna, ma a cui lo stesso Sánchez si era più volte detto contrario in campagna elettorale.
Il capo del governo uscente e riconfermato ha parlato esplicitamente, in Parlamento, della scelta di «fare di necessità virtù»: senza i voti dei due partiti nazionalisti catalani, non c’è nessuna maggioranza possibile. Lo sa bene Alberto Núñez Feijóo, leader del Pp che a settembre si è fatto conferire dal re Felipe l’incarico di formare un governo, in quanto capo del partito di maggioranza relativa, per vedersi bocciare in Parlamento da tutti tranne Vox. La destra spagnola sembra prigioniera di un paradosso: da una parte, ha trovato nell’asse Pp-Vox, nella propaganda nazionalista tutta bandiere, monarchia e centralismo e nella culture war contro femminismo ed ecologia, degli straordinari motori di mobilitazione elettorale, che l’hanno portata vicino alla maggioranza assoluta; dall’altra, proprio l’asse con l’estrema destra, l’ossessione centralista e la radicalizzazione delle posizioni politiche rendono impossibile il dialogo con qualsiasi altro soggetto politico. È emblematico il fatto che con Junts e Pnv (Partito Nazionalista Basco), due partiti di centrodestra già abituati a negoziare il sostegno a governi del Pp, stavolta non si sia stabilito il minimo dialogo. Se Junts rappresenta un’evoluzione indipendentista del vecchio autonomismo catalano, il Pnv resta una forza sostanzialmente democristiana e autonomista, spesso più vicina al Pp che al Psoe sui temi economici. Ma, per i nazionalisti periferici, la collaborazione con i neofascisti di Vox e con un Pp ossessionato dalla ricentralizzazione dei poteri regionali è sostanzialmente impossibile.
Ciò vale nelle urne come in Parlamento: così come la campagna elettorale estremista di Pp e Vox ha mobilitato l’elettorato democratico, il loro asse nelle istituzioni ha portato tutti gli altri verso il Psoe. Sánchez ha avuto gioco facile a presentarsi come il leader pragmatico e dialogante, che compone i conflitti e guarda al futuro. Il meccanismo sembra essere simile a quanto accaduto negli ultimi anni altrove, dagli Usa alla Polonia: la radicalizzazione delle destre porta alla creazione di vasti fronti, democratici se non progressisti, tendenzialmente maggioritari in nome della «normalità» contro gli eccessi reazionari. Un fenomeno acuito, nel caso spagnolo, dal conflitto aperto con i nazionalismi periferici, in particolare quello catalano.
A oltre un decennio dalla grande crisi del 2011 e dall’esplosione del movimento 15-M, destinato a rovesciare la politica spagnola come un calzino, la fiducia a un governo continua ad avvenire con la polizia schierata a fronteggiare i manifestanti. Ma il vero potere della destra non sta in piazza. I commentatori di sinistra si sono comprensibilmente divertiti a commentare la caye borroka di queste settimane (gioco di parole tra kale borroka, la guerriglia di strada tipica dell’indipendentismo di sinistra basco, e Cayetano, un nome proprio stereotipicamente aristocratico e diventato l’emblema delle classi privilegiate spagnole), vedendo fumogeni e cassonetti incendiati tra le signore impellicciate della base Pp. I rischi più forti per la stabilità del governo Sánchez, però, arrivano dai palazzi, e in particolare da quel potere giudiziario che ha già dimostrato più volte di saper usare qualunque mezzo, quando lo scontro è sul nazionalismo. Non va dimenticato che fu proprio una controversa sentenza del Tribunale Costituzionale contro il nuovo statuto di autonomia che riconosceva la Catalogna come «nazione», nel 2010, a fare da scintilla al processo indipendentista.
Il sanchismo, integrazione del 15-M
Intanto, però, Pedro Sánchez è di nuovo al governo. Se dovesse arrivare a fine mandato, nel 2027, con nove anni consecutivi alla Moncloa sarebbe il secondo capo del governo più longevo della storia democratica, dopo il suo compagno di partito, e ora acerrimo critico, Felipe González. Niente male per un politico da molti considerato, non del tutto a torto, come sostanzialmente vuoto, tutto fascino e apparenza. Lo stesso che nel 2014 si faceva fotografare, alla Festa dell’Unità di Bologna, con gli allora primi ministri italiano e francese, Matteo Renzi e Manuel Valls, tutti in camicia bianca, simbolo delle nuove leadership, rottamatrici e liberali, del centrosinistra europeo.
