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Il venditore
Berlusconi è stato prima l’industriale più potente della storia dei media italiani e poi il leader più importante della storia della destra dopo Mussolini, lanciando il modello dell’imprenditore populista
La morte di Silvio Berlusconi, all’età di 86 anni, consegnando alla storia la sua vita e il suo ruolo di principale protagonista della vita italiana degli ultimi quarant’anni, ne riporta alla luce il percorso e le azioni da uomo di successo e potere, liberando la scena dall’immagine dell’anziano sofferente e a suo modo tenero che abbiamo visto negli ultimi anni. Dopo vent’anni di ossessione nazionale compulsiva, in cui tutto il paese ha parlato sostanzialmente sempre e solo di Berlusconi, la sua perdita di protagonismo, tra il 2011 e il 2013, ha infatti provocato una generale rimozione della sua figura dall’immaginario collettivo, se non nelle forme caricaturali e benevole del nonno che racconta le barzellette e ci ricorda la leggerezza di una fase politica apparentemente meno drammatica di quella attuale.
È invece utile ricordare Berlusconi da vivo e al culmine del suo potere, anche solo per non fare torto alla memoria di una persona che ha perseguito successo e potere in ogni ambito, conseguendoli pressoché sistematicamente. Silvio Berlusconi è stato prima l’industriale più potente della storia dei media italiani e poi il leader più importante della storia della destra italiana dopo Benito Mussolini, lanciando in quel campo il modello dell’imprenditore populista, affabulatore e provocatore, seguito poi da Donald Trump negli Stati uniti. Un avversario implacabile dell’uguaglianza e della giustizia sociale, nonché l’esecutore più assiduo e tenace, se non sempre il più efficace, della trasformazione neoliberista dell’Italia e delle politiche che ne segnano tuttora il declino economico, sociale, politico e culturale, legandosi alla parte più retriva e provinciale della borghesia nazionale.
I processi storici sono sempre più ampi dell’operato di una singola persona, ma è difficile negare il ruolo determinante di Silvio Berlusconi nel modellare il sistema politico e il clima culturale del paese, nel cannoneggiare scuola, università, sanità, servizi pubblici e diritto del lavoro, nel costruire una destra se non fascista sicuramente non antifascista, la cui leadership attuale è interpretata da Giorgia Meloni, sua ex ministra, in piena continuità con il passato. Lascia un’Italia a sua immagine e somiglianza, che non a caso lo piange, con il lutto nazionale, come padre della patria.
Il grande venditore
Un’opera notevole compiuta da un uomo di cui non si conoscono particolari abilità e competenze se non la spregiudicatezza nel maneggiare soldi e potere e lo straordinario carisma nel vendere. Definire Berlusconi «un piazzista» è diventato da tempo un luogo comune, eppure è innegabile che comprare e vendere sia ciò che ha sempre fatto. Comprare ripetitori e vendere pubblicità, comprare film e vendere giornali, comprare calciatori e vendere successo, comprare sesso e vendere carriere, comprare giudici, poliziotti, avversari politici e vendere promesse di ricchezza, prosperità, dentiere e pensioni minime. Nel racconto di Gianni Rodari, l’uomo che rubava il Colosseo portava via una pietra alla volta e non si capacitava che ne restassero abbastanza per gli altri, per poi morire sentendo un bambino gridare «Mio! Mio!», senza le forze per insegnargli a dire «nostro».
Difficile immaginare Silvio Berlusconi che dice «nostro», ma al di là delle vicende giudiziarie, la sua specialità non è stata rubare il Colosseo, bensì venderlo e comprarlo. Ha comprato successo e potere vendendo tutto ciò su cui ha messo le mani, dalle telenovele ai gol di Van Basten, dai suoi ricordi d’infanzia alla Costituzione, per non parlare dell’economia italiana, di qualsiasi norma a tutela di ambiente e paesaggio contro la cementificazione, dell’acqua pubblica o, con una scelta particolarmente tragica, delle vite di migliaia di iracheni vittime di una guerra d’invasione basata su una falsità. In questo, Berlusconi ha rappresentato in maniera spesso perfino caricaturale lo spirito del capitalismo: ogni cosa ha un prezzo, ogni relazione è una transazione, lo scambio economico è il regolatore universale dei fenomeni umani.
