Una finanziaria di galleggiamento
Le politiche sociali nella prima vera legge di bilancio di Meloni sono solo briciole, che non intaccano la continuità delle politiche economiche degli ultimi decenni
È la prima vera finanziaria del governo Meloni, dato che quella dello scorso anno era stata approvata a circa un mese dall’insediamento della compagine di destra. Già all’epoca, però, la nuova presidente aveva avuto l’ardire di sottolineare che il provvedimento, sebbene preparato in gran fretta, «racconta di una visione politica» e sarebbe servito a «favorire la crescita, aiutare i più fragili, investire nelle famiglie, accrescere la giustizia sociale, sostenere il nostro tessuto produttivo». Oggi potremmo dire che quella visione inizia concretamente a farsi realtà. Ad essere assaporata. Non che per famiglie e giustizia sociale in questo anno non avessimo già avuto modo di gustare l’annullamento del reddito di cittadinanza. Un provvedimento che, per il governo, avrebbe dovuto condurre a un risparmio da riversare su pensioni e aiuti alle imprese, ma che a consuntivo sembra condurre a un risparmio di un miliardo di euro, troppo poco per aiutare significativamente platee come quella dei pensionati o degli imprenditori.
La manovra è di 24 miliardi di cui 16 garantiti da deficit aggiuntivo calcolato intorno al 4,3% del Pil, gli altri 8 da risparmi e nuove entrate. I saldi sono conteggiati su un’ipotetica crescita del Pil dell’1,2% nel 2024. Ambizione al momento lontana dalle previsioni di tutti i principali organismi internazionali che parlano di una crescita prevista non superiore all’1%, mentre confindustria ipotizza un misero 0,5%. Il rallentamento economico generale, in particolare europeo, e gli svariati conflitti bellici, non lasciano prevedere un futuro immediato particolarmente roseo. Nel 2023 la crescita del Pil potrebbe già essere inferiore all’1%. Oltre al rallentamento della crescita, pesano altre variabili, come gli effetti dei vari bonus edilizi che si sono rivelati una spesa in parte fuori controllo e che costringono a continui riconteggi e aggiustamenti di bilancio. È anche vero che al tempo della loro approvazione non ci risulta che ci fosse stata una levata di scudi da alcuna forza politica presente in parlamento.
Una finanziaria che certifica la riduzione dei salari reali
L’aumento di spesa principale previsto dalla legge di bilancio è dovuto alla conferma del taglio del cuneo fiscale. Norma già approvata dal governo Draghi e maggiorata dal 2 al 3% per i redditi fino a 25.000 euro nella scorsa legge di bilancio. Il taglio del cuneo fiscale è poi stato ulteriormente rafforzato al 7% (per i redditi tra 25.000 e 35.000 al 6%) attraverso il decreto lavoro di metà 2023. Questi tagli si realizzano con uno sconto sulla contribuzione previdenziale per ogni addetto che passa a carico dello Stato, finendo per alimentare il corto circuito tra aumento del costo delle pensioni a carico della fiscalità generale e esigenza di riformare il sistema pensionistico in quanto insostenibile.
Complessivamente questi provvedimenti non hanno innalzato salari e redditi reali, ma hanno solo mitigato la perdita di potere d’acquisto del mondo del lavoro dovuta all’inflazione, che è stata mediamente ben superiore ai 50 euro netti in più in busta paga garantiti da questo provvedimento (almeno il triplo calcolando gli ultimi due anni). Il refinanziamento di questa misura già esistente è il provvedimento più costoso dell’intera manovra con un costo di circa 10 miliardi di euro. Un’operazione che non cambia nulla nelle buste paga del prossimo anno, che saranno identiche a quelle degli ultimi sei mesi, mentre i salari dovranno affrontare un’ulteriore svalutazione legata all’inflazione del 2024. Per i redditi fino a 28.000 euro ci saranno altri 20 euro netti mensili in più dovuti all’accorpamento dell’Irpef per i primi due scaglioni, che estende l’aliquota del 23% fino a un reddito pari a 28 mila euro, il 35% varrà per i redditi da 28 a 50 mila e il 43% per quelli superiori. Tale modifica per il prossimo anno viene ammortizzata con una rivisitazione delle detrazioni per i redditi superiori ai 50 mila euro. Anche sommando a queste misure gli effetti del rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici (sono stati accantonati 3 miliardi nel 2024 e 5 miliardi nel 2025) la svalutazione reale dei redditi da lavoro dovuta all’inflazione resta importante. Si pensi alle rivendicazioni dei sindacati dell’auto statunitensi, che hanno chiesto aumenti del 40% delle buste paga.
