La lezione del contagio
La Didattica a distanza è la forma attuale dell'istruzione pubblica, causa pandemia. Ma può la scuola – come sostiene il Ministero – ignorare il contesto e proseguire sulle piattaforme digitali come se nulla fosse?
Le scuole, prima in Lombardia, poi nel resto del paese, sono stati i primi spazi pubblici chiusi d’ufficio a causa del Coronavirus. Una decisione epocale, con tempi al momento ancora sconosciuti. Sin dalle prime ore di «sospensione delle attività didattiche», la Dad – «Didattica a distanza» – è stata proposta con forza come mezzo alternativo capace di garantire continuità formativa e diritto allo studio in tempi di pandemia. I diversi decreti che si sono susseguiti nel giro di pochissimi giorni, non hanno definito questa attività in maniera precisa, proponendola prima come semplice possibilità, poi affidando la competenza ai dirigenti scolastici, infine richiamando l’obbligo di attivare modalità di didattica a distanza e chiedendo che venisse attuata anche una costante valutazione degli studenti.
Chi scrive si sta cimentando con vari strumenti, tra cui le lezioni in streaming, per mantenere vivo il rapporto con gli studenti. È stato un gesto istintivo: tenere il contatto, provare a utilizzare il rapporto educativo e i saperi per navigare in questo mare tempestoso insieme ai ragazzi e alle ragazze. Leggere i loro messaggi, o rivedere i loro volti, è stato bello, emozionante, importante per tutti e tutte, e lo sarà nelle prossime settimane. Abbiamo agito percependo tutta la straordinarietà del momento e comprendendo, immediatamente, che tutto ciò non avrebbe mai potuto sostituire la scuola. Di più, le contraddizioni che tale esperienza solleva e solleverà saranno enormi, sul piano del diritto allo studio, della salute, del ruolo educativo della scuola e persino su quello contrattuale.
In questi giorni la ministra Lucia Azzolina, non perde occasione per esaltare acriticamente la didattica a distanza. Noi siamo meno entusiasti. Pur mettendola in pratica, ci rendiamo conto che la Dad rischia di accentuare il peso delle differenze sociali, economiche e culturali che attraversano la scuola. Come pensare che possa essere garantito il diritto allo studio degli studenti che necessitano di sostegno? Come rapportarsi alle differenti disponibilità di strumenti tecnologici? Siamo sicuri che la didattica a distanza abbia gli stessi effetti su famiglie numerose che vivono in spazi limitati rispetto ad altre con ben altre situazioni abitative? E per i più piccoli quanto peserà il diverso sostegno che potranno trovare a casa?
La crisi amplifica ciò che già è, perché nella scuola italiana i risultati scolastici dipendono in larga parte dalla situazione socio-economica di provenienza, dal luogo in cui si vive o a dall’indirizzo di studio che ha precocemente e gerarchicamente canalizzato, e selezionato, il corpo studentesco. Senza dimenticare il diritto allo studio degli studenti con bisogni educativi speciali. Il contesto straordinario che viviamo non fa altro che svelare i paradossi e le contraddizioni, nascoste malamente sotto il tappeto, del nostro sistema d’istruzione.
Dunque, la Didattica a distanza va evitata? Nelle condizioni attuali è impossibile farne a meno. Ma attenzione a esaltarla, facendo finta che la scuola possa andare avanti come se nulla fosse. La scuola è chiusa, le attività didattiche sospese, l’anno scolastico è in larga parte pregiudicato. Prendiamone atto. Poi c’è il volontarismo di docenti e studenti, i rapporti umani e anche qualche potenzialità. Quella, per esempio, di provare a studiare senza aderire rigidamente ai programmi, provando a connettersi con lo stato emotivo, con la sofferenza, l’ansia, il dolore, la rabbia e la speranza dei nostri studenti. La didattica online potrebbe ridurre, paradossalmente, le distanze, con buona pace dei predellini di Ernesto Galli della Loggia. Un contesto eccezionale potrebbe aiutare a trovare linee nuove dove instillare l’idea che lo studio non è finalizzato al voto o al semplice sbocco professionale, ma alla vita, al «conoscere noi stessi», sapendo che tale impresa è possibile solo se rivolgiamo lo sguardo al mondo. E invece no, l’imperativo dell’ultima nota del ministero e le immediate circolari di molti dirigenti scolastici chiedono di trovare le forme e i criteri della valutazione a distanza. Perché senza il Dio Voto la scuola non è – anche quando muoiono centinaia di persone al giorno.
Ammessa e non concessa l’opportunità del valutare l’attività di questi giorni, esistono le condizioni di accessibilità, salvaguardia della personalizzazione, validità e autenticità del prove? La valutazione non sarebbe una sorta di accanimento verso i soggetti più fragili o che vivono in maniera più difficile, anche solo emotivamente, il contesto della pandemia? Formalmente: essendo queste attività non previste dal Piano dell’offerta formativa e dal contratto, possono essere considerate legittime anche agli occhi delle famiglie?
