Scioperare e sentirsi a casa
L'8 marzo globale cerca di ricomporre le forme del lavoro e ricostruire strumenti di mutuo soccorso. L'esperimento delle Case dello Sciopero
Gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone.
Audre Lorde
Per il terzo anno consecutivo il movimento femminista internazionale convoca uno sciopero generale globale dal lavoro produttivo e riproduttivo l’8 marzo. Quest’anno la sfida del movimento di Non Una Di Meno è quella di dare più efficacia allo sciopero, scontrandosi con le difficoltà sempre maggiori di organizzazione di una giornata di questo tipo nell’attuale situazione sociale e del mondo del lavoro (e del non lavoro) in Italia. Da questi obiettivi è sorta l’idea di cercare nella pratica una risposta a queste necessità: le case dello sciopero dell’8 marzo.
Nel report dell’assemblea nazionale del movimento del 25 novembre 2018, all’indomani di una nuova enorme manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne, si leggeva che le Case dello sciopero dovevano essere costruite «per organizzare lo sciopero, per immaginare insieme forme efficaci e concrete di astensione dal lavoro autonomo, informale, gratuito e riproduttivo, strategie di sottrazione dal ricatto del permesso di soggiorno e della precarietà attraverso la costruzione di casse di mutuo soccorso e altre pratiche di solidarietà, così come luoghi e strumenti di alfabetizzazione sindacale sul diritto di sciopero (anche riprendendo vademecum, grafiche e video)».
Da queste parole, sono partiti esperimenti in alcune città d’Italia. Le riflessioni qui raccolte nascono dal percorso della Casa dello Sciopero di Milano.
Più sfruttate, meno sindacalizzate
Il primo passo da fare per comprendere a pieno gli obiettivi, le difficoltà e le necessità del processo di costruzione dello sciopero femminista consiste nell’analizzare la situazione del mondo del lavoro in Italia. Ci troviamo immersi in un paradosso molto particolare: lo sfruttamento è in perenne crescita, nella costante invenzione di nuove forme di estrazione di valore dalla forza lavoro, ma gli strumenti di difesa e di lotta si indeboliscono giorno dopo giorno, su tutti l’arma dello sciopero.
Oggi in Italia si sciopera, ma lo sciopero è sempre meno efficace e la partecipazione sempre più ridotta. Lo strumento tipico di rivendicazione delle lavoratrici e dei lavoratori sta subendo, insieme a tutti i diritti ottenuti grazie al ciclo di lotte degli anni Settanta, un forte attacco, tentativi espliciti di limitazione, e sua ristretta agibilità anche a causa delle riforme del lavoro degli ultimi trent’anni che hanno reso le condizioni lavorative sempre più precarie, frammentate, a “tutele decrescenti”.
A livello pubblico e mediatico è in atto una strumentalizzazione degli scioperi delle lavoratrici e dei lavoratori, raccontati come se fossero niente più che un modo da parte dei sindacati e dei loro tesserati di esprimere approvazione o dissenso nei confronti del governo di turno. O vengono montate polemiche sull’utilizzo di questa forma di lotta, dalla stampa come da molte figure istituzionali e politiche in occasione ad esempio degli scioperi nei trasporti.
A ciò si aggiunge un problema ancor più rilevante: in Italia sempre meno persone credono che lo sciopero sia uno strumento efficace di cui avvalersi. Non sembra più valer la pena rinunciare a una giornata di lavoro e di stipendio. Se l’impressione è che a scioperare sei solo tu e poche altre colleghe e colleghi il ricatto del rinnovo del contratto diventa più pesante, il senso di isolamento fa paura, indebolisce, fa propendere per un accordo al ribasso piuttosto che per una mobilitazione. A ciò si aggiunge il calo massiccio di iscrizioni alle grandi confederazioni sindacali, e a una diffidenza verso il “sindacato”, visto non più come strumento di tutela dei diritti di chi lavora ma come apparato che difende i propri interessi (e quelli delle proprie dirigenze) in modo quasi corporativo. Il capitolo è complesso, ma sicuramente tali valutazioni sono anche il frutto delle traiettorie spesso avute dai sindacati confederali negli ultimi vent’anni.
Siamo infine in presenza di un analfabetismo diffuso sui diritti del lavoro. Non si sa effettivamente che cosa può o non può fare un padrone, che cosa è o non è legale, da che cosa puoi o non puoi difenderti. Del resto tutti i luoghi formativi sono pensati per insegnare la precarietà, l’assenza di diritti e il lavoro come totale disponibilità, in cui si guadagna in base al sacrificio.
Risonanze presenti e passate
Alla luce di questa situazione sociale, che funzione può avere un’idea come quella delle Case dello Sciopero di Non Una Di Meno? Che affinità esistono con esperienze attuali o del passato?
Il primo richiamo è agli strumenti sperimentati nello sciopero dell’8 marzo in altri paesi negli scorsi anni, in particolare nello stato spagnolo: l’esempio più interessante sono gli espacio de cuidado 8M (praticati a Madrid, Zaragoza, Aragon e che si riproporranno anche quest’anno), luoghi fisici autogestiti in cui gli uomini si occupano di cucinare i pasti, di prendersi cura dei bambini o delle persone che necessitano assistenza, di allestire spazi di ristoro e riposo per le donne in sciopero, creando dei punti di riferimento fisici di supporto e costruzione materiale della giornata di sciopero. La sperimentazione dunque è nella messa in pratica della riflessione su cosa significhi scioperare concretamente oggi, oltre alla classica definizione di “astensione dal lavoro”, partendo dalle condizioni specifiche delle donne, per produrre strumenti generalizzabili.
Un’altra risonanza di questa pratica a livello internazionale si ha con le molte esperienze di sciopero e solidarietà tra lavoratrici dei movimenti più recenti: le rivoluzioni arabe, il movimento Occupy negli Usa, il movimento degli Indignados nello stato spagnolo e le Nuit Debout in Francia contro la Loi Travail dell’allora governo Valls. In tutte queste esperienze le piazze sono divenute luoghi di partecipazione e democrazia diretta, di presa di parola libera, incontro, discussione e formazione, con esperimenti di intervento sindacale diretto e costruzione di scioperi generali fuori dai canali tradizionali del movimento sindacale, con picchetti e solidarietà a situazioni lavorative isolate e ipersfruttate. Non si è trattato di piccoli e simbolici interventi: in molte occasioni le lotte sono state capaci di trascinare e spingere oltre le proprie ritrosie le grandi centrali sindacali, che spesso hanno seguito gli scioperi convocati dai movimenti o hanno almeno dovuto dialogarci. La piazza in queste esperienze è stata il luogo dove quotidianamente ricostruire strumenti e forza collettiva a partire dalla solidarietà di base, dove chiunque può condividere il proprio problema, chiedere aiuto e fornire supporto ad altre ed altri in condizioni simili. Una piazza che diventa una casa aperta dove rifugiarsi, una struttura dove trovarsi anche a condividere i pasti, i momenti di socialità, e da cui partire per muoversi verso l’intera città.
In Italia in molti sono partiti da presupposti simili: dalle Clap (Camere del lavoro autonomo e precario) alle Camere del lavoro popolare, dai dopolavoro alle ciclofficine autorganizzate dai collettivi di rider, dagli spazi di mutuo soccorso a quelli abitativi e sociali che costruiscono sportelli sindacali autogestiti. Tutte realtà che condividono la necessità di ridare un luogo fisico a migliaia di lavoratrici e lavoratori al centro di condizioni di sfruttamento sempre più evidenti ma totalmente sole ad affrontare la propria situazione, senza riuscire a intercettare le strutture sindacali esistenti. Dalle braccianti nel sud Italia alle rider, dalle operatrici sociali alle lavoratrici di cura nei servizi, si tratta di figure senza garanzie né tutele, che vivono una precarietà permanente.
Ritorno al futuro sindacale
Le Case dello Sciopero di Non Una Di Meno e i tentativi di reinvenzione dello sciopero richiamano una precisa origine storica nella nascita della Camere del Lavoro, delle Bourse de Travail, delle Case del Popolo alla fine del diciannovesimo secolo in molti paesi d’Europa.
Come ricostruito da Salvatore Cannavò nel suo libro Mutualismo, si tratta di esperienze nate nel processo di formazione del movimento operaio. Originariamente pensate come luoghi di facilitazione dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro, diventano rapidamente luoghi di organizzazione politico-sociale nell’evoluzione delle società operaie di mutuo soccorso e nella loro messa in atto dell’unione tra la solidarietà di base per le necessità vitali e la costruzione di strumenti di resistenza, rivendicazione e lotta. Fondati su metodi orizzontali e di partecipazione di tutte le figure del lavoro, per andare oltre la divisione in mestieri, sono i luoghi da cui sorgeranno le principali strutture sindacali del Novecento in Europa.
Il secolo breve e le sue dinamiche trasformeranno la funzione di questi luoghi, disperdendone in gran parte il significato originale, ma in quell’origine c’è un significato prezioso da riscoprire oggi: come i gruppi di lavoratrici e lavoratori uniti attraverso la solidarietà possano amplificare la propria forza dotandosi di luoghi fisici, di punti di riferimento capaci di tenere insieme esigenze economiche e vertenziali, educazione popolare e formazione, legami di comunità e strumenti di conflitto.
Se il sindacalismo riparte dal sè
Nelle Case dello Sciopero dunque si stanno delineando gli strumenti di un (in)sorgente sindacalismo femminista, che tiene insieme tutti gli aspetti della vita di chi lo pratica.
Il lavoro riproduttivo è centrale in questa sperimentazione sia per liberare il tempo delle partecipanti sia perché attraverso la socializzazione del lavoro di cura si sperimenta il mondo che vorremmo, in cui la riproduzione della società di cui abbiamo bisogno è lavoro socializzato e non solo di alcune nell’isolamento e\o nello sfruttamento. Questi luoghi possono nascere solo dove c’è la capacità di farsi carico collettivamente del lavoro riproduttivo, altrimenti si esclude automaticamente chi ha delle persone di cui prendersi cura. Le case dello sciopero devono essere circondate da legami di solidarietà capaci di creare uno spazio aperto e inclusivo, in cui nessuna sia costretta a rinunciarvi perché non può pagare una baby sitter, o perché deve occuparsi di preparare il pranzo per la propria famiglia.
Nelle case dello sciopero si incontrano lavoratrici della cura sia salariate che non, così come lavoratrici salariate di tutti gli altri ambiti. Se si sceglie di costruire legami di solidarietà con persone che possono fare il lavoro di cura al posto nostro è per creare un luogo in cui la vita non sia frammentata, in cui non essere una lavoratrice o una madre o una sorella in base al momento della giornata, ma una persona intera portatrice di tutta la propria vita.
Uno spazio simile crea la possibilità di ripensare il sindacalismo senza dividerlo in ambiti e contratti diversi, ma come luogo in cui mettere tutto al centro e vedere dove sono le somiglianze e le differenze, dove dare e ricevere consigli, sostegno, e da dove uscire per lottare insieme.
“Ripartire da sè” quando si parla di lavoro significa mettere al centro le situazioni lavorative specifiche per aprire una riflessione collettiva valorizzando la vita di ognuna.
Ci basiamo sul concetto di “solidarietà per” e di “solidarietà contro”: costruire dei legami di solidarietà per usarli per combattere chi ci opprime, questo è il concetto cardine che porta il movimento Non una di meno, collettivi, organizzazioni, reti e singole a stare insieme in questo luogo. La solidarietà tra noi e per noi ci permette di ripensare come costruire la solidarietà contro. In questa costruzione solidale emerge nella pratica ciò di cui spesso parliamo in teoria: l’intersezionalità. Ascoltando le condizioni di vita delle soggettività oppresse si ha una prova tangibile del fatto che le oppressioni non agiscono a compartimenti stagni, che la condizione di chi vive diversi tipi di oppressione diventa un tutt’uno nella vita concreta. Dopo l’ascolto si mette in pratica questo approccio intersezionale attraverso la costruzione di vertenze sindacali che vedano protagoniste coloro che hanno raccontato la propria situazione e come alleate tutte coloro che partecipano alla Casa dello Sciopero.
Per fare questo siamo partite innanzitutto dalla formazione, iniziando dai bisogni di chi partecipa. Una formazione che mira a reimparare le due lingue fondamentali delle lavoratrici: la lingua dello sfruttamento e quella del conflitto.
La prima è la più comune: è notevole vedere come ricercatrici, operatrici sociali e meccaniche la parlino quasi allo stesso modo. È una lingua fatta di lavoro nero, mansioni non dovute che si è costrette a svolgere, contratti non rispettati, rischio di trovarsi da un giorno all’altro in mezzo alla strada.
Abbiamo anche scoperto nuove forme di dominio, o meglio, che ciò che per molte di noi era normale è in realtà illegale: esclusione da colloqui di lavoro in base alla propria razza o al proprio genere, lunghe giornate di lavoro senza pause, negazione del diritto di sciopero.
Abbiamo spolverato le nostre competenze, quelle di sindacaliste e avvocate e iniziato a imparare qualche parola della lingua del conflitto: come rispondere a un padrone razzista, sessista, o a uno che nega i nostri diritti; come funzionano contratti e licenziamenti, cosa possiamo o non possiamo fare. Soprattutto impariamo a non essere sole, anche tra situazioni di lavoro differenti ci si può alleare e dar vita a lotte collettive.
Vita psichica dello sfruttamento
Altro aspetto fondamentale emerso nella Casa dello Sciopero sono le dinamiche psicologiche delle situazioni di sfruttamento.
Le condizioni materiali infatti, come ci insegna lo storico marxista Edward Palmer Thompson, non possono essere ridotte a meri dati economici o sociologici: sono anzi pienamente comprensibili solo attraverso il vissuto di chi le vive. In queste esperienze non c’è semplicemente la formalità del proprio contratto, del tipo di licenziamento, della mansione e del livello salariale: c’è anche la paura del padrone, il timore dell’indifferenza delle colleghe, l’angoscia di non sapere come pagare le spese, la frustrazione degli abusi e molestie quotidiane, la demoralizzazione di fronte alla perdita del lavoro o a una condizione di vita che non sembra poter cambiare.
Una sofferenza e fatica psichica rese invisibili dai messaggi alimentati intorno a noi che ci invitano «ad essere sempre raggianti, splendide, accattivanti, qualsiasi cosa accada. Il lavoro è un’esperienza bellissima, vorrai lamentarti per un pò di fatica?».
La Casa dello Sciopero è un luogo dove poter condividere e raccogliere collettivamente anche questi vissuti, opponendo a quell’ingiunzione a «stare in silenzio» il non essere sole. Prendendo consapevolezza che altre sono immerse negli stessi vissuti, e che ci può essere un’alternativa.
Un’alternativa già praticabile oggi, con luoghi, strumenti e legami solidali per uscire dall’isolamento, e ribaltare la paura. Gli incontri della Casa dello Sciopero di Milano si chiudono sempre con la messa in scena di una situazione di sfruttamento o di abuso, dove calarsi ed esperire con il sostegno di tutte e tutti come difendersi, come non farsi schiacciare.
Questo luogo diviene così un posto dove riappropriarsi del proprio Sé annullato e silenziato, attraverso il riconoscimento con altri Sé ed esperienze di sfruttamento e sofferenza, cogliendo insieme gli elementi comuni e la forza ricompositiva.
Chiamarla “Casa dello Sciopero”
“Casa” è una parola evocativa, ad alcune fa pensare a un luogo caldo, sicuro, in cui si sta bene, ma è anche il primo luogo della violenza sulle donne, le mura alte che tengono tutto dentro, e lo spazio in cui si fa la maggior parte del lavoro di cura di bambine, invalide e anziane.
“Casa” quando parliamo di un nuovo sindacalismo femminista significa come detto socializzazione del lavoro riproduttivo, ma significa anche uscire dalla propria casa per costruirne una nuova, collettiva, fatta di diritti che si conquistano insieme, con mura alte per difendersi dagli attacchi ma una porta sempre aperta per chi, come noi, è oppressa.
Uno spazio per sperimentare un mondo nuovo, dei luoghi dove costruire nuovi strumenti per l’autorganizzazione. La Casa dello Sciopero fa in piccolo ciò che l’8 marzo farà in grande: mostrare cosa succede se ci fermiamo e ci uniamo.
Nota: l’articolo è stato scritto usando il “femminile universale”come scelta politica, la partecipazione alla Casa dello Sciopero è mista.
*Zoe Roncalli e Dario Firenze sono student* e lavoratrici precari*, attivist* della Casa dello Sciopero di Milano, dello spazio recuperato Ri-Make e della rete FuoriMercato.
Illustrazione di Sarah Mazzetti.
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