
SindacalistƏ
Polemizzare sulla sperimentazione linguistica della schwa contrapponendo i diritti economici a quelli civili significa non riconoscere la dimensione allargata del lavoro contemporaneo e delle sue lotte, oltre la stretta dimensione salariale
La schwa logora chi non ce l’ha. E, soprattutto, chi non la vuole. È necessario, infatti, un piccolo correttivo alla massima attribuita a Talleyrand e invocata poi da Giulio Andreotti e Licio Lucchesi (nel Padrino Atto III), poiché la schwa – a differenza del «potere», nella formulazione originale della battuta – non rappresenta, al momento, alcuna forza egemonica. Si tratta, piuttosto, di una sperimentazione linguistica – come nella proposta originale della sociolinguista Vera Gheno, avanzata nel libro Femminili singolari (effequ 2019) – che si potrebbe inserire a pieno titolo nella storia delle trasformazioni e rivoluzioni cui può andare incontro una lingua. Una proposta, dunque, che può essere a propria volta superata, come ha più volte ribadito la stessa Gheno.
Non ora, però: attualmente questa sperimentazione raccoglie attorno a sé un certo grado di consenso e, quindi, di elaborazione teorica e prassi militante, ma è lontana dall’imporsi nell’uso corrente. Potrebbe forse trattarsi, allora, di «ideologia», ma a quel punto il rischio è di invocare qualcosa di simile all’«ideologia del gender» (l’infelice e assai maliziosa espressione riportata in auge dalla polemica sul DdL Zan, decostruita, per fare soltanto uno fra molti esempi, qui) e di pervenire a un inutile irrigidimento delle posizioni, invece di affrontare con più attenzione i processi storico-economici che stanno alla base della produzione e riproduzione di questa, come di altre, «ideologie».
In questo contesto, è allora possibile ribadire, in tutta tranquillità, che la schwa logora chi non ce l’ha e non la vuole. E che ciò accade in un frangente storico preciso, visto che, per fare un esempio, non risultano discussioni altrettanto accese all’indomani della proposta di Alma Sabatini, nelle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana presentate alla Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna nel 1987, di sostituire il maschile sovraesteso («cittadini» per indicare sia maschi che femmine) con il femminile sovraesteso («cittadine» per riferirsi sia alle femmine che ai maschi). Accantonando le difese a oltranza della sacralità della lingua italiana, ci sembra interessante soffermare l’attenzione su chi ha inteso, sui giornali o nelle bolle social che moltǝ di noi conoscono, contrapporre la proposta della schwa alla sempre più confusa selva benaltrista dei «problemi più urgenti».
Non di rado, infatti, si incontrano ragionamenti simili a quello pubblicato su Repubblica da Maurizio Maggiani in un recente articolo dal titolo Io non sono un asterisco. Ne riproponiamo uno stralcio significativo:
Resta il fatto che l’asterisco, la ø, il + non comunicano niente delle vite, dei problemi, dei drammi, delle allegrie, della grandezza di una vita. E resta il fatto che la Gilda, che ha venticinque anni, è lesbica e fa la commessa per settecento euro al mese, […] si sentirebbe assai più appagata nel vincere la lotta per un salario dignitoso che stravincere quella per la sovversione dell’alfabeto. Resta il fatto che la vittoria per l’alfabeto si fa sempre più vicina e quella per il salario sempre più lontana. Ragion per cui mi chiedo se i valorosi combattenti del + e del * e della ø stiano intanto lavorando con pari alacrità per la Gilda oltreché per sé stessi, per il potere sui segni o per la libertà dal bisogno, da ogni bisogno.
(Maggiani non nomina nemmeno la schwa, prendendosela con «l’asterisco, la ø, il +», opzioni che hanno avuto presa diseguale in ambito linguistico; una prima risposta, su un versante editoriale, è stata elaborata dalla casa editrice effequ – che ha adottato la schwa, così come altre sperimentazioni linguistiche –, spiegando la propria scelta in una successiva intervista su Repubblica e in questo intervento).
Attraverso l’opposizione delle rivendicazioni identitarie ed economiche, dei diritti civili e dei diritti sociali, l’argomentazione di Maggiani reintroduce l’ormai classico, forse mai del tutto superato, binarismo tra marxismo economicista e marxismo culturalista. Com’è noto al suo pubblico, tuttavia non si può ascrivere Maggiani a posizioni marxiste – un dato tanto più interessante in vista di quel che segue, poiché indica, innanzitutto, quel costante travaso di posizioni che qualche tempo fa si poteva, almeno superficialmente, definire come «rossobruno».