Nel frattempo, il suo stile da venditore è diventato la norma della politica non solo italiana. Il populismo, che in buona parte dell’Occidente è stato la risposta politica alla crisi economica del 2008, in Italia non è stato affatto una novità. Il miliardario televisivo che incanta un paese con il suo tono da venditore, il fondotinta eccessivo, la mascolinità volgarmente strabordante e il narcisismo patologico non sono stati un’invenzione americana. Prima di Donald Trump, c’è stato Silvio Berlusconi. Una presenza non cancellata dal suo declino politico. Pensiamo alle principali figure politiche degli ultimi anni: Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Giuseppe Conte, Giorgia Meloni. In ognuno di loro c’è una traccia evidente dell’eredità del Cavaliere. Come se il prisma si fosse rotto e ognuno di loro ne conservasse un pezzo, in grado di riflettere un colore tra quelli che hanno permesso a Berlusconi di dominare la scena pubblica per un ventennio. La fama televisiva Grillo, Renzi l’arroganza leaderistica, la spregiudicatezza nel risvegliare gli istinti peggiori dalla pancia degli italiani Salvini, Conte l’eleganza datata e il sorriso piacione di seduttore di casalinghe attraverso lo schermo, Meloni il piglio volitivo della guida patriottica. Tutti quanti, l’attitudine compiutamente post-ideologica, la spregiudicatezza nel cambiare idee e alleanze nel giro di un istante, sé stessi come principale tema politico.
La Seconda Repubblica è stata, del resto, il trionfo dei faccioni da sei metri per tre sui muri delle città, dei nomi dei leader sui simboli elettorali, della distinzione tra «berlusconiani» e «antiberlusconiani» come principale linea di demarcazione politica, a cui sono seguite quelle tra grillini e antigrillini, renziani e antirenziani, salviniani e antisalviniani, contiani e anticontiani, meloniani e antimeloniani. Una politica post-ideologica, in cui partiti e coalizioni condividono in sostanza la cornice generale delle politiche sociali ed economiche, eppure si vive in uno scontro di civiltà perenne. Esattamente come ai tempi di Polo e Ulivo, anche nel 2023 i toni sono da guerra civile imminente, pur essendo la distanza politica tutt’altro che abissale. Lo scontro si dà su meta-questioni strutturatesi appunto nella Seconda Repubblica, come quella della giustizia. Del resto il Movimento Cinque Stelle è il figlio prediletto della Seconda Repubblica, quello che si modella a specchio sui genitori, ha una fase adolescenziale ribelle ma poi torna a casa. Un parto del berlusconismo e dell’antiberlusconismo. Da una parte, un partito nato da una personalità televisiva, scesa in campo in polemica nei confronti della politica tradizionale, sostenendo che destra e sinistra sono superate ed è ora di lasciare spazio ai cittadini che sanno fare concretamente. Dall’altra, la corruzione come tema centrale di battaglia, l’onestà come slogan e valore assoluto, la fedina penale come unico metro di giudizio dell’azione politica. Abbastanza berlusconiani da essere votati da chi ha amato Silvio e abbastanza antiberlusconiani da sedurre chi l’ha odiato. Poteva non arrivare qualcuno ad «aprire il parlamento come una scatoletta di tonno», dopo vent’anni di antiparlamentarismo e antipartitismo?
