La Brexit non ci dividerà
Le trattative per l’uscita britannica dall’Unione europea hanno alimentato la crisi nel governo di Theresa May. Il Partito laburista non auspica un secondo referendum sulla Brexit, ma le elezioni anticipate. Con buone ragioni
Domenica scorsa una conduttrice dell’edizione inglese di Sky News ha chiesto al leader laburista Jeremy Corbyn se fosse un «euroscettico». Lui ha risposto così: «Io sono un socialista. Voglio il meglio per questo paese e per l’Europa». Una risposta ambigua, nel momento in cui le trattative sulla Brexit sembrano rischiare la tenuta stessa del governo di Theresa May? O forse una risposta calcolata per unire le diversi anime del Labour?
Sin dal voto per uscire dall’Ue, nel referendum del 23 giugno del 2016, il partito di Corbyn ha sempre insistito che avrebbe rispettato la scelta del 52% degli inglesi che aveva votato per la Brexit. Alle elezioni politiche del giugno del 2017 non solo i conservatori di May ma anche i laburisti hanno insistito sull’uscita del Regno unito non solo dall’Ue stessa ma anche dal mercato unico e dall’unione doganale. Negli ultimi due anni, la destra liberale del partito laburista ha fatto campagna per un secondo voto sulla Brexit. Hanno sostenuto che al tempo del referendum del 2016 gli inglesi non avevano capito quanto sarebbe stata disastrosa l’uscita dall’Ue sul piano economico o che per difendere i migranti è necessaria una resistenza ad oltranza alla Brexit. Allo stesso tempo, la leadership di Corbyn ha cercato di caricare tutta la responsabilità per le trattative disastrose sulle debolezze di May.
Poco più di quattro mesi prima della Brexit (la data fissata è per il prossimo 29 marzo) Corbyn è riuscito ad evitare ogni scissione o conflitto esplicito nel suo partito. Ma nel contesto della crisi del governo May, il cui accordo con l’Ue sembra non godere della fiducia della Casa dei comuni, per il Labour si fa più forte la responsabilità di definire l’approccio sulla questione. Finora, anziché ripudiare la Brexit ha ingaggiato una battaglia egemonica per cambiarne il contenuto.
Ambiguità strategica
Al congresso laburista tenutosi a Liverpool nel settembre, i Clp (le sezioni di Labour nelle circoscrizioni) hanno presentato più di cento mozioni per chiedere che si tenesse un secondo referendum, cioè per dare ai britannici la possibilità di votare di nuovo per rimanere nell’Ue. Grazie agli sforzi dei sindacati più grandi, nelle riunioni di “sintesi” queste proposte sono state annacquate, per dare alla direzione del partito una libertà di scelta più ampia. Si è ricorso a procedure poco trasparenti? Sono state sacrificate le aspirazioni di molti e molte militanti? Forse. Alcuni sondaggi mostrano che circa l’85-90% degli iscritti laburisti hanno votato Remain nel 2016, e che la maggioranza preferirebbe poter votare di nuovo sulla Brexit (anche se i risultati dei sondaggi su questa questione sono meno chiari). Ancora più popolare tra gli iscritti al partito e gli attivisti di Momentum (la tendenza corbynista) è la domanda per le elezioni anticipate. La mozione votata al congresso ha lasciato aperta la possibilità che si tenga un futuro referendum, ma ha insistito sull’urgenza immediata di andare alle urne per far fuori un parlamento in cui i conservatori hanno 315 seggi su 650 e i laburisti soltanto 257. Il Labour vuole prendere il controllo dell’intero processo, e dargli un’impronta nuova.
Al referendum del 2016, più di un terzo dei votanti laburisti hanno sostenuto il Leave nonostante la posizione pro-Remain del partito stesso. Due terzi dei deputati laburisti rappresentano circoscrizioni che hanno votato per uscire dall’Ue. Se pure si tenesse un nuovo referendum e questo riuscisse a rovesciare il risultato del 2016, ciò comporterebbe il rischio concreto di provocare una frattura duratura nella base laburista, molto probabilmente a vantaggio dell’estrema destra. Allo stesso tempo, si può dubitare fortemente dell’opportunità di tornare al voto sulla Brexit. Nonostante il parere molto diffuso che l’accordo raggiunto da May prepari un futuro economico difficile per il Paese e la delusione di molte promesse fatte nella campagna referendaria, i sondaggi non sembrano indicare che i britannici abbiano cambiato idea sulla Brexit: nonostante qualche outlier, in generale Leave e Remain rimangono appaiati, così come alla vigilia del voto del 2016.
