Perché non accada mai più
Questo numero di Jacobin parte dalla necessità di respirare il futuro: ricostruiamo i tratti salienti della crisi pandemica e tracciamo il campo di battaglia della vita che verrà
Quasi un secolo prima di diventare famigerata location del consesso annuale del capitalismo globale – un evento tutt’altro che segreto, nel corso del quale ricchi e pensatori mainstream mettono in scena la loro opulenza e il loro potere – la località di Davos, sulle Alpi svizzere, è divenuta famosa per aver ospitato il sanatorio nel quale si svolge uno dei romanzi più importanti della cultura occidentale. Calando il lettore nel ritiro clinico de La Montagna Incantata, Thomas Mann utilizza la metafora angosciante e silenziosa della malattia per raccontare la società europea che scivolava verso la guerra mondiale, il declino della cultura borghese e la sua incapacità di fermare la corsa verso l’orrore che condurrà prima agli inutili massacri tra le trincee degli stati-nazione e che prepara al nazifascismo. L’aria rarefatta del contagio che si respira nel sanatorio di Mann si accompagna alla crescente difficoltà di riconoscere lo scandire del tempo cronologico e di trovare una collocazione soggettiva nel tempo storico. È inevitabile pensare che questo tipo di rassegnazione al male potesse in qualche modo riprodursi durante i mesi di lockdown, distanziamento fisico e isolamento sociale cui siamo stati costretti.
Il sanatorio, questa volta, è il mondo intero. Per la prima volta da che la storia ne conservi memoria, tutto il pianeta ha consapevolezza di vivere dentro la minaccia di una malattia. Per di più disponiamo di strumenti efficaci e pervasivi per comunicare ansie istantanee e divulgare paure, in una trama che per alcuni si dipana in leggera differita, con tempi appena disallineati che creano l’effetto di amplificare la realtà. Le scene che rimbalzano nel corso delle settimane, da una parte all’altra del mappamondo, via via anticipano o fanno da eco a quelle che viviamo quotidianamente. Così, abbiamo assistito increduli alla reclusione di massa dentro i palazzoni di Wuhan prima che la quarantena cominciasse dalle nostre parti. E abbiamo osservato con inconfessabile consolazione che anche le strade di New York diventavano deserte, proprio come era successo ai quartieri che osserviamo dalle nostre finestre. Un susseguirsi di eventi che ha fatto sì che questo numero di Jacobin Italia e il contemporaneo numero 37 di Jacobin che esce negli Stati uniti affrontano lo stesso tema e di seguito troverete una selezione di articoli tradotti dal numero statunitense assieme a quelli scritti appositamente per l’edizione italiana.
Si rincorrono bollettini medici, ogni giorno alla stessa ora la curva del contagio si allunga, si inseguono speranze di terapie e promesse di vaccini, si assiste increduli al materializzarsi di una crisi economica globale che ancora una volta minaccia di colpire i più deboli. Ce ne sarebbe abbastanza per cadere depressi, abbandonarsi al fatalismo o cedere al cinismo. Ma se partiamo dalla prospettiva allucinata di uno che di paranoie se ne intendeva, William Burroughs, e dalla citazione che apre questo numero di Jacobin Italia, ci accorgiamo che la pandemia non è una calamità imprevedibile ma un evento storicamente determinato da un sistema che ci contamina.