La lunga transizione della Seconda Repubblica, in cui tuttora nuotiamo senza vedere la riva, è stata interpretata da Berlusconi come nessun altro. Lui si è candidato alla presidenza del consiglio senza che Costituzione e legge elettorale lo prevedessero, lui ha messo il suo cognome e la dicitura «Berlusconi presidente» sul simbolo del suo partito, trasformando in presidenziale il nostro sistema parlamentare in un batter d’occhio, lui ha fatto degli studi televisivi «la terza camera» e dei luoghi istituzionali degli studi televisivi. Dopo anni di interminabili discussioni sulla crisi dei partiti e la necessità di riforme istituzionali, Berlusconi ha costruito un partito di funzionari pubblicitari e gestori di clientele, riformando la politica italiana di fatto, senza bisogno di cambiare la Costituzione. Che bisogno c’è, del resto, del presidenzialismo, quando il parlamento è pieno di avvocati del presidente del consiglio dediti a sfornare norme a suo vantaggio, di sue amiche e di deputati e senatori il cui voto risponde a un prezzario ben definito? Serve davvero riformare un parlamento, quando gli si può far votare ad ampia maggioranza che il presidente del consiglio, quando fece liberare Ruby dal commissariato in cui era stata fermata, era davvero convinto di intervenire a protezione della nipote di Mubarak?
Una storia italiana
D’altra parte, chi contesta Berlusconi se il potere da spartire dipende tutto dai voti che prende personalmente lui? Il principale prodotto venduto da Berlusconi, non a caso, è sempre stato sé stesso. Nel 1994, all’economista Luigi Spaventa candidato contro di lui nel collegio uninominale, rinfacciò: «Io ho vinto due Coppe dei Campioni, lei cos’ha vinto?». Ne avrebbe vinte altre tre, di Coppe dei Campioni da presidente del Milan, e in quella battuta c’è tutta la volontà di fare della propria storia di successo il sostituto perfetto di un programma politico. Finiti, con la fine della Guerra Fredda, Mani Pulite, il referendum sulla legge elettorale e le bombe di mafia, i partiti della Prima Repubblica, Berlusconi mette in scena la candidatura individuale, la discesa in campo, la figura mitologica dell’imprenditore (parola simbolo di un’epoca) al posto di quelle logore dei politici. Il suo personalismo non nasce nel vuoto dopo il decennio craxiano, e del resto del rampantismo anni Ottanta Berlusconi era già l’icona. Nel 1977, l’anno di una nuova ondata di movimenti, mentre le pistole sfilano nei cortei e fuori da essi prendono di mira imprenditori e politici, lui si fa fotografare con una 357 Magnum in bella vista sulla scrivania per difendersi dai rapimenti. Simbolicamente, l’arma da fuoco cambia direzione, e ora il dito sul grilletto ce l’ha l’imprenditore. La lotta di classe è finita, l’hanno vinta loro, ma possiamo essere come loro, o quantomeno possiamo partecipare virtualmente al loro successo, guardandoli in tv (nel 1981 su Canale 5 sbarca «Dallas») e, dal 1994 in poi, anche votandoli alle elezioni. Di fronte allo sfacelo di Dc e Psi, l’alternativa a «uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare» (perifrasi usata nel discorso della «discesa in campo» per liquidare la sinistra come la parte dell’Urss collassata pochi anni prima) è la liberazione degli animal spirits del capitalismo italiano dai «lacci e lacciuoli» che li imprigionano.