Se non si capisce questo meccanismo legato all’aumento dei prezzi si rischia di mal interpretare l’intera legge di bilancio, pensando, ad esempio, che i 3 miliardi messi sulla sanità siano un investimento, invece non basteranno a coprire gli aumenti dei costi del settore, con il risultato che la percentuale sul Pil della spesa sanitaria continuerà a ridursi spingendo verso la privatizzazione di fatto di un sistema nazionale già al collasso.
Il peggioramento della Fornero e le misure minori
La mitigazione della svalutazione dei salari e della spesa sanitaria è accompagnata dalla mancata riforma della legge Fornero. Dopo le prodigiose battaglie leghiste, ora il governo Meloni decide di rimettere mano al sistema pensionistico, peggiorando nuovamente le prestazioni. Il pensionamento anticipato è previsto a oltre 43 anni di lavoro, con un aumento medio della durata dell’impiego che va dai 3 ai 5 mesi; le quote restano a 103 (la somma tra età e anzianità contributiva), ma con ulteriori penalizzazioni sull’assegno e con un allungamento di 3 mesi per le finestre con cui accedervi; quota donna prolunga l’impiego di 1 anno, mentre l’Ape social lo prolunga di 5 mesi. È prevista una rivalutazione piena delle pensioni inferiori ai 2.000 euro lordi e un sistema di rivalutazione a scalare in relazione al crescere dell’assegno percepito. Inoltre la revisione retroattiva e anticostituzionale del sistema di calcolo dell’assegno pensionistico per una parte del pubblico impiego dovrebbe garantire altri 2 miliardi di risparmi su questa voce di spesa. Insomma, complessivamente si tratta di un peggioramento della legge Fornero.
Poi ci sono una serie di misure minori. La riduzione della soglia di esenzione dei cosiddetti «fringe benefitc, ovvero di misure di workfare aziendale, che passa dai 3.000 euro di quest’anno ai 2000 del prossimo per chi ha figli, mentre la soglia è di 1.000 euro per chi non li ha. Per i lavoratori dipendenti con un reddito non superiore agli 80.000 euro è previsto un dimezzamento del carico fiscale sui premi di risultato, che passa dal 10% al 5%. Vengono poi detassati gli straordinari fino al 15% per gli addetti della ristorazione e del turismo.
Aumenta l’aliquota a partire dalla seconda casa affittata fino a 30 giorni che passa dal 21 al 26%, favorendo in qualche modo il dilagare di affitti brevi nelle tante città turistiche.
Vengono confermati o implementati una serie di bonus o agevolazioni a modesta gittata per contenere gli effetti dell’inflazione sui rincari dell’energia e dei generi di prima necessità. Mentre viene praticata una stretta sull’impiego del bonus 110 per interventi di edilizia nel caso in cui chi ne avesse goduto intendesse rivendere l’immobile nei successivi 10 anni alla data di fine lavori.
I titoli di stato saranno esentati dal conteggio per l’Isee per redditi inferiori ai 50.000 euro. L’intento sotteso dovrebbe essere quello di favorire il ritorno di quote di debito pubblico in mani italiane, come garanzia di fidelizzazione degli investitori. Il modello potrebbe essere quello giapponese. Tale operazione, però, appare molto complessa e incerta. Va considerato come la gran parte dei titoli pubblici siano concentrati in mano a grandi possidenti, quando non a grandi operatori finanziari. Rafforzare l’italianità del debito pubblico non è un’operazione praticabile con simili espedienti.