Ora, la costante appropriazione dei termini fondamentali di questo dibattito anche al di fuori del campo marxista e/o movimentista sta a indicare che questa non è una culture war, ossia una «guerra culturale» interna alle «sinistre». Se tale dibattito produce effetti di esclusione (come sembra sostenere Maggiani a proposito di lavoro), questi sembrano dovuti più alla trasversalità del dibattito che non a una sua origine specificamente leftist: in altre parole, la questione si può ridurre non tanto e non solo alla «sinistra dei buoni salotti», quanto, e in modo determinante, a una generalizzata ipertrofia delle varie bolle social e dei conflitti a esse interni, allo scopo di accaparrarsi quanto più capitale di visibilità possibile. Effetti di esclusione che allora possono diventare questione urgente, se davvero, come si teme da più parti (e non soltanto nello scritto di Maggiani), interessano tutte quelle soggettività e collettività politiche delle quali si parla in tema di rivendicazioni identitarie non-binarie, ma che – com’è noto a chiunque abbia frequentato, anche tangenzialmente, le differenti posizioni teoriche e militanti che si possono avere in merito alla subalternità (da Gramsci a Spivak, e oltre) – non hanno alcuna voce in capitolo. O si presume che non ne abbiano, quando qualcun altrə ha la foga di ergersi – nel bene o nel male – a loro portavoce.
Questa stessa critica potrebbe essere rivolta anche al presente articolo, ma è nostro obiettivo rifiutare la posizione ambivalente, o peggio, dei «portavoce», cercando invece ragioni più congruenti di solidarietà politica e culturale, e partendo, nel fare questo, dall’analisi del contesto nel quale è nuovamente emerso il dissidio tra economicismo e culturalismo, ossia la crisi pandemica. Come ogni crisi, questa affonda le radici in un sistema già attraversato da forti contraddizioni; lo ha ricordato Camillo Chiappino in questo intervento pubblicato sul Tascabile l’estate scorsa, in disaccordo con certa retorica eccezionalista:
la decretazione del lockdown, nonché i confini della sua estensione, sono stati il campo di conflitto privilegiato tra potere politico, interessi economici e autotutela sociale – dunque niente affatto ascrivibile ad una sola volontà di stampo «dittatoriale». Il lockdown non è stato lo stratagemma perfetto per rendere sistemica una nuova servitù volontaria al regnante di turno, ma lo spazio di conflitti tanto disarmonici quanto rinnovati nelle proprie priorità.
Quello che Chiappino ha scritto in rapporto al «lockdown» della primavera 2020 sembra valido anche per tutto il periodo di «restrizioni» successivo alla pubblicazione del suo articolo, fino a oggi; allo stesso modo, è ancora opportuno ricordare quanto accennato da Cinzia Arruzza e Felice Mometti in uno dei primi testi citati da Chiappino, e cioè che il primo «lockdown» italiano è stato deciso anche in seguito agli scioperi e alle pressioni provenienti dal mondo sanitario – scioperi e mobilitazioni che poi si sono verificati in molti settori produttivi, caratterizzando, in modo particolare, vari settori della logistica nella primavera-estate del 2021. In quest’ultimo caso, si è poi verificata una forte attività sindacale di base – contrastata in modo repressivo e violento, com’è noto, in seguito agli episodi di Tavazzano e di Biandrate – che rappresenta un dato di continuità (e non di improvvisa rottura, com’è stata raccontata a livello mediatico) con gli scenari precedenti all’inizio della pandemia.
È proprio in quest’ultima congiuntura che sembra essere riesplosa la contrapposizione tra le pretese «ideologiche» della schwa e i conflitti tra capitale e lavoro, diramandosi principalmente sui social, anche a causa della concomitante presa di posizione sulla schwa di Michela Murgia sull’Espresso del 7 giugno 2021 e di Andrea Donaera sul Domani del 15 giugno 2021 (per restare in ambito letterario/editoriale, meno clamore ha invece destato l’inchiesta di Gabriele Dadati tra i lavoratori in sciopero della Città dei Libri di Stradella dell’11 giugno 2021).
È, allora, all’interno dell’attuale contingenza «post-pandemica» (dove, come spesso accade, il post- sta a indicare una situazione di doppio vincolo rispetto al passato), che possono essere inquadrati in modo più unitario tutti questi fenomeni: l’attività sindacale in vari ambiti della logistica; il mutualismo praticato dalle più disparate realtà militanti (esemplare il caso di Bologna raccontato da Sarah Gainsforth) spesso di concerto con il «terzo settore» (oggetto d’inchiesta, dell’ultimo numero della rivista padovana Figure); il dibattito intorno al DdL Zan e, non ultimo, al grado di inclusività della lingua – esemplificato, in questo caso, dalla schwa.