È in questo senso che va letto il successo della sua figura di manifesto corruttore ed evasore, spesso in odore di mafia, da criticare non tanto nei termini moralistici che hanno caratterizzato l’antiberlusconismo (di ascendenza cattolica, montelliana o berlingueriana che sia), ma in quanto concretizzazione di un modello di «prenditore» furbo e arraffone il cui successo economico sta tutto nella fregatura alla collettività. Cavalcando il sentimento antipolitico e antistato (siamo nell’epoca del leghismo che oscilla tra autonomismo e secessione), si propone agli italiani un patto: non chiedere troppo allo stato, e lo stato ti lascerà arrangiarti come meglio credi. È in questo modo che Berlusconi riesce a non pagare pegno per i continui guai giudiziari, ingaggiando una lunga lotta con la magistratura il cui frutto più avvelenato è la cooptazione del garantismo nella battaglia per l’impunità dei politici corrotti, danno che purtroppo stiamo continuando a pagare. Ma è in questo modo che si rivolge a una fetta di popolazione ampia, quella che non si riconosce nella promessa di modernizzazione globalizzante e stracittadina del centrosinistra, preferendo trovare margini di arricchimento nella provincializzazione strapaesana.
Al blocco sociale prodiano, in cui una parte di grande impresa e lavoro dipendente cercano – nell’integrazione economica italiana nel quadro europeo e globalizzato – una prospettiva di crescita i cui proventi redistribuire più o meno equamente, contrappone un’alleanza tra piccole e medie (e alcune grandi) imprese, pensionati, casalinghe, all’insegna del «piccolo è bello» e della ricerca nell’abbassamento del costo del lavoro e della pressione fiscale dei margini di profitto e redistribuzione clientelare. Due proposte egualmente inquadrate nel framework neoliberista, ma diverse negli interpreti e nelle prospettive. In questo, nella scommessa all-in sulla piccola impresa esportatrice, sta probabilmente il lascito più duraturo e drammatico del berlusconismo: decenni di crescita azzerata e un declino produttivo inesorabile. Questa, allo stesso tempo, è stata a una lungo una delle chiavi più rilevanti del suo successo: mentre il Centrosinistra prometteva una modernizzazione forzata a colpi di vincolo interno, Berlusconi proponeva alla società e all’economia italiane di restare com’erano, garantendo che pagare meno i dipendenti e meno le tasse sarebbe stato sufficiente a non cambiare.
I puristi del liberismo non hanno tutti i torti a segnalare quanto irrealizzata sia stata, a conti fatti, la «rivoluzione liberale» promessa da Berlusconi. In fondo, le grandi privatizzazioni sono state fatte soprattutto dal centrosinistra, le riforme fiscali sono state sempre parziali e della spesa pubblica si è spesso abusato, seppur in senso più clientelare che welfaristico. D’altra parte, è impossibile non ricordare il sistematico attacco al diritto del lavoro, in particolare attraverso la famigerata legge 30 del 2003, che introdusse i contratti a progetto e la somministrazione di lavoro, condannando alla precarietà, sulla scia del pacchetto Treu varato dal Centrosinistra, buona parte di una generazione. Il tentativo ripetuto di smantellare la contrattazione collettiva. I tagli devastanti alla scuola pubblica, ai servizi sociali, alla sanità territoriale, introdotti sia direttamente sia attraverso i tagli ai trasferimenti agli enti locali. Se nelle scuole superiori è possibile avere classi da 30 studenti, è perché c’è stato il Dpr 81 del 2009. Se l’università italiana è stata per un decennio un cumulo di macerie da cui migliaia di giovani sono stati cacciati, costretti alla scelta tra cambiare lavoro e cambiare paese, è perché la legge 133 del 2008 (il primo pacchetto di austerità in risposta alla crisi economica approvato in Europa) tagliò ben un miliardo e mezzo ai bilanci degli atenei.
