L’incognita del voto a sinistra
Le elezioni politiche italiane nella crisi sistemica non sembrano coinvolgere potenzialità positive per chi cerca di migliorare qui e ora la propria condizione
Il paese «senza sinistra» su cui riflettevamo nel primo numero di Jacobin Italia è quello che mai come questa volta si interroga confuso sul voto a sinistra. Per la prima volta esistono dichiarazioni pubbliche, prese di posizione che scompigliano le previsioni e rendono conto di un voto a sinistra mobile e spesso inaspettato. Alla vigilia si è espresso a favore del Movimento 5 Stelle Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, storico dell’arte, intellettuale militante nel campo della sinistra con posizioni molto radicali. Lo stesso ha fatto il filosofo marxista Augusto Illuminati, ma anche un giornalista come Gad Lerner che ha diviso il voto tra Pd e ancora M5S, mentre in molti si interrogano se occorra sostenere l’Unione popolare di Luigi De Magistris, come fa ad esempio la filosofa Donatella Di Cesare o l’alleanza rossoverde dei Verdi e di Sinistra italiana che si presenta alleata al Partito democratico, a Più Europa e addirittura all’inesistente partito di Luigi Di Maio.
Il voto a sinistra non è, insomma, del tutto scontato. E pesano le sconfitte del passato, la percezione di soggetti politici aggregati e riammodernati alla vigilia del voto, di cui spesso non si coglie l’utilità e che non riescono a pesare nello scontro politico complessivo.
Pesa, soprattutto, la difficoltà a convincere sui progetti e le strategie per il futuro al di là di obiettivi di corto e medio termine. Così, anche la discussione sulla pericolosità della destra che si appresta a vincere le elezioni e sulle necessarie contromisure, anche elettorali, scade in una discussione banalizzata sui social media e mai fatta davvero in sedi autorevoli, in grado di restituire un pensiero compiuto. Minimizzare il ruolo di un partito come Fratelli d’Italia al governo del paese è spia di un atteggiamento settario e in realtà disinteressato a cogliere gli umori anche di buona parte dell’elettorato popolare e incapace di fare i conti con il mix che potrebbe innescarsi tra pulsioni autoritarie e una situazione economica, sociale e internazionale sempre più critica ed esplosiva. Il problema non è l’arrivo del fascismo il giorno dopo la vittoria, probabile, di Giorgia Meloni, ma il grado di cultura fascista che quel governo porterà con sé e il suo rapporto con la crisi di sistema che il capitalismo sembra incontrare.
Non si può dare torto però a chi non se la sente più di votare, sia pure indirettamente, per il Partito democratico, ormai esso stesso un problema democratico e un intralcio alla ricostruzione di una forza della sinistra dalla massa critica adeguata. Inutile fare qui di nuovo l’analisi sulla natura di quel partito e sulla sua assoluta determinazione a puntellare, sia pure conferendogli un volto umano e meno aggressivo, il capitalismo italiano e internazionale.
In questa difficoltà prende piede l’ipotesi di votare anche per il M5S, mettendo la sordina al suo interclassismo, alla sua totale adesione al libero mercato o al fatto che nelle scelte effettuate al governo, anche scandite da misure orientate alle classi popolari – il reddito di cittadinanza innanzitutto – quel partito sia stato un punto di riferimento per la gestione del sistema che pure a sinistra si vuole radicalmente modificare. Ma lo scontro tra i 5 Stelle e le classi dirigenti italiane, precipitato nella non fiducia a Mario Draghi, tende a dipingere anche il partito di Giuseppe Conte come opzione vagliabile per chi intende rafforzare una componente sociale a sinistra del Pd e far pagare a quest’ultimo la grave decisione di non formare un’alleanza, sia pure elettorale, per impedire la vittoria strabordante del centrodestra.
Le forze che reclamano un voto a sinistra, dal canto loro, ribattono ragioni robuste del proprio agire e insistono nel ritenere che una prospettiva alla crisi italiana passi anche per il voto alle loro istanze.
