
Una lotta universale
Questo numero di Jacobin Italia si occupa di tracciare la dimensione universale della Resistenza, di portarla oltre i confini di spazio e tempo
È un rischio meno smaccato ma forse più subdolo, quando si parla di Resistenza, oltre all’evidente e pura denigrazione: quello di relegarla a fenomeno circoscritto, legato a condizioni specifiche e a un contesto limitato. È un modo per rendere omaggio solo in forma retorica alla lotta antifascista e rappresenta l’anticamera per svuotarla di senso, la mossa preliminare prima di introdurre nel dibattito storico, politico e culturale, una serie di cavilli, illazioni e menzogne grandi e piccole.
Questo numero di Jacobin Italia che esce nell’ottantesimo anniversario dell’inizio della Resistenza, al contrario, si occupa di tracciare la dimensione universale dell’insurrezione contro il nazifascismo, di portarla oltre i confini di spazio e tempo per evidenziarne le connessioni con le battaglie che avvenivano in altri luoghi e in altre storie. Come spiega Carlo Greppi, in apertura, la Resistenza ha avuto da subito caratteristiche planetarie, ha risuonato in lotte che erano avvenute prima in altri posti del pianeta e che sarebbero scoppiate dopo. Fu una «resa dei conti globale» all’interno della quale, al contrario di quanto vorrebbe una certa retorica patriottica, «la nazionalità non era che un impiccio incidentale». Sandro Portelli, più avanti, discute proprio della necessità che l’antifascismo non sia connesso a lotte avvenute nel passato (e peraltro già vinte) ma che si possa declinare ai tempi nostri, a partire dal rifiuto del concetto che il più forte possa opprimere il più debole. Del resto questa declinazione della Resistenza è valida anche dal punto di vista filologico: siamo di fronte a un concetto che non è mai fisso, come dimostra Antonio Montefusco.
Da questa prospettiva è possibile individuare i punti critici di alcune delle narrazioni sulla guerra di liberazione che hanno circolato negli ultimi decenni e che hanno finito per diventare la base dell’operazione ideologica anti-antifascista culminata con l’arrivo dei postfascisti al governo del paese. Selene Pascarella passa in rassegna i principali episodi della costruzione del «mostro partigiano». In fondo, recita la vulgata reazionaria, questi combattenti non erano che banditi fuori controllo o (peggio ancora) manipolati da potenze straniere. Tutto ciò, aggiunge Lorenzo Zamponi, ha uno scopo tutto proiettato nel presente: serve a legittimare quella parte dell’opinione pubblica di destra e a cancellare ogni tensione di trasformazione sociale. Anche l’odonomastica si rivela in questo senso un campo di battaglia, come ci racconta Mariana E. Califano. Uno dei passaggi fondamentali, nel dibattito pubblico, dell’ondata revisionista è rappresentato dal contributo di Ernesto Galli Della Loggia, che nella seconda metà degli anni Novanta teorizzò che la Resistenza aveva dato un colpo quasi esiziale alla nostra «idea di nazione»: quel dibattito produce conseguenze ancora oggi, come scrive Luca Casarotti.
La guerra civile spagnola, argomenta Stefanie Prezioso, fu un potente laboratorio della dimensione internazionalista e della capacità di sintesi dei conflitti dell’antifascismo. Del resto, se ci si fossilizza sulla dimensione del confine non si coglie il senso della lotta condivisa al nazifascismo portata avanti da italiani e jugoslavi, sostiene Eric Gobetti. Sempre oltre le frontiere bisogna leggere la commistione tra antifascismo e lotte anticoloniali evidenziata da Lorenzo Teodonio. Oltre gli schemi mentali è possibile affrontare il rimosso della partecipazione alla Resistenza delle donne, scrive Simona Lunadei. Il loro 8 settembre, spiega Barbara Berruti, fu l’inizio di una rivoluzione che le condusse per la prima volta fuori dal controllo maschile di padri, fratelli, mariti.
Ci sono esperienze concrete che mostrano la ramificazione globale della Resistenza e la necessità che essa produca conflitti ancora oggi. Chiara Cruciati ragiona sulle lotte anticoloniali nel Medio Oriente di questi anni, a partire dalle esperienze di palestinesi e curdi. Andrea Mulas si occupa dell’immaginario della guerriglia lanciato dalla rivoluzione cubana del 1959.
Decisive sono infine le narrazioni resistenziali, di cui Massimiliano Malavasi traccia un itinerario: non solo gli ormai classici Beppe Fenoglio e Italo Calvino ma anche tante memorie di combattenti. Simona Baldanzi compila un (parziale) elenco di romanzi, racconti, film e canzoni che hanno tramandato le storie dell’antifascismo. La Came, nell’inserto a fumetti di qesto numero, racconta le diverse forme di resistenza vissute dai propri nonni. Storie tutt’altro che retoriche o ripetitive. Perché, ricorda Matteo Cavalleri, per smettere di essere fascisti bisognava passare per meccanismi complessi e mai superficiali: serviva riconoscere la necessità della verità e anche guadagnare un rapporto con la violenza che non fosse speculare a quello del nemico.
Il numero 50 di Jacobin Magazine, che esce in contemporanea a noi negli Usa e di cui pubblichiamo una selezione di articoli, è dedicato a un evento avvenuto vent’anni fa e anch’esso destinato a stravolgere il mondo: l’invasione dell’Iraq a opera degli Stati uniti. Bhaskar Sunkara dialoga con Noam Chomsky per indagare il modo in cui venne costruito il consenso attorno a un’operazione bellica pretestuosa e violentissima. Daniel Finn racconta la storia (poco conosciuta) di come Usa e Gran Bretagna provarono a privatizzare l’industria del petrolio irachena e di come il tentativo fallì grazie alle lotte dei sindacati del settore. Anand Gopal ricostruisce il modo in cui la guerra dei neocon ha dato linfa e strumenti di morte all’integralismo islamico. Anne Alexander scrive a proposito del Partito comunista iracheno: negli anni Cinquanta fu sul punto di prendere il potere, è passato da una serie di errori, tragedie e qualche vittoria ma ancora oggi è attivo in parlamento. Jamie Woodcock, infine, analizzando la produzione di videogiochi dopo l’11 settembre, mostra i modi con cui la violenza di Stato viene tradotta in oggetti di piacevole consumo.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.