L’ultimo governo Berlusconi, del resto, quello 2008-2011, gestore di una crisi a parole negata («i ristoranti sono pieni»), è stato l’avanguardia del neoliberismo come risposta alla crisi in Europa, tra legge 133, privatizzazione dell’acqua, sponda all’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne nell’attacco al contratto nazionale, prima di essere liquidato e costretto alle dimissioni, nel novembre 2011, non più credibile, con il graduale sgretolamento della sua maggioranza, come esecutore dello stesso ordine neoliberista transnazionale che aveva zelantemente servito. Un neoliberismo all’italiana, in cui invece di privatizzare, si sabota il pubblico per far crescere il privato a spese dei contribuenti, in cui si gonfiano i bilanci aziendali di bonus fiscali e sussidi a pioggia, in cui si autorizza sistematicamente, a colpi di leggi obiettivo e piani casa, la cementificazione di aree sempre più vaste del paese. E in cui si scarica ogni scontento sul nemico interno: sono gli anni della legge Bossi-Fini, del reato di clandestinità, della psicosi «sicurezza», della minaccia terroristica dietro a ogni angolo, dei parlamentari che passeggiano maiali sui terreni da adibire a moschea o che mostrano immagini islamofobiche in diretta tv.
Il padre della destra
Nell’opera di Berlusconi presidente del consiglio, del resto, si può leggere in filigrana il Dna di una nuova destra nascente. Una destra negata, nella sua forma esplicita e pubblicamente riconosciuta, nella Prima Repubblica dell’arco costituzionale, ma mai davvero cancellata nella società italiana. Fu Berlusconi a costruirla materialmente, mettendo insieme l’autonomismo libertario anti-tasse della Lega Nord con il conversatorismo nazionalista (e all’epoca ancora solcato da venature sociali) dei postfascisti del Movimento Sociale Italiano-Alleanza Nazionale, alleati al partito liberale-democristiano Forza Italia, con i suoi cespugli a cui si affidano in franchising determinate quote di elettorato.
Le radici della destra attuale stanno in vent’anni di normalizzazione e sdoganamento della destra radicale, ma soprattutto nel codice genetico che gradualmente tutta la coalizione di destra berlusconiana (il vero soggetto dell’appartenenza collettiva, nell’epoca dei partiti deboli) sviluppa. Il patriottismo riscoperto in salsa soft, con lo slogan calcistico Forza Italia e il tricolore stilizzato. L’atlantismo come valore supremo, superiore all’europeismo, tanto che Berlusconi, in onore alla fine della storia, ritenne che ritagliarsi un posto da alleati fedeli dell’unica superpotenza mondiale, gli Stati uniti, valesse una scelta impopolare come l’invasione militare dell’Iraq, con corrispondente rottura del quadro Ue. È questo il contesto in cui cresce politicamente Giorgia Meloni. Allo stesso modo, è in casi come la legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita (e relativi referendum) o il dibattito sul fine vita con la vicenda di Eluana Englaro tra 2008 e 2009, che Berlusconi aggiunge all’identikit della nuova destra la pennellata del conservatorismo valoriale filo-vaticano. Una destra strapaesana che convince il pezzo di paese a cui non va giù di dover per forza cambiare perché l’ha detto qualcun altro. In questo, un precursore non solo del trumpismo ma anche del sentimento borghese anti-establishment che ha animato la Brexit.
Dei 26 membri più rilevanti del governo Meloni, ben 11 (Meloni, Crosetto, Urso, Bernini, Santanché, Calderoli, Musumeci, Roccella, Casellati, Fitto, Mantovano) facevano parte dell’ultimo governo Berlusconi. La continuità è evidente, nelle scelte politiche come negli interessi sociali a cui il governo risponde. Una radicalizzazione c’è stata, è innegabile, ma fare, com’è avvenuto spesso negli ultimi anni, di Silvio Berlusconi il baluardo della tenuta democratica contro i cattivi estremisti, ha ben più che del paradossale. Basta vedere, del resto, l’omaggio a reti unificate che gli è stato attribuito in questi giorni, con tanto di lutto nazionale, per rendersi conto di quante casematte della società italiana siano tuttora saldamente in mano berlusconiana. Se Giorgio Gaber, in una citazione abusata, diceva di temere più «il Berlusconi in me» che quello in sé, di sicuro non c’è da stare tranquilli: di Berlusconi, ancora, ce n’è parecchio in giro.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino, 2019).
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