Elisabetta Piccolotti è coordinatrice di Sinistra italiana e candidata al proporzionale in Umbria e Puglia. Ha una lunga militanza politica avendo cominciato giovanissima nei Giovani comunisti e in Rifondazione comunista, poi in Sel e ora in una Sinistra italiana che potrebbe dare stabilità all’alleanza con i verdi. E pur sottolineando che quella che si è appena conclusa sia stata «una brutta campagna elettorale dal punto di vista del dibattito tra le forze politiche» mette l’accento sul dato positivo della «nostra capacità di comunicare e di ritrovarci in sintonia con le giovani generazioni in particolare sui due temi per noi centrali: diseguaglianze e i cambiamenti climatici». Con l’eco delle manifestazioni di Fridays for future ancora viva non è difficile ipotizzare che una parte di quella mobilitazione possa trovare spazio nell’unica offerta dichiaratamente ambientalista e che ha presentato un programma ecologista abbastanza radicale. Ma il voto giovanile è ovviamente una porzione limitata, per quanto significativa, soprattutto in funzione del futuro e il resto della popolazione resta ancora distante da queste scelte.
Soprattutto che ragionamento fare in funzione di una sinistra più ampia, quale prospettiva per costruire una massa critica adeguata e una incisività che sembra ormai persa dai tempi del Partito comunista italiano? Piccolotti non si avventura sul terreno scivoloso delle riaggregazioni a sinistra e si capisce comunque che il tema non le piace; non è qui che Sinistra italiana giocherà le sue carte quanto piuttosto sull’alleanza-competizione con il Pd: «Siamo convinti di aver costruito un progetto politico che punta a costruire una massa critica che può consentire, ovviamente se ci saranno risultati soddisfacenti, di spostare l’asse del centrosinistra e del campo democratico». La sfida non è solo al Pd, quindi, ma anche al M5S: «Non solo a governare insieme per un governo di cambiamento ma anche a superare le posizioni non condivisibili di entrambi». Quali sarebbero queste posizioni non condivisibili? «Per il Pd che si vince al centro e per il M5S che non c’è differenza tra destra e sinistra».
Si punta così a un nuovo «campo largo», Piccolotti lo dice esplicitamente. Per questo rivendica la scelta dell’alleanza: «Siamo certi di aver fatto bene a sommare i voti nei collegi uninominali perché senza indebolire la destra qualsiasi progetto si condanna all’opposizione. Però scommettiamo sul nostro risultato e sul nostro ruolo per ricostruire questo campo e offrire così una nuova prospettiva».
Sembra un po’ troppo ambizioso, forse anche presuntuoso, ma qui si tratta, spiega Piccolotti, di guardare ai prossimi anni, di superare così una soglia iniziale per poi cogliere una tendenza più favorevole in un elettorato più ampio.
Se è così, la prospettiva è tracciata: stabilizzare l’alleanza rosso-verde «se il risultato sarà soddisfacente» e senza puntare a «costituenti o congressi fondativi». Nessuno si sbilancia a quantificare un risultato soddisfacente, ma par di capire che sopra il 4% il bilancio possa essere positivo.
E quindi siamo in un raggio d’azione molto diverso e molto distante da quello che prospetta Unione popolare. La sigla elettorale, mutuata dall’Union populaire che in Francia, sotto la leadership di Jean-Luc Melenchon ha superato il 25%, ha visto la convergenza di Rifondazione comunista, Potere al Popolo, il gruppo parlamentare Manifesta (ex M5S) e DeMa il partito di Luigi De Magistris indicato come leader.
Qui siamo nel campo della sinistra più radicale, di classe con posizioni nette contro la guerra, la strategia Nato e l’invio di armi occidentali all’Ucraina, e posizioni ambientaliste radicali.
Per Giuliano Granato, portavoce di Potere al popolo, candidato al collegio proporzionale di Salerno-Avellino, «la posta in gioco a sinistra è unire i bisogni di cui non si è parlato, come ad esempio il lavoro nero, mentre il dibattito finora si è concentrato tutto sulle alleanze, sul Pd, sul pericolo fascista della Meloni. Invece le questioni urgenti sono la guerra e il caro-vita». I contenuti, la visione solidamente ancorata alle classi popolari mette in risalto l’equivalenza tra le politiche proposte da centrosinistra e centrodestra, non a caso uniti nel governo Draghi, e la necessità di offrire risposte alternative: «L’Italia è un paese ricco, ma la ricchezza è concentrata in pochissime mani. Avremmo bisogno di tassare gli extra-profitti per sanare il caro bollette, di un salario minimo a 10 euro, di una vera transizione ecologica investendo nelle rinnovabili».