Tanti dubbi ci hanno attraversato in questi giorni, ma anche qualche certezza. In tale situazione appare veramente assurdo pensare che la priorità sia «finire il programma», «dare dei voti», «firmare il registro elettronico», «organizzare la didattica a distanza secondo il normale orario scolastico», magari chiedendo ai nostri studenti di stare sei ore davanti a un computer. Per fortuna molte scuole, come dimostrano le circolari di diversi dirigenti scolastici, stanno andando in questa direzione, definendo dei piani orari accettabili sia per le classi che per i docenti, che nella maggior parte dei casi devono occuparsi anche dei loro figli e della loro didattica a distanza. Purtroppo, questa visione della realtà non sembra averla il Miur, come dimostra la nota 388 relativa alle indicazioni operative per la didattica a distanza pubblicata il 17 marzo, firmata dal capo dipartimento del ministero Max Bruschi. Nonostante questo testo si apra con l’affermazione che non si tratta «di un adempimento formale, perché nulla di meramente formale può essere richiesto in un frangente come questo», scorrendo il testo sembra di trovarsi davanti a una lista di «prescrizioni». Così l’hanno interpretata alcuni dirigenti, che nelle ultime ore hanno emanato alcune circolari e convocato riunioni, seppur in remoto, in molte scuole d’Italia, allo scopo di ridefinire i programmi iniziali, gli obiettivi, riprogettare le attività sulla base delle quali «è necessario che si proceda ad attività di valutazione costanti».
Una presa di posizione, questa, non accettabile, che ha suscitato persino la reazione dei sindacati confederali, che dopo il silenzio di questi giorni – non solo in merito al comparto scuola – hanno preso parola per chiedere il ritiro dell’intera nota, in quanto non rispondente all’attuale configurazione normativa e al buon senso: in regime di «sospensione delle attività didattiche» non si può imporre di replicare contenuti e modalità tipiche della didattica in presenza.
Proprio per questo noi docenti dovremmo continuare a restare in contatto con le nostre classi nelle modalità che abbiamo definito in base al contesto che ognuno di noi conosce, non per una questione morale (la ministra ha addirittura scomodato l’imperativo categorico kantiano) o per eroismo missionario, ma in virtù della nostra professionalità e sensibilità educativa e umana. Dobbiamo rifiutare tutte le imposizioni che non rispettano la libertà di insegnamento che è oggi l’antidoto principale all’idea di una scuola ridotta a mera trasmissione di contenuti formalizzati. Come si possono esprimere dei voti numerici in questo contesto? Dovremmo finire il programma, mentre studenti e studentesse chiedono altro? Dovremmo evitare di consigliare la lettura della descrizione delle peste a Firenze di Boccaccio o quella di Manzoni a Milano, perché non rientra nel programma di quinta o in quello di seconda? Il tema del Male e del dolore in filosofia o la riflessione storica sulla crisi del Trecento e la successiva ricerca del capro espiatorio, possono fornirci strumenti di riflessione sull’oggi? La fisica e la matematica, così come la biologia, non dovrebbero partire dalle curve dei contagi, dall’esponenziale e dal logaritmo, dal comprendere il funzionamento dei virus e dei contagi?
La scuola non può mostrarsi come impermeabile a una didattica della vita anche in queste condizioni, è il momento di superare la logica della certificazione o delle soft skills che in questi anni sono state il faro dell’innovazione didattica e che oggi, di fronte alla paura, all’ansia, alla crisi sociale ed economica, alla morte, ci appaiono così drammaticamente inutili (che contrappasso!).
Infine un umile consiglio: gli 85 milioni stanziati dal decreto «Cura Italia» andrebbero innanzitutto investiti per ridurre il digital divide che attraversa il corpo docente e quello studentesco. Non tutti hanno una stampante, seguire una video-lezione sullo schermo del telefonino non è la stessa cosa che farlo da un computer, per non parlare di quel 25% di italiani che non ha connessioni wifi). Speriamo invece che non finiscano nelle casse di qualche multinazionale che proprio in questi giorni sta proponendo alle scuole – non proprio con spirito missionario – diverse piattaforme per la didattica a distanza. Oppure ad aziende di formazione specializzate nell’ e–learning e in corsi di formazione durante i quali, sovente, si impara poco o niente.
La crisi è per definizione un momento di passaggio. Le contraddizioni di ciò che era, più o meno celate, esplodono, e le varie possibilità su ciò che sarà s’intravedono appena. La pandemia e la crisi economica che l’accompagna (e che le seguirà), non sfuggono a questa dinamica e coinvolgeranno nel profondo anche il sistema scolastico. Oppure, in questo tempo complesso e drammatico, troveremo le risorse per uscirne pensando una svolta necessaria?
* Danilo Corradi, dottore di ricerca in storia, insegnante di filosofia e storia e docente a contratto presso l’università di Tor Vergata, è coautore tra l’altro di Capitalismo tossico. Giovanna Caltanissetta, attivista, è docente di lettere in Istituti tecnici e professionali.
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