Non si può dire quale potrebbe essere la questione al centro di un nuovo voto (si potrebbe votare sull’alternativa tra accettare l’accordo specifico negoziato da May o uscire senz’accordo, o tra questo accordo e Remain e altre opzioni). L’eterna lotta tra le correnti del partito conservatore riceverebbe una nuova spinta; così come nel caso del voto del 2016, sarebbe molto più difficile per il Labour prendere una posizione precisa, su un terreno sfavorevole e dominato dalla lotta tra difesa dei mercati e identità nazionale. Dunque, non è difficile immaginare i risvolti reazionari di una seconda campagna referendaria. Potrebbero essere anche più forti rispetto alla polarizzazione del 2016. Se negli ultimi due anni il partito di destra Ukip è stato indebolito (e la questione dell’immigrazione non è più al centro del dibattito mediatico-istituzionale), va tenuta presente anche l’ascesa del movimento razzista e “anti-élite” diretto dal militante islamofobo Tommy Robinson.
Rovesciare il voto “sbagliato” rappresenterebbe non solo un colpo alla democrazia ma una spinta per le forze più reazionarie nella società inglese, che potrebbero facilmente mobilitare il rancore contro l’establishment per aver frustrato la decisione presa nel 2016. La destra pro-Brexit istituzionale (l’ex ministro degli esteri Boris Johnson ecc.) non dovrebbe difendere l’accordo raggiunto da May: già adesso sta insistendo sulla possibilità di avviare nuove trattative con l’Ue, forse rimandando tutto il processo. Per tutti questi motivi, anche un europeista convinto come Yanis Varoufakis ha condannato nei termini più severi l’ipotesi di un “People’s Vote”, cioè un secondo referendum. Per l’ex ministro delle finanze greco, c’è da considerare il fatto che il secondo referendum non risolverebbe la questione (e se ci sarà un secondo voto, perché non un terzo?). In più, peserebbe l’elitarismo “tossico” implicito nella domanda di “ripensare” la decisione del 2016.
Estremo rifugio delle canaglie
Il 20 ottobre più di 700mila persone hanno partecipato alla manifestazione per il “People’s Vote”. Molti l’hanno fatto per motivi progressisti e internazionalisti. È soprattutto facile capire le aspirazioni e le paure degli immigrati, che non potevano votare nel referendum del 2016. Allo stesso tempo, è importante distinguere tra gli impulsi che hanno animato la campagna referendaria del 2016, e il quadro attuale, in cui la sinistra laburista è diventata molto più forte. L’allora presidente del consiglio David Cameron aveva promesso un referendum durante la campagna per le elezioni politiche del 2015, pensando che comunque non avrebbe conquistato una maggioranza dei seggi e che i suoi alleati Liberal-Democrat avrebbero bloccato la realizzazione della proposta. Cameron aveva preso quell’impegno per limitare l’ascesa del voto nazionalista di Ukip (e catturarlo). Alla fine proprio il suo successo clamoroso in quelle elezioni lo ha costretto ad avviare il referendum sulla Brexit.
Nell’estate del 2015 il trattamento riservato alla Grecia da parte delle istituzioni europee, nonché la crisi più generale dell’Ue, hanno contributo alla sua perdita di consenso e del suo alone democratico, nonostante il debole impatto europeo sulle scelte dei governi britannici (stiamo parlando di un paese che non fa parte dell’eurozona). Al centro della campagna referendaria c’era stata l’isteria contro l’immigrazione; la rabbia contro gli extracomunitari e la paranoia immaginaria sui rifugiati siriani che avrebbero invaso l’Inghilterra. Tutti fattori che avevano alimentato il voto per la Brexit. Allo stesso tempo, il voto fu un’occasione per chiunque voleva dare una colpo all’”establishment” politico-finanziario. In generale la classe lavoratrice-impiegata multietnica ed i liberi professionisti nelle metropoli hanno votato per rimanere nell’Ue, ma le circoscrizioni più povere e marcate dalla disoccupazione (gli ex porti e centri industriali) hanno votato in massa per uscire, nonostante i moniti allarmisti affermassero che la Brexit avrebbe rovinato (ciò che rimane de) l’economia.