Se invece parliamo di rapporti a sinistra, di alleanze mancate, di poca incisività la tendenza è quella di mettere in risalto le colpe degli altri: «I responsabili sono quelli che hanno fatto perdere alla sinistra la virtù più importante, la credibilità. Chi si spaccia per sinistra e pratica politiche di destra. La sinistra è stata massacrata da chi si proclamava di sinistra e se è divisa è perché c’è chi si presenta come foglia di fico del Pd». Prospettive divergenti e distanti, appunto e che non saranno risolvibili né a breve né a medio termine.
Ed è normale che sia così, vista la diversità progettuale: chi punta a un nuovo «campo largo» non può rapportarsi a chi quel campo vorrebbe farlo saltare. Ma resta il problema della prospettiva, di quale progetto viene messo in campo. A Granato contestiamo che ancora una volta in Italia si è costruita una lista elettorale-fotocopia di un progetto estero, come se bastasse questo a risolvere i problemi immensi di radicamento, di idee, cultura politica. «Non credo che siamo una copia, noi cerchiamo di costruire qualcosa insieme ad altri. Ci sono esempi in Italia che dimostrano che quando si persegue il proprio obiettivo in maniera credibile i risultati arrivano, si veda il M5S nonostante poi si siano alleati con tutti e con il loro contrario. A sinistra occorre tracciare il percorso e percorrerlo con determinazione». Una prospettiva di costruzione autocentrata, quindi, magari in un periodo medio-lungo, accumulando un punto alla volta, un pezzetto alla volta per poi arrivare a una massa critica consistente. Granato in fondo la mette così: «Non si tratta di riunire la sinistra ma di andare dal nostro blocco sociale di riferimento, da quelle fasce di popolazione che sono il cuore di un progetto di riscatto». E così si prefigura anche il dopo elezioni, a prescindere dal raggiungimento o meno della soglia del 3%: «Abbiamo bisogno di strumenti politici per guardare al tempo lungo e che non siano misurati sul tempo elettorale». Giusto proponimento, ma non sembra molto diverso da quelli ribaditi cinque e dieci anni fa. Non si tratta, ovviamente, di dare lezioni a chi lavora sul campo e cerca di affermare una propria ipotesi, tutt’altro, ma solo di esibire i dubbi, le perplessità di tanta parte del mondo che una volta a sinistra non aveva dubbi su come votare e oggi invece quelle certezze le ha perse.
Poi c’è il tema della guerra: giusto mettere in risalto le strategie occidentali, il ruolo nefasto della Nato, il no alle spese militari e all’invio di armi. Ma a sinistra ritorna il conto irrisolto con quello che si chiamava «campismo»: chiunque contrasti il mio nemico è ben accetto e comunque non si critica. E così questo no alla guerra a volte sfocia in un silenzio su Putin e sul regime russo: «Il rischio in astratto c’è – conviene Granato – perché se riduci il campo a Russia vs Usa o Russia vs Nato la bipolarizzazione è evidente. Ma se il punto di riferimento non sono i governi ma i popoli che la guerra la soffrono, il popolo ucraino o il popolo russo e anche i nostri popoli che pagano le conseguenze della guerra, non credo che siamo all’interno di un ‘campo’, ma di una scelta tra chi governa e chi è governato». Il colloquio è stato fatto prima che Putin annunciasse la nuova escalation, prima delle parziali proteste in Russia che invece sembrerebbero meritare un supporto più convinto da tutti noi.
Ma qui non si tratta di mettere in evidenza i vari contenuti che pongono problemi a chi vorrebbe fare scelte di sinistra radicale: De Magistris, ad esempio, ha fatto dichiarazioni controverse sul ruolo dei vaccini mentre in un mondo che Jacobin Italia ha molto a cuore, desta stupore la candidatura di Massimo Arcangeli, fiero avversario del tema soggettività-lingua sintetizzabile nella questione dello schwa.
Il punto sono le strategie e i risultati che quelle strategie possono supportare. È chiaro che un’affermazione rossoverde possa creare più problemi al Pd e all’evoluzione di un nuovo centrosinistra, soprattutto se allo stesso tempo non dovesse sfondare elettoralmente il progetto di Calenda e Renzi. Un Pd che avesse alla sua sinistra, tra M5S e Verdi+Sinistra italiana circa il 20% dell’elettorato non potrebbe distanziarsene troppo agilmente. Dall’altro lato si propone una crescita progressiva da piccolo partito a forza più incisiva con le speranze evidenti di chi costruisce un simile progetto e i dubbi comprensibili di chi vede l’impresa piuttosto improbabile.