Da qui siamo partiti, dal bisogno di respirare il futuro. Abbiamo chiesto ad Andrea Capocci, scienziato critico e giornalista che in questi mesi ha seguito ogni giorno sulle pagine de il manifesto l’andamento del contagio, di ricostruire la catena degli eventi, per capire cosa è successo in Italia. E come sia potuto accadere ad esempio che una delle regioni più ricche del mondo, per di più coperta formalmente da un sistema sanitario universale e ospedali oggettivamente d’eccellenza, sia una delle zone più falcidiate dalle morti per Covid-19 dell’intero pianeta. Da prospettive diverse, Adam Tooze (intervistato da Francesca Coin e Giacomo Gabbuti), Emiliano Brancaccio (che dialoga ancora con Gabbuti) e Marco Bertorello con Danilo Corradi, indagano il contesto economico della crisi sanitaria. Lo scenario che viene fuori serve a comprendere come non si possa ricorrere alle ricette del passato. Simone Fana problematizza la questione del «ritorno dello Stato» emersa fin dall’inizio della pandemia, ricordandoci come l’intervento pubblico non sia un feticcio ma un campo di battaglia. Meagan Day, ad esempio, racconta di un suo viaggio nella New Orleans del dopo-uragano Kathrina per ricordarci di come il capitalismo sappia approfittare dei disastri per ridisegnare la società a suo piacimento: è quella che Naomi Klein ha definito shock economy. Una delle retoriche più pervasive delle settimane di lockdown è stata quella della «guerra», Alessandro Brizzi, Federico Del Giudice e Bruno Settis ci riportano nel contesto della Prima guerra mondiale e ai profondi scontri sociali che attraversarono sia la mobilitazione che la smobilitazione del dopoguerra. Gaia Benzi e Daniel Finn si cimentano con le epidemie di peste, che ci proiettarono tragicamente verso la modernità e i suoi conflitti. È un passaggio traumatico, e proprio della dimensione collettiva necessaria ad affrontare i traumi di questi giorni si occupano Dario Firenze e Guido Veronese. A proposito di apocalisse: Daniel Tanuro (intervistato da Giulio Calella) ricostruisce i nessi tra crisi ambientale e pandemia, mentre Martina Lo Cascio con Giulio Iocco affrontano la questione dal punto di vista dell’agroecologia.
La sensazione di morte che aleggia del resto, era stata intercettata dall’immaginario collettivo del cinema e dei romanzi popolari. Si pensi alle prime opere di David Cronenberg (di cui si occupa Owen Haterley) o alle geografie del disastro di Los Angeles raccontate da Mike Davis. Da qui prendono le mosse Rossella Marchini e Giuliano Santoro per capire che ne sarà delle nostre città, e degli spazi pubblici, dopo il confinamento. Il rapporto perturbante tra lo spazio pubblico e quello privato, anzi domestico, viene analizzato da una prospettiva di genere da Giorgia Serughetti. La storia a fumetti di questo numero, a firma Daniel Cuello, è ambientata sul pianerottolo di un appartamento, spazio di confine tra reclusione forzata e incontro solidale. Assia Petricelli e Sergio Riccardi, invece, hanno disegnato uno speciale Indovina Chi? riservato alle categorie dimenticate durante il lockdown.
Siamo arrivati alla cura, ai dispositivi di protezione reciproca che quasi spontaneamente hanno animato i nostri territori, e alle forme di lavoro essenziale che questa crisi una volta per tutte ha fatto emergere come qualificante e al tempo stesso rimosso. Questa volta più che mai, dice anche Salvatore Cannavò parlando di «immaginazione socialista», occorre una carica inventiva che serva a pensare da zero e al tempo stesso a riconoscere quello che già si muove attorno a noi e saper leggere i conflitti a venire. Sara Farris e Mark Begerfeld, a questo proposito, forniscono indicazioni decisive per capire le mutazioni del lavoro e immaginare nuovi conflitti e Marco Marrone indica le «linee di confine» da indagare: quelle all’incrocio tra economia e società, tra produzione e riproduzione sociale, tra natura e vita. In questa prospettiva bisogna leggere Lorenzo Paglione, che ci invita a considerare l’importanza di un sistema sanitario che non ruoti soltanto attorno agli ospedali e che faccia del rapporto coi territori e della dimensione comunitaria uno dei suoi baricentri. Con tutte le sue contraddizioni, insomma, lo scenario che si dipana di fronte a noi apre spazi all’intervento politico e all’immaginazione di nuove forme di organizzazione e conflitto. Quelle di cui si occupano, partendo dalle forme di mutualismo e dalle reti solidali che si sono mosse in questi mesi, Marie Moïse e Lorenzo Zamponi.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.