A unire questi elementi, nella differenza delle micro-appartenenze e dei radicamenti sociali, non è soltanto la compresenza storica nella fase «post-pandemica», ma anche il meritorio lavoro di autoformazione che da sempre collega, nell’analogia delle pratiche, rappresentanze sindacali di base, realtà militanti, centri sociali e movimenti, ad esempio Lgbtqia+. Più in profondità ancora, possiamo osservare come coloro che hanno maggiormente posto l’accento sul ricorso a soluzioni grafiche e fonetiche femministe o queer sono statǝ, soprattutto in anni recenti, in prima linea anche nella lotta alle diseguaglianze socioeconomiche (fino agli episodi più minuti, come quello raccontato, non senza una certa diffidenza ironica, da Gregorio Magini in questo reportage dalla Gkn occupata di Campi Bisenzio:
Sale al microfono una ragazza un po’ intimidita – «non sono abituata a parlare davanti a così tante persone» – si presenta come delegata di un «collettivo transfemminista» e dopo aver comunicato la disponibilità sua e delle compagne a coprire qualche turno in agosto, pone la domanda che le sta a cuore: «come si concilia l’ecologismo con il fatto di continuare a produrre?»).
In questo senso, particolarmente rilevante, se confrontata con le argomentazioni abborracciate di Maggiani, è l’esperienza del movimento transfemminista internazionale Ni Una Menos – Non Una di Meno (NUdM). In Argentina, paese dal quale il movimento ha preso avvio denunciando quella forma particolarmente efferata di violenza patriarcale che è il femminicidio, le attiviste di NUdM si sono distinte per l’utilizzo di un linguaggio libero da stereotipi di genere, che fra le altre cose ha sempre sottolineato la piena appartenenza al movimento di donne tanto cis quanto trans. Parallelamente, come illustrato in dettaglio da Verónica Gago, le militanti argentine si sono riappropriate, radicalizzandolo, dello strumento sindacale dello sciopero. Lo sciopero femminista di Ni Una Menos implica un netto allargamento delle attività che rientrano nella definizione di lavoro, includendo quelle di riproduzione sociale non meno dei più tradizionali impieghi salariati, e segnalando in entrambi i casi un divario di genere: sono le donne a farsi carico della maggior parte del lavoro (spesso gratuito) di riproduzione; le donne tendono anche a ricevere retribuzioni più basse e condizioni occupazionali più svantaggiose dei loro omologhi maschili.
Lo straordinario potere di mobilitazione dimostrato dagli scioperi di NUdM ha innescato una polemica estremamente costruttiva con i sindacati argentini, che in un primo momento avevano reagito con malcelata ostilità al progetto transfemminista di radicalizzazione dello sciopero (il quale, dal canto suo, scavalcava l’adesione a questa o quella sigla sindacale). Grazie all’azione delle donne all’interno dei sindacati stessi, nel 2018 cinque diverse sigle hanno dato vita a una Intersindacale Femminista e anche il principale sindacato del paese, la Cgt, è stato spinto ad aderire all’iniziativa di NUdM.
Esperienze simili non sono limitate all’America Latina. In Italia, NUdM si è dotata già dal 2017 di una piattaforma per il contrasto «alla violenza maschile sulle donne e alla violenza di genere» che dedica particolare attenzione ai legami tra tali fenomeni e lo sfruttamento nella sfera economica. Esiste un nesso stringente – scrive NUdM – «tra la ristrutturazione capitalistica e neoliberale in atto e la violenza di genere che, in questo ambito, viene perpetuata attraverso i dispositivi di nuova segmentazione e frammentazione del lavoro, di esclusione, disoccupazione forzata, sfruttamento e impoverimento, attraverso la crescente dismissione del welfare in nome del risanamento del debito». Parallelamente, i documenti di NUdM incorporano, come sottolineato da Michela Pusterla in un saggio recente, un uso femminista della lingua, che non si accontenta del ricorso al femminile plurale in luogo del maschile sovraesteso, ma accoglie le riflessioni sul linguaggio sviluppate dal movimento trans e più in generale dagli studi queer:
NUdM adotta varie soluzioni grafiche come desinenze alternative alle marche di genere grammaticale dell’italiano standard: si tratta di principalmente di -@ e -x desunti dallo spagnolo (come in «tutt@» o «tuttx») e dell’asterisco (-*), rivendicato dal movimento Lgbt italiano a partire dal Palermo pride del 2010. Nella lingua orale – nella quale soluzioni come –@ o –* sono evidentemente irriproducibili – si alterna l’uso del femminile plurale inclusivo (su modello di elles di [Monique] Wittig e per eredità di una tradizione femminista che escludeva gli uomini dal bacino delle interlocutrici) a quello di –u.