Sulle famiglie vengono previste alcune agevolazioni come l’esenzione della contribuzione fino a un massimo di 3.000 euro annui per le occupate con almeno 2 figli a carico. Norma prevista senza limiti di reddito. Mentre con un Isee familiare inferiore ai 40.000 euro aumenta il bonus asilo. Si tratta di aumenti di spesa per la famiglia che incideranno complessivamente nel bilancio annuale per alcune centinaia di milioni di euro. Tanto per fornire delle proporzioni: per il ponte sullo stretto di Messina è prevista in finanziaria una spesa complessiva pari a 11.630 milioni di euro e per il solo 2024 è stata autorizzata una spesa di 780 milioni.
La destra di governo così simile a Draghi
Elencati quelli che possono essere ritenuti i provvedimenti più significativi vale la pena riflettere sul senso complessivo della manovra finanziaria. Essa appare una finanziaria di galleggiamento, sostanzialmente in continuità con quella dei governi precedenti. Il debito tornerà probabilmente a crescere anche in rapporto al Pil. La riduzione è prevista forse a partire dal 2026, mentre il costo degli interessi sfonderà quota 100 miliardi e presto doppierà la spesa per la pubblica istruzione. Varrà la pena poi misurare a consuntivo le entrate effettivamente realizzate e l’incidenza dell’inflazione nell’erodere una quota di debito reale. Ma c’è una sostanziale continuità nel metodo di ritoccare in maniera simbolica alcune voci di spesa a danno di altre per rispondere a una parte del proprio elettorato senza però toccare grandi questioni, come le diseguaglianze sociali, gli squilibri nella pressione fiscale, la protezione concessa alle risorse finanziarie a danno di quelle sui redditi da lavoro e, perché no, a quei redditi d’impresa che investissero realmente.
Ogni operazione per alleviare il potere d’acquisto è a carico indiretto dei beneficiari. La riduzione del cuneo fiscale o la decontribuzione per le madri sono operazioni che ricadono sul bilancio pubblico, indebolendo l’equilibrio tra contribuzione di lavoratrici e lavoratori da un lato e prestazioni pensionistiche dall’altro. Finendo per contribuire all’insostenibilità del bilancio dell’Inps. Ma soprattutto sono misure che visti i livelli d’inflazione, e la scelta di non intervenire sui grandi patrimoni e sulla crescita dei profitti, determineranno nei fatti un ulteriore impoverimento reale del mondo del lavoro.
Anche questa volta si ha tanto l’impressione che si compia un’operazione di facciata e che non sia riuscita neanche troppo bene. Volendo fare una provocazione si potrebbe affermare che, con tutte le distinzioni del caso, di contesto e contenuto, la formulazione dell’attuale Finanziaria ricordi tanto i tempi del secondo governo Prodi in cui Rifondazione comunista rivendicava a sinistra di aver ottenuto il meno peggio. Oggi la destra, specie quella «sociale» annidata in maniera significativa nel principale partito di governo e in qualche misura persino nella Lega, ricorre alla categoria del meno peggio a destra, per il suo elettorato. Ma per famiglia, figli, asili, titoli di stato, patria ci sono solo briciole, che non intaccano in alcun modo la continuità delle politiche economiche degli ultimi decenni. Esemplare è il raddoppio dell’Iva su pannolini, prodotti e alimenti per l’infanzia (insieme agli assorbenti) che passerà dal 5 al 10%. Un provvedimento curioso per delle forze politiche che fanno del rilancio della natalità della stirpe italiana una bandiera! Come è esemplare il peggioramento delle condizioni di accesso al sistema pensionistico. Il primo è talmente inspiegabile sul piano simbolico da far pensare persino a dabbenaggine (categoria a cui cerchiamo di ricorrere il meno possibile), mentre il secondo richiama il peso di una cornice strutturale che in definitiva si ritiene inamovibile.
Insomma un film che ha i suoi nuovi attori protagonisti, ma la cui trama sembra tanto quella già vista: innovatori all’opposizione, continuisti al governo.
*Marco Bertorello collabora con il manifesto ed è autore di saggi su moneta e debito. Danilo Corradi insegna filosofia e storia ed è docente a contratto all’Università Tor Vergata. Il loro ultimo libro è Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).
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