Un eventuale secondo voto rischia di dividere il blocco sociale rappresentato dal Labour, affermando una linea di frattura (già realizzata in altri paesi europei) tra i cosiddetti “progressisti” e i “sovranisti” o tra i “cosmopoliti” e gli “abbandonati”. La responsabilità del Labour, e la scommessa politica dell’ala socialista del partito (già validata nelle elezioni politiche del 2017), è di evitare questo destino e promuovere una politica unificante di lavoro, investimenti pubblici e accoglienza nonostante le divisioni emerse durante il referendum. Questo vuol dire sacrificare gli immigrati sull’altare della “classe operaia autoctona”? No. Uno dei miti più insidiosi emersi durante l’attuale polarizzazione liberale/sovranista è la convinzione che siano le forze centriste e europeiste a difendere gli immigrati. Questo avviene nonostante il fatto che il leader laburista può vantarsi di un’esperienza di lotta antirazzista che non ha paragoni tra i leader della destra ultra-remainer del partito. Anzi, Corbyn vuole rispondere al disagio delle categorie più impoverite negli ultimi decenni anche per dotarsi dello spazio politico per difendere i migranti dopo la Brexit.
Per chi era politicamente cosciente dieci o quindici anno fa, quando il governo di Tony Blair ha costruito centri di internamento (imprigionando anche i bambini figli di migranti, privati di scolarizzazione); quando ha promosso la “guerra al terrorismo” non solo in Iraq o Afghanistan ma anche tramite la campagna contro i musulmani “arretrati” in Inghilterra; quando Gordon Brown ha scandito lo slogan (plagiando letteralmente i neofascisti del British national party) “British jobs for British workers”, è incredibile vedere le stesse persone proclamarsi internazionalisti, solo perché vogliono mantenere il mercato unico europeo. In tutto questo (e anche tra gli slogan della manifestazione per il secondo voto) si vede la contraddizione ipocrita tra la voglia di minare Corbyn sul suo terreno (tacciandolo di aver abbandonato la difesa internazionalista dei migranti, solo perché non vuole frustrare la Brexit), e allo stesso tempo, l’affermazione che si potrebbe imporre più controlli frontalieri anche senza uscire dall’Ue. L’ex premier Tony Blair propugna una riorganizzazione generale dell’Ue per abolire la libertà di circolazione per poi avviare un secondo voto nel Regno unito. Il suo alleato Chuka Umunna, al centro della campagna per il nuovo referendum, ha detto che si potrebbe scambiare la libertà di circolazione per la perpetuazione del mercato unico.
Se non risulta possibile provocare elezioni anticipate, rimane la possibilità che il partito di Corbyn cerchi un voto popolare sull’accordo specifico negoziato da May. Ma nonostante i titoli di alcune testate italiane la settimana scorsa indicassero che Corbyn o il suo alleato John McDonnell avessero chiesto un nuovo voto per il Leave contro il Remain, questa ipotesi sembra molto poco probabile. La difesa dei migranti e del mondo di lavoro da parte della direzione laburista non è mai stata strumentale ad ogni polemica europeista. Rivisitare la decisione di uscire non farebbe che dividere il blocco sociale laburista e garantire la vittoria, alle prossime elezioni, a un partito conservatore destrorso, forse guidato da un Brexiteer più convinto di May.
Gli stessi blairiani che hanno perso milioni di votanti laburisti negli anni 2000 grazie al loro neoliberalismo oltranzista, hanno sempre insistito che Corbyn non sarebbe mai stato eletto. Solo che Corbyn alle elezioni dell’anno scorso ha preso il quaranta per cento, ed è più vicino che mai ad arrivare al governo. Dicono di aver “ascoltato” la rabbia degli abbandonati, promettendo di pensare a loro… Ma solo dopo aver frustrato la Brexit per cui hanno votato. Corbyn non ha tutte le soluzioni e senz’altro incontrerà molti ostacoli, prima e dopo il momento della Brexit. È stato protagonista di una lunga lotta per trasformare il suo partito e il panorama politico inglese, e non lo farà da solo o senza errori. Non è sempre stato facile mettere insieme le categorie pro-Brexit della base laburista e l’anima internazionalista di molti iscritti. Ma in questo modo saranno solo errori lungo la strada per la ricerca di un’egemonia socialista, non prese di posizione che mortificano il processo democratico.
*David Broder è uno storico e traduttore inglese, redattore europeo di Jacobin Usa.
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