Con buona pace dei benaltristi (qui il maschile è voluto), sono dunque proprio quei segmenti della società che hanno prestato maggiore attenzione all’intersezione della violenza di genere con quella economica (un’intersezione aperta a molti, ulteriori approfondimenti) ad aver sperimentato di più nel campo delle soluzioni linguistiche non etero-patriarcali. Resta da chiedersi perché, dato questo contesto, al centro della polemica sia arrivata proprio la riflessione di Gheno – che, in un certo senso, arriva buona ultima rispetto a decenni di pratica e riflessione femministe. Vorremmo suggerire, in chiusura, due ipotesi.
In primo luogo, attaccare una singola studiosa per una suggestione avanzata nelle pagine di un libro è molto più facile che criticare una prassi linguistica agita dal basso da interi movimenti sociali. Ciò è vero a maggior ragione in Italia, dove l’anti-intellettualismo ha acquisito nell’ultimo decennio quasi la stessa diffusione del sessismo che a esso si combina quando si vuole sminuire un’autrice. All’ingresso della schwa nel dibattito pubblico, Gheno è stata del resto «scaricata» in malo modo dalla stessa Accademia della Crusca con la quale pure aveva collaborato per quasi vent’anni: di fronte a un pezzo tristemente irridente verso Gheno apparso sulla prima pagina della Stampa, la prestigiosa istituzione non aveva trovato di meglio da fare che protestare con il quotidiano per… non aver notato che Gheno non figurava più tra le sue collaboratrici. Non c’è episodio più illuminante per sostenere come una proposta militante e minoritaria possa essere travestita da imposizione «egemonica» o «ideologica», cercando, allo stesso tempo, di toglierle voce. È come pratica di solidarietà, dunque, che abbiamo deciso di utilizzare la schwa anche in questo articolo: se qualcosa suscita l’irritazione dei guardiani dell’ordine costituito, non intendiamo farlo mancare nella nostra cassetta degli attrezzi.
La seconda ragione – che, a nostro avviso, può d’altra parte spingere a evitare entusiasmi troppo facili nell’adozione acritica di tale soluzione grafica e fonetica – rimanda al fatto che la schwa costituisce un avversario polemico tutto sommato rassicurante, che consente di ridurre facilmente alla retorica della guerra dei sessi l’abisso di scelte arbitrarie (spesso oppressivamente arbitrarie) alla base delle nostre convezioni linguistiche. La schwa è uno strumento inclusivo, che punta a rappresentare contemporaneamente più generi: intende allargare i confini di un universale preesistente, non far vacillare l’idea stessa di un universale dato una volta per tutte. Di conseguenza, nulla nel suo utilizzo implica un rifiuto decisivo di quella che possiamo definire, con Judith Butler, matrice eterosessuale: la corrispondenza biunivoca di un sesso stabile con un genere stabile, che sovrappone al binarismo maschio/femmina quello maschile/femminile.
Torna utile qui la distinzione, proposta da Massimiliano Tomba, tra universalismo e universalità: il primo caratterizza una norma sufficientemente astratta da includere soggettività in precedenza escluse (la schwa come coabitazione di maschile e femminile), mentre la seconda contiene, nella propria universalità, una dimensione di eccesso che le singolarità concrete possono riattivare in ogni momento. Se la schwa deve essere un segnaposto, in altre parole, che sia il segnaposto di generi non binari, plurali, in costante trasformazione grazie al proprio «eccesso» – che sia una casa attraversabile da identità «femminili» (più o meno vicine a un’identificazione «femminista» come quella di NUdM), tanto quanto «trans», «queer», «abolizioniste», ecc. Gli usi linguistici della marea femminista contemporanea vanno già in questa direzione: sta a tuttǝ noi radicalizzare la schwa – fino al suo eventuale superamento – se vogliamo farne un’arma che spaventi davvero chi oggi ne lamenta la crescente popolarità.
*Lorenzo Mari vive a Bologna. Insegnante precario, ha recentemente curato Zurita. Quattro poemi (Valigie Rosse, 2019) del poeta cileno Raul Zurita, tradotto da Alberto Masala. Insieme a Luca Mozzachiodi ha organizzato il seminario «Materialismo e soggettività» presso l’Università di Bologna. Franco Palazzi è dottorando in filosofia all’Università di Essex e autore di Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità (ombre corte, 2019) e di La politica della rabbia (Nottetempo 2021). Ha scritto, tra gli altri, per Doppiozero, Effimera, Il Tascabile, Jacobin Italia, Le parole e le cose, OperaVivaMagazine e Public Seminar.
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