Ma, a differenza di Renzi, e di buona parte dei ceti dirigenti delle socialdemocrazie europee, Pedro Sánchez ha la peculiarità di essere un attore realista e razionale, non accecato dall’ideologia. Nel 2016 capì che una grande coalizione con il Pp avrebbe portato il suo partito alla pasokizzazione e nel 2019 capì (più con le cattive che con le buone) che l’integrazione delle istanze del 15-M attraverso l’alleanza con la nuova sinistra populista era la via per il governo. Perseguendo razionalmente il proprio interesse, personale e di partito, alla conquista e al mantenimento del potere, Sánchez ha dato vita a un esperimento politico senza precedenti in Spagna e senza analogie in Europa.
I rapporti con l’indipendentismo catalano sono improntati allo stesso pragmatismo al limite del trasformismo: lo stesso leader socialista che nel 2017 fece fronte comune con Rajoy e con il re per reprimere con durezza il tentativo di secessione in Catalogna, nel 2021 indultò i leader catalani incarcerati in quell’occasione; e lo stesso leader socialista che ancora a luglio si pronunciava contro l’amnistia generalizzata, a novembre firma il disegno di legge per l’amnistia.
Una capacità mimetica che i suoi avversari di destra attaccano come cinica assenza di principi, ma che risulta un’arma potentissima nella complessa politica spagnola del XXI secolo, attraversata da conflitti e fratture difficili da comporre senza una straordinaria capacità di adattamento. Una capacità esibita una volta di più nel dibattito parlamentare sulla fiducia, in cui Sánchez ha eclissato l’alleata di sinistra Yolanda Díaz recuperando direttamente i temi e il discorso del 15-M e di Podemos, imputando apertamente al Pp di essere controllato dall’élite economica per i suoi interessi. Se il ciclo del 15-M si è esaurito, con la tendenza al graduale ritorno verso il bipartitismo, e Podemos è in crisi e fuori dal governo, una parte significativa del loro discorso è stata assorbita nel mainstream, in parte addomesticata, e resa organica al sanchismo, un progressismo senza scosse, che firma accordi con le parti sociali, arma l’Ucraina e promette di riconoscere lo Stato palestinese. Una politica di conciliazione che passa, però, per forza, peruna rottura, quella del tradizionale consenso tra Pp e Psoe sui temi «di Stato», cioè sul rapporto con i nazionalismi periferici. Non una novità assoluta: è dal 2004, dal governo di José Luis Rodríguez Zapatero, che il consenso bipartitico spagnolo si è incrinato. Non è un caso, del resto, che Zapatero sia stato in prima linea a sostenere la campagna elettorale del Psoe, tanto quanto l’altro ex presidente socialista, Felipe González è stato impegnato a boicottarla. L’anomalia spagnola era il consenso bipartitico post-dittatura, che gradualmente lascia spazio a quello che è ormai lo scenario dominante in molti paesi occidentali: destra radicalizzata vs. vasto fronte democratico.
Sinistra, divisione e debolezze
La Spagna si conferma un’eccezione nel contesto europeo: non solo uno dei pochi paesi a guida socialdemocratica, ma anche l’unico, insieme alla Slovenia, in cui al governo siedano anche esponenti della sinistra radicale. Un elemento non secondario, nella conferma di Sánchez al governo. La mobilitazione elettorale del 23 luglio contro la destra è avvenuta anche e soprattutto perché il governo di coalizione, pur avendo deluso e scontentato a sinistra su temi come le politiche migratorie e la casa, ha comunque realizzato avanzamenti significativi sia sui temi economici sia sul fronte femminista. Non è un caso che la mobilitazione elettorale contro la destra si sia data in Spagna e non in Argentina: c’è bisogno, evidentemente, di fiducia nelle capacità del centrosinistra di governare con un successo, In questi avanzamento, il ruolo di Unidas Podemos è stato fondamentale.. Le due leggi più note approvate sotto Sánchez, infatti, portano la firma di due ministre di sinistra: la riforma del lavoro di Yolanda Díaz e la legge «Solo sì è sì» sulla violenza sessuale di Irene Montero. Il sanchismo esiste e resiste di fronte all’ondata di destra anche e soprattutto perché la sinistra lo caratterizza e gli dà sostanza.
Uno schema che sarà difficile riproporre in questa legislatura. Prima di tutto, va segnalato che non esiste più, in Parlamento, una maggioranza progressista. Se nella scorsa legislatura, Psoe e Unidas Podemos potevano scegliere (cosa per la verità avvenuta raramente) di negoziare misure di sinistra con gli indipendentisti di sinistra catalani (Erc) e baschi (Bildu), stavolta nessun atto di legge potrà passare senza il consenso delle forze di centrodestra catalana (Junts) e basca (Pnv). Pare difficile che, in queste condizioni, si possa partorire la legge sulla casa che non ha visto la luce nello scorso mandato, o la riforma fiscale che trova forti resistenze nello stesso Psoe. La coalizione di sinistra Sumar, inoltre, ha conseguito meno voti e meno seggi rispetto a quelli ottenuti da Unidas Podemos e alleati nel 2019 e la stessa Podemos può contare solo su 5 deputati. L’asse politico del Parlamento e quello del paese si sono spostati a destra e il mimetico Sánchez non potrà non tenerne conto. Già in campagna elettorale il profilo è stato moderato, in particolare sui temi di genere. «Ci sono cittadini, soprattutto uomini tra i 40 e i 50 anni – ha detto in un’intervista radiofonica a luglio – che hanno sentito alcuni discorsi che li hanno messi a disagio. E penso che questo sia un errore. Il femminismo deve essere interpretato come un movimento capace di integrare».
La composizione del nuovo governo, del resto, riflette il pragmatismo del suo capo: interno e difesa restano affidati a due figure più popolari a destra che a sinistra, Fernando Grande-Marlaska e Margarita Robles; l’uguaglianza (ministero che si occupa dei temi di genere) passa in mano ai socialisti, con la semisconosciuta costituzionalista Ana Redondo; le varie correnti e componenti territoriali socialiste si dividono il resto, tranne ovviamente i cinque ministeri destinati agli alleati di sinistra di Sumar.
La coalizione guidata da Yolanda Díaz sarà rappresentata, oltre che da lei stessa (vicepresidente e ministra del lavoro), da Ernest Urtasun (eurodeputato verde catalano, parte di Catalunya en Comú, ministro della cultura), Mónica García (leader della forza territoriale Más Madrid, ministra della sanità), Sira Rego (portavoce di Izquierda Unida, ministra di infanzia e gioventù) e Pablo Bustinduy (ex membro di Podemos, uscito nel 2019, ministro dei diritti sociali). Una delegazione ministeriale, di buon livello, che premia molto le forze e le persone più vicine alla leader, e che lascia completamente fuori Podemos Una rottura pubblica diventata irrisolvibile quando Podemos ha ribadito che la propria proposta era Irene Montero (ex ministra dell’uguaglianza, già esclusa dalle liste elettorali perché considerata troppo divisiva dagli alleati) e Díaz ha rilanciato proponendo un altro nome interno a Podemos e condizioni molto vincolanti per il partito in termini di autonomia politica. L’impressione è che, al punto a cui si era arrivati, nessuna delle due parti fosse interessata a un compromesso: Sumar si libera di una componente scomoda della delegazione ministeriale, Podemos scommette sull’avere mani libere per criticare da sinistra un governo che, come si è detto, avrà più difficoltà del precedente a produrre avanzamenti progressivi.
L’esclusione dal governo giunge al termine di oltre un anno di guerra aperta, sospesa in campagna elettorale in nome della necessità di bloccare la destra ma ripresa appena le urne si sono chiuse. Al di là dei dettagli, due elementi sembrano centrali della divisione.
Il primo è politico, seppur non di contenuto: Díaz propone un profilo meno barricadero e più rassicurante, in particolare verso il Psoe e i media, rispetto a quello tenuto da Podemos e dall’ex leader Pablo Iglesias (ora direttore della tv online Canal Red). L’ipotesi della leader di Sumar è che, nella fase del bipolarismo all’italiana, gli elettori vogliano una coalizione coesa ed efficiente, senza rumorosi scontri interni. Lo scontro ora dev’essere tra un centrosinistra compatto e la destra, non all’interno del campo democratico. A ciò si aggiunge la volontà di recuperare la sponda dei media progressisti, considerati fondamentali per il consenso. Podemos, invece, sostiene la necessità di mantenere il conflitto aperto con il Psoe, per mobilitare l’opinione pubblica e ottenere avanzamenti maggiori, e attacca frontalmente i media, anche progressisti, protagonisti in questi anni di continue campagne diffamatorie nei suoi confronti.
Il secondo, da non sottovalutare, è di potere: l’irruzione di Podemos nella sinistra spagnola non è stata indolore. L’offensiva populista non ha trattato con i guanti bianchi la sinistra pre-esistente né i dissidenti interni. L’egemonia di Podemos e del suo gruppo dirigente è stata, dal 2015 in poi, nettissima, a tratti spietata, e molti, all’interno e all’esterno del partito, l’hanno accettata più per forza che per amore. Una volta che i rapporti di forza, in seguito alle dimissioni di Pablo Iglesias da vicepresidente del governo nel 2021 e alla sua indicazione che fosse Yolanda Díaz a succedergli, sono cambiati, per molti è arrivata l’ora della vendetta. In vari settori della sinistra spagnola c’è un’ostilità radicata, nei confronti di Podemos, e la voglia di farla finita. Dietro al linguaggio morale che i protagonisti di questa vicenda usano c’è, anche se non soprattutto, una lotta di potere. Cosa normalissima per un’area che, a differenza della sinistra italiana, governa, impiega, gestisce. Ma che, in assenza di un’organizzazione democratica unitaria, non ha trovato soluzione se non nella decisione dall’alto.
Sullo sfondo, infatti, resta il problema di trasformare la verticalizzazione populista della mobilitazione di massa in organizzazione democratica. Su questo, va detto, il fallimento è stato generale. In Podemos, ogni rilevante conflitto interno è finito in scissioni o espulsioni. E, in Sumar, anche il pur limitato strumento delle primarie per comporre le liste è stato messo da parte (provocando l’ira di Podemos, che vi avrebbe potuto far pesare la sua preponderante base militante). Del momento populista post 15-M restano leadership carismatiche: quella di Iglesias, tuttora in campo, seppure sul fronte mediatico, e quella di Díaz, la cui popolarità resta molto alta ma difficilmente uscirà del tutto indenne dalla rottura con Podemos. E già si parla di liste contrapposte alle europee di primavera.
Sarebbe potuta andare altrimenti? Gestire prima un’esplosione di consenso enorme, poi anni di guerra giudiziaria e mediatica senza esclusione di colpi, infine la sfida del governo, non è cosa da poco. La leadership carismatica dotata di consenso popolare è stata un innegabile elemento di coesione, in assenza di legami ideologici o organizzativi forti. Per gestire un cambio di leadership, però, che inevitabilmente è anche un cambio di profilo politico e di equilibri di potere, servono altri elementi di tenuta (coesione personale, fiducia diffusa, vincoli ideologici e/o organizzativi, garanzie democratiche), che in questo caso sono mancati. Il rischio, ben noto a chi ha seguito la sinistra italiana post-2008, è che la frattura acuisca le divisioni e che le accuse reciproche diventino profezie che si autoavverano, con Sumar ridotta ad ancella governativa del Psoe e Podemos a una forza identitaria, isolata e marginale. Sullo sfondo, per restare in tema di cose familiari per la sinistra italiana, si muovono campagne mediatiche che liquidano come rumore di disturbo e potenziale sabotaggio ogni iniziativa politica di sinistra nel governo, oltre al ricatto, reale e concreto, di far tornare la destra se qualcosa va storto.
Alla sfida del terzo governo Sánchez, insomma, la sinistra arriva più debole e più divisa di quanto fosse quattro anni fa. Resta, però, una sinistra esistente, con cinque ministri di valore dentro il governo, trentun parlamentari, alcuni più allineati all’esecutivo e altri più critici, e una serie di potenziali alleati in parlamento (i 7 parlamentari di Erc, i 6 di Bildu, e il deputato nazionalista di sinistra galiziano) e nel paese. Un paese che in parte è stanco di tensioni e anela la normalità (ben interpretata a sinistra dal ticket Sánchez-Díaz), ma che è tutt’altro che politicamente inerte, come le mobilitazioni femministe degli scorsi mesi dimostrano. Il ciclo del 15-M si è esaurito, ma la sua eredità continua ad agire, nei palazzi della politica come nelle piazze.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).
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