Resta il mistero del voto al M5S che però il sociologo Domenico De Masi, una delle teste pensanti che ha non solo studiato ma consigliato attivamente il movimento di Conte, inserisce a pieno titolo nel campo della sinistra. Tanto da invitare a non astenersi chi cerca la sinistra perché, come ha scritto sul Fatto quotidiano, «mai come in questa tornata elettorale le alternative a sua disposizione sono numerose e sufficientemente diverse l’una dall’altra». De Masi infatti nel ricco menu inserisce oltre a Up e Alleanza rossoverde, anche Italia progressista, cioè il Pd insieme ad Articolo Uno (Roberto Speranza e Pierluigi Bersani) e, ovviamente, il M5S.
«Il programma del Movimento 5 Stelle – scrive De Masi – non si colloca esplicitamente a sinistra ma molti suoi contenuti sono riconducibili al paradigma socialdemocratico. Esso prevede il salario minimo; il rafforzamento del decreto dignità e del reddito di cittadinanza; la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; la parità tra uomo e donna sia per il salario che per i tempi di congedo di paternità e maternità; una serie di sgravi e incentivi per i giovani; un nuovo statuto sia dei lavoratori che delle imprese; un piano di edilizia residenziale pubblica; bonus per la transizione energetica; stop a trivellazioni e inceneritori; promozione dell’economia circolare; riconduzione della salute alla gestione diretta dello Stato; estensione del voto ai sedicenni e del limite di doppio mandato per tutti i partiti; Ius Scholae; disciplina dei beni comuni».
Secondo De Masi, in realtà, Conte deve ringraziare soprattutto il Pd e lo stesso Di Maio che uscendo dal movimento ha eliminato un bel po’ di equivoci. «Letta ha fornito a Conte un duplice aiuto: spostando il Pd sempre più al centro, ha consentito al Movimento 5 Stelle di accreditarsi come unico partito difensore di quella massa e, dunque, collocato a sinistra».
I dati delle rilevazioni statistiche confermano questa interpretazione se è vero che «coloro che definiscono la propria condizione economica come alta o medio-alta sono circa il 25% di quelli che voterebbero Pd contro il 10% dell’elettorato 5 Stelle».
Ma De Masi aggiunge un altro spunto: «La contrapposizione frontale alla Meloni, che Letta ha portato avanti con l’appello al voto utile sta restituendo senso e vigore alle categorie di destra e di sinistra. E l’identikit di chi si colloca a sinistra è ben delineato: egli considera come punto di riferimento sempre e solo la parte oppressa della società; si batte in modo radicale per l’uguaglianza, la socialdemocrazia e lo stato, contro i privilegi e la precarizzazione provocati dal neoliberismo». Al di là delle volontà e delle intenzioni, obiettivamente questo quadro calza oggi più a Conte che a Enrico Letta e questo spiega la risalita nei sondaggi del M5S nelle ultime due settimane e gli orientamenti al voto di una parte consistente di quello che veniva definito il «popolo della sinistra».
La sera del 25 settembre, e nelle analisi dei giorni successivi, si capirà se queste impostazioni avranno avuto senso e successo per i protagonisti che le portano avanti. Restano i sentimenti di inquietudine e di incertezza che attraversano chiunque si avvicini al voto, al di là della propria scelta, con in testa il desiderio e la speranza di un rivolgimento sociale e di un protagonismo diretto di chi agisce nella società. Perché il voto definirà rapporti di forza tra i partiti, segnerà il futuro del governo e quindi le scelte di fondo dell’Italia in quella che appare una crisi sistemica – la crisi ambientale, sanitaria, la crisi internazionale e la guerra e la recessione – ma non sembra incorporare potenzialità positive per chi cerca di migliorare qui e ora la propria condizione, i propri diritti, il proprio futuro. La distanza che separa il 23 dal 25 settembre, le piazze di Fridays for future e il voto per il rinnovo del Parlamento, rende nitidamente questa angoscia. L’equazione è difficile da risolvere, ma solo quando si comincerà a colmare quel gap, il voto della sinistra avrà un sapore